1. Il teschio del cittadino Amleto
"Homo sum et quod humanum mihi interest". Sono un uomo e ciò che è umano mi interessa. Il principio fondamentale della cosiddetta humanitas del grande commediografo latino Publio Terenzio Afro.
Questa massima basterebbe da sola a spiegare il motivo che mi ha spinto a scrivere questo libro. Ma c'è di più.
Faccio parte della generazione che purtroppo ha assistito agli omicidi "eccellenti" della mafia, al delitto Moro, alle stragi terroristiche che hanno insanguinato il povero Stivale, alla follia delle Twin Towers, all'omicidio di John Lennon e a tanti altri scempi dell'umana convivenza (perdonate l'eufemismo) che hanno tolto un bel po' di magia alle illusioni della nostra infanzia e adolescenza. Ma, fra questi tristi risvegli da un sogno a lungo cullato, non posso non annoverare anche un altro fatto di cronaca, che, se è vero che non ha portato, come negli altri casi, alla soppressione fisica di una vita umana, è stato comunque foriero di una vera e propria morte civile delle vite coinvolte. Mi riferisco alla condanna definitiva, in sede processuale, di due uomini per i quali i fatti e le azioni avrebbero dovuto parlare più delle voci che si sono alzate ad accusarli in un perverso coro di vaghezze. Un simbolo storico dell'antimafia (quella vera, quella con la "A" maiuscola) e un suo stretto collaboratore, entrambi travolti da quella slavina giuridica che è l'ibrido reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Un misfatto, alla luce dei successi investigativi conseguiti dai due e della lucida memoria di chi ha collaborato con loro per decenni. Un clamoroso successo, sotto l'opposta luce della propaganda di una vera e propria ideologia contrapposta, forte delle parole molto meno lucide di chi dai due è stato, invece, perseguito con costanza ed accanimento. Due condanne che appaiono ingiuste ed inserite in un paradosso, uno dei tanti cui la Penisola ci ha, purtroppo, abituato. Queste condanne definitive si sono, infatti, incastonate in un quadro generale che, per il resto, rimane comunque ed inequivocabilmente quello di una storica riscossa dello Stato nella lotta contro la mafia. Due condanne ingiuste che non devono permetterci di ricadere in quello che appare come uno dei più magistrali equivoci della storia dell'Italia repubblicana. Una storia fatta di dualismi, di Coppi contro Bartali, del Milan contro l'Inter, del campanile eretto a paradigma di vita, di Signorie e Comuni in lotta fra loro, di un infinito particulare dal quale l'italiano non è mai riuscito ad uscire fin dai tempi del buon Guicciardini. In nome di questi criteri di dubbia valenza l'Italia di oggi appare politicamente spaccata fra una destra e una sinistra che giocano (giusto o sbagliato che sia) a rinnegare i loro retaggi storici e spesso vestono i mistificatori ed annacquati panni di un comodo "centro-destra" o "centro-sinistra", omaggio ad una ignava mentalità di compromesso con un'idea di "centro" che rappresenta l'ideale forma di equilibrio precario fra posizioni forti che pochi hanno il coraggio di assumere e che richiama tentativi neanche troppo mascherati di ingraziarsi il favore dell'italiano medio indissolubilmente legato a tonache e ad aromi d'incenso. Qual è l'equivoco cui si accennava poc'anzi? La risposta soffia nel vento degli italici costumi appena richiamati. In nome di questa bicefala (ma, forse, in realtà acefala) mentalità da derby e da compromesso con "moderatismi" da salotto, certamente di basso profilo, l'Italia si spacca non soltanto su palloni o biciclette o sulla scaccia di Modica che è più buona di quella di Ragusa (o viceversa), ma anche su problemi più importanti. Il risultato della perversa somma dei due addendi sopra identificati riguarda anche le istituzioni e origina, in questo caso, un totale che assume una veste quasi pregiudiziale: negli ultimi anni sembra, infatti, che l'uomo di destra (rectius di centro-destra) debba essere per forza di cose contro la magistratura (spesso per farraginosi motivi che parte della stampa italiana ha identificato con la locuzione latina ad personam), mentre l'uomo di sinistra (rectius di centro-sinistra) debba per forza di cose sostenere l'operato delle toghe (spesso per motivi dal vago sapore ideologico). Ma in medio stat virtus. Il che, tradotto nei termini relativi al nostro discorso, significa che la magistratura non "sbaglia" o "ha ragione" in partenza: chiunque, con toga o no, può sbagliare o può agire correttamente. Uno Stato di diritto deve prevedere degli strumenti (o, come qualche costituzionalista ama dire, dei "congegni") per far fronte all'evenienza dell'errore: le nostre leggi li prevedono (ad esempio, la revisione del processo) ma bisogna anche che vi sia la possibilità di applicarli. Nel senso che tale possibilità, a volte, rischia di essere inficiata, sul piano pratico, da muri costruiti sulla disinformazione, sul disinteresse dell'opinione pubblica o su variegate forme di preconcetti che costituiscono degli emboli che non aiutano il fluire di quella che, sulla carta, è e dovebbe essere la normale "circolazione sanguigna" di un organismo come quello dello Stato. Di uno Stato che voglia definirsi davvero democratico ed evoluto. Se questi strumenti funzionassero a dovere, se fossero sostenuti da mentalità aperte e non da pregiudizi di "casta" o da gonfalone medievale, ogni giudizio, ogni opinione, ogni idea sarebbe molto più rasserenata dalla calda luce di criteri discretivi basati sui fatti e non sui preconcetti. Ecco perchè, se le condanne cui ci riferivamo poc'anzi appaiono ingiuste e immotivate, esse non devono, però, condurre a giudizi negativi sull'intero operato di una magistratura che, a partire da nomi come quelli di Pietro Scaglione, Cesare Terranova, Gaetano Costa, Rocco Chinnici e dalla leggendaria esperienza del pool antimafia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino a metà degli anni '80 fino ad arrivare ad Antonino Saetta, Antonio Scopelliti e Rosario Livatino, ha pagato per il suo lavoro un tributo altissimo di sangue e, nonostante questo, ha ottenuto successi che costituiscono una delle poche cose delle quali i cittadini italiani (che, per il resto, hanno davvero poco di cui vantarsi viste le attuali condizioni politiche ed economiche del Paese) possono sentirsi orgogliosi. Un lavoro che è stato proseguito da molti epigoni e che ha portato a nuovi successi nella lotta alla criminalità che hanno scritto delle pagine di storia. Un lavoro lungo e complesso, per il quale non è stata ancora scritta la parola "fine". Ma, se non possiamo e non dobbiamo dimenticare questi indiscutibili meriti, non possiamo e non dobbiamo neanche dimenticare che esiste la possibilità dell'errore giudiziario. Più in generale, dell'errore umano. Il fatto che moltissimi magistrati abbiano compiuto il loro dovere e lo abbiano svolto egregiamente non vuol dire, in maniera assiomatica, che non possano esserci dei giudici che potrebbero sbagliare. Non vuol dire che tutti i buoni stiano da una parte e tutti i cattivi dall'altra, se è vero com'è vero che una personalità del calibro di Leonardo Sciascia stigmatizzava alcuni eccessi di quelli che lui stesso definiva "i professionisti dell'antimafia", intendendo con questa locuzione definire alcuni personaggi che, nella loro azione vòlta indubbiamente ad una renovatio rerum, hanno squarciato un Mar Rosso che, richiudendosi, ha travolto indiscriminatamente tutto e tutti, anche coloro contro i quali non erano state trovate prove certe. E, soprattutto, non vuol dire che uno dei perni su cui, spesso, tale lavoro si è basato, vale a dire le dichiarazioni dei "pentiti" di mafia, non possa scricchiolare. In altre parole, se un "pentito" in alcuni casi ha detto la verità e ha contribuito a successi investigativi e giudiziari che non dobbiamo dimenticare, questo non vuol dire che la sua parola debba diventare legge in maniera apodittica, soprattutto in assenza di quei riscontri oggettivi che la legge richiede e in omaggio a forzature formali come la cosiddetta "convergenza del molteplice" (principio per il quale una dichiarazione accusatoria appare suffragata, ancorchè in assenza dei suddetti riscontri oggettivi, soltanto dall'esistenza di una simile dichiarazione fatta da altri). E poi, può anche sorgere il sospetto che alcuni "pentiti" possano averne approfittato per consumare delle vendette personali: non è stato raro, infatti, il caso in cui essi abbiano praticamente permesso che scattassero le manette ai polsi di chi le aveva fatte scattare ai loro polsi anni prima. E torniamo al discorso delle condanne ingiuste. Condanne che sono piombate tra capo e collo su due uomini, due poliziotti, Bruno Contrada e Ignazio D'Antone, che sono stati per decenni ai vertici della Polizia a Palermo e che, in realtà, come dimostrano gli atti e i fatti più che le parole dei loro accusatori, hanno fatto a loro volta il loro dovere. In maniera splendida. L'altrettanto splendido lavoro dei tanti magistrati cui accennavamo prima ha trovato, infatti, i suoi prodromi proprio nell'operato di quei due poliziotti e di tanti altri come loro. Non lo dico io. Lo dicono gli atti e le centinaia di testimonianze concrete a loro favore. E, se su Contrada e D'Antone il macigno delle accuse dei "pentiti" si è abbattuto fino allo schiacciamento definitivo, tanti altri sono i nomi di poliziotti e carabinieri, coinvolti anch'essi, e in molti casi dai "pentiti", in storie che hanno rischiato di sopraffarli. Storie che non sempre si sono trasformate in processi e, in alcuni casi, si sono concluse nella maniera più tragica possibile. Storie che, al di là dei casi in cui la giustizia ha fatto davvero il suo giusto corso (e non sono stati pochi), hanno rappresentato un'infernale zuppa i cui ingredienti sono stati proprio l'acritico orientamento di un certo "professionismo dell'antimafia" e il dogma dell'infallibilità ex cathedra attribuito ad alcuni "pentiti". Storie che noi riportiamo, store cui, impotenti spettatori, abbiamo assistito, storie che suscitano delle domande. E noi siamo qui per porcele, queste domande. Rispettando chi ha agito per il verso giusto, ma chiedendo che cosa, in alcuni casi o processi, compresi quelli di Contrada e D'Antone, non abbia funzionato. Si tratta di vicende oscure, e spesso oscurate da risvolti tragici, come quella del maresciallo dei Carabinieri Antonino Lombardo, ma anche di storie di strani veleni, come quella del tenente dei Carabinieri Carmelo Canale, o di storie dai risvolti inquietanti, come quella del capitano dei Carabinieri Giuseppe De Donno, del colonnello dei Carabinieri Carlo Giovanni Meli, del capitano dei Carabinieri Sergio De Caprio, il leggendario "capitano Ultimo" che arrestò Totò Riina, del generale dei Carabinieri Mario Mori, comandante del ROS (Raggruppamento Operativo Speciale dell'Arma) e poi direttore del SISDE, il servizio segreto civile, del colonnello dei Carabinieri Mario Obinu. Da cittadini, vogliamo capire. Capire cosa sia realmente successo, ma capire anche se dobbiamo accettare il fatto che la nostra sicurezza possa essere stata tutelata per anni da funzionari ed ufficiali che possano aver fatto il doppio gioco nonostante gli straordinari risultati conseguiti sul campo. Il che, ci perdonino coloro che la pensano in maniera diversa, appare comunque come una contraddizione dall'attrito assolutamente esplosivo e dallo stridore di gran lunga superiore a quello dei denti della Geenna di biblica memoria. Come può verificarsi, infatti, che un poliziotto come Bruno Contrada, che detiene il record di mafiosi arrestati, che ha conseguito brillanti successi investigativi che gli hanno fruttato decine e decine di encomi e attestati, che ha firmato una mole incredibile di atti e rapporti di denuncia contro importanti esponenti di Cosa Nostra ed il cui impegno non è mai stato messo in discussione da colleghi, dipendenti e superiori (che lo hanno riferito al processo) abbia potuto al contempo favorire quegli stessi mafiosi che perseguiva così tenacemente? La risposta hanno cercato di fornirla i giudici che lo hanno condannato in primo grado, in spregio ad ogni legge della logica ed arrampicandosi su specchi lucidi e lisci: "D'altra parte deve considerarsi" - scrivono i giudici a pagina 745 delle motivazioni della sentenza di condanna di primo grado - "che, per il ruolo di grande prestigio ricoperto, il dottore Contrada, all'epoca dirigente della Squadra Mobile, non solo non poteva rischiare di ingenerare sospetti presso i suoi superiori e i propri collaboratori, ma doveva mantenere un'immagine di funzionario impegnato nella lotta ai mafiosi anche per conservare un ruolo di centralità che gli consentisse di rimanere al centro del flusso delle informazioni 'importanti'. Certo è impensabile che un dirigente di tale livello potesse omettere rapporti di denuncia per favorire i mafiosi, tanto più se necessitati da spunti investigativi e da operazioni condotte personalmente da altri funzionari, perchè un tale atteggiamento avrebbe immediatamente svelato il proprio doppio ruolo; ciò che l'organizzazione criminale poteva pretendere era, piuttosto, una 'copertura' delle latitanze dei personaggi più importanti... Il passaggio di notizie funzionali a limitare i danni".
In queste surreali affermazioni c'è la triste fotografia dell'intero processo. E' risultato in maniera incontrovertibile che Contrada abbia perseguito dei mafiosi tenacemente, insistentemente e con successo? Non poteva non farlo! Avrebbe destato dei sospetti che gli avrebbero impedito di continuare a giocare con due mazzi di carte. Pensate un po' se non avesse neanche pòsto in essere tutta l'attività investigativa che ha svolto... Invece lo ha fatto, ma tale attività non solo è stata ignorata dal Tribunale ma è stata addirittura valutata come una prova dell'operato di Contrada in favore della mafia: "In definitiva" - osservano, sconsolati, gli avvocati Piero Milio e Gioacchino Sbacchi, difensori di Contrada fino all'ultimo giudizio di Cassazione, nell'atto di impugnazione in appello della sentenza di condanna di primo grado - "Contrada avrebbe pòsto in essere azioni contro i mafiosi per meglio favorire i mafiosi!". A parte l'evidente ossimoro, le conclusioni dei giudici portano ad altre conseguenze che definire nefaste sarebbe soltanto un eufemismo:
1) anzitutto l'inutilità assoluta di addurre a propria difesa prove concrete di impegno e di onestà umana e professionale, il che si traduce in una compressione ed in un misconoscimento dell'attività di difesa processuale che non è per nulla compatibile con i dettami di uno Stato di diritto. In altre parole, spazio alle accuse, tanto le prove a discarico verranno valutate con un altro metro di giudizio;
2) l'incapacità di sapere e, vieppiù, anche quella di intuire da parte di centinaia e centinaia di funzionari, superiori, colleghi o subordinati, e anche di appartenenti ad altre istituzioni e forze di polizia, cui Bruno Contrada sarebbe riuscito per anni e anni ad occultare il proprio vero volto. Gli unici che, secondo l'accusa, avrebbero "capito", ossia il questore Vincenzo Immordino, i vicequestori Boris Giuliano e Antonino Cassarà ed il commissario Giuseppe Montana, non solo sono stati tirati in ballo sulla base di vaghissime aure di sospetti e diffidenze (smentite da tutti coloro che li hanno conosciuti) ma sono morti e non possono confermare di "aver capito" nè smentire ciò che altri hanno loro proditoriamente attribuito.
Ecco perchè la condanna di Contrada e D'Antone, insieme alle vicende giudiziarie degli altri esponenti delle forze dell'ordine che abbiamo or ora citato (e delle cui vicende diamo conto in altra parte di questo libro), rappresenta un altro degli scempi cui la nostra generazione ha dovuto assistere.
Non sembri eccessivo l'uso del termine "scempio". Il caso Contrada ha rappresentato il trionfo del sospetto sulla certezza, dell'indizio sulla prova: altro che trovarsi "al di là di ogni ragionevole dubbio". Amleto, al confronto, aveva certezze inossidabili. E poi, bisogna anche considerare che c'è stata una sentenza di assoluzione (quella che ha concluso il primo ricorso in appello) della quale i giudici successivi non hanno praticamente tenuto conto, ma che rappresenta un passo importantissimo per capire l'evoluzione dell'iter processuale. "Basterebbe, a dire il vero, pensare solo un momento" - scrive Nino Ippolito sul sito Internet www.giustiziagiusta.it il 10 gennaio 2008 - "alla sentenza d’appello che, dopo la prima di condanna, ha assolto Contrada 'per insussistenza del fatto', per capire come in questa storia non c’è il 'nero' da opporre al 'bianco', ma tante sfumature di grigio. Come fanno dei giudici a dire che Contrada è innocente ed altri che è colpevole? Tanto arbitraria è l’interpretazione del diritto? Tanto malleabile può risultare la sorte di un uomo posto innanzi alla mutabilità di umori, testimonianze, teoremi e pentiti, tale da farlo passare, con un tratto di penna, dal girone dei puri a quello dei collusi? Certamente, si rimane disorientati nel constatare come un uomo delle Istituzioni sia stato giudicato da altri uomini dello Stato ora colluso ora integerrimo poliziotto. La sua storia sembra il canovaccio dei mascariati, dei sospettati. E in una terra dove l’integralismo giustizialista, quello del 'sospetto come anticamera delle verità' (infausto 'assioma' partorito, a dispetto delle propagandate, grigie 'primavere', in tempi bui da Padre Ennio Pintacuda negli anni del suo obnubilamento orlandiano…) arma le fionde di quell’antimafia di mestiere che s’è fatta partito e potere consolidato, basta il 'puzzo' dell’ambiguità, di un’incertezza, di un sospetto, per decretare la morte civile di una persona". Una fotografia spietata ma realista, senza ritocchi di alcun genere.
"Il fatto stesso che in questa vicenda ci sia stata una sentenza di assoluzione con formula piena su tre gradi di giudizio" - aggiunge Vito Di Lernia l'8 gennaio 2008 sul sito Internet www.ragionpolitica.it - "permette di avanzare ragionevoli dubbi sugli altri verdetti di condanna. In assenza, a distanza di sette mesi dall'ultima sentenza, delle motivazioni di condanna, rimane certo un fatto: che le prove che hanno portato al giudizio di colpevolezza rimangono, in assenza di riscontri probatori significativi, esclusivamente le testimonianze di mafiosi pentiti. Si tratta inizialmente di quattro soggetti (Tommaso Buscetta, Gaspare Mutolo, Giuseppe Marchese, Rosario Spatola) che hanno prodotto altre 'testimonianze' anche nei processi a carico di Giulio Andreotti e del giudice Corrado Carnevale che non sono state ritenute sufficienti. Alle testimonianze dei primi quattro pentiti se ne sono aggiunte diverse altre, in base alle quali era 'notorio' il fatto che Contrada fosse colluso con la mafia per 'sentito dire' da altri boss mafiosi o persone decedute al momento del processo e quindi impossibili da verificare, senza che si sia mai scoperto o neppure ipotizzato un movente o un reato-fine a carico dell'imputato. Contraltare alle testimonianze di 17 pentiti attendibili secondo la tesi per cui 'più dichiarazioni convergenti fanno una prova' sono state quelle a favore di Contrada da parte di centinaia di persone appartenenti in gran parte alle istituzioni, alle forze dell'ordine e ai servizi cui non è stato dato credito perchè provenienti da 'amici o conoscenti' dell'imputato. Fra queste quella di Rita Bartoli, moglie del procuratore capo di Palermo Gaetano Costa ucciso dalla mafia nel 1980". Ecco un altro motivo per cui abbiamo usato il termine "scempio".
La generazione passata ha assistito alla Guerra Fredda, alla crisi della Baia dei Porci, agli omicidi di John e Robert Kennedy e a quelli di Martin Luther King e di Malcom X, alla guerra del Viet-Nam e sùbito prima a quella di Corea. La generazione ancora precedente a Hiroshima e Nagasaki, all'Olocausto e alle tragedie delle due guerre mondiali. E così via. Ognuno ha assistito a qualcosa che lo ha segnato nel profondo, non è una questione di paragoni, ma certo non posso negare che gli avvenimenti della mia epoca abbiano avuto il loro influsso sulla mia vita. Ventidue anni della quale li ho trascorsi a Palermo, dal 1974 al 1996. E anche Palermo ha influito sulla mia vita. Non mi ritengo più fortunato o più sfortunato di altri. Palermo è una città che sa essere meravigliosa, in quanto a bellezze artistiche, attività culturali, clima e cibo, ha un aeroporto, è dotata di verde pubblico e di viali alberati (anche se non troppi), ha il mare e la montagna, ha una grande storia, a tratti unica. Ma è anche una delle capitali mondiali del malaffare, della mafia, di una mentalità ristretta, provinciale, ottusa che favorisce così come il disordine del traffico o dell'edilizia anche l'anarchia amministrativa ed il proliferare di traffici loschi, accordi sottobanco e gestioni occulte di ogni genere. Senza per questo affermare (come qualcuno ha fatto in passato) che a Palermo non si poteva neppure camminare per strada senza rischiare la vita (non è vero: io, cittadino qualunque, ci ho camminato, da solo e in compagnia, in qualunque zona, a qualsiasi orario del giorno e della notte), non si può però negare che Palermo è stata la città dell'autostrada minata, delle autobomba in pieno centro, degli scenari di guerra in tempo di pace, degli oltre duecento morti in un solo anno (ancorchè per la maggior parte criminali conclamati uccisi dai loro stessi colleghi), ed è stata, in più occasioni, tristissime per ogni coscienza onesta e libera, la tomba di moltissimi Giusti, che forse in un altro posto (fuori dall'Italia) si sarebbero potuti salvare. Molte, troppe strade palermitane gridano vendetta per il sangue innocente che vi si è versato. Ne voglio ricordare solo una, tacitamente ricomprendendo tutte le altre, sol perchè il balcone della mia camera da letto dava sul troncone ovest di via Mariano D'Amelio, anche se l'attentato al giudice Borsellino e agli uomini della sua scorta avvenne nel troncone est, e, in più, io, fortunatamente, quel maledetto 19 luglio del
Ce n'è abbastanza per afferrare un lucido teschio, accarezzarlo e porsi dei dubbi. Come Amleto, molti cittadini palermitani, e non soltanto, lo hanno fatto. Quando parlava di Palermo e della Sicilia, Giovanni Falcone sintetizzava tutto in un verso di Catullo: "Nec tecum nec sine te vivere possum" ("Non posso vivere nè con te nè senza di te"). In altre parole, una riaffermazione dell'altro celebre contrasto catulliano, "Odi et amo": odio e amo al contempo, ma in questo caso non la bella Clodia, dal poeta di Sirmione ribattezzata Lesbia, ma la bella "Panormus Felix", nei secoli e dalla storia ribattezzata "Panormus Ferox". E poi, Falcone prendeva in prestito le parole di Leonardo Sciascia: "Amare una terra e una gente che al tempo stesso si detesta, sentirsi somiglianti e diversi, volere e disvolere, bisogna riconoscere che è un bel guaio".
L'humanitas terenziana, dunque, si diceva. Ciò che è umano riguarda anche me che sono un uomo. E la vicenda di un uomo onesto, ingiustamente accusato, arrestato, incarcerato, processato, condannato, mi riguarda, mi ferisce, mi fa venire in mente delle domande, mi sprona alla ricerca della verità. Ma, in più, io a questa vicenda ho assistito personalmente. Ho visto. Ho ascoltato. Ho recepito. Nulla di più di quanto avrebbe potuto fare chiunque al mio posto se solo avesse avuto la voglia di prestare attenzione. Niente di trascendentale. Niente smoking alla James Bond o knickerbocker alla Sherlock Holmes. Nessuna operazione spionistica. Soltanto cronaca, attenzione, osservazione, come il vecchio Uatu, l'Osservatore lunare che gli affezionati lettori della Marvel Comics come me ricorderanno benissimo.
La cronaca di un processo che, al momento in cui scriviamo, da sedici anni sconvolge la vita di un uomo, di un integerrimo servitore dello Stato e della Giustizia, Bruno Contrada, il simbolo della lotta alla mafia e ad ogni altro tipo di criminalità nella Palermo degli anni '60, '70 e '80, il poliziotto che detiene il record di mafiosi arrestati (non stiamo parlando di Olimpiadi, ma i numeri hanno la loro importanza). Il destino giudiziario di Contrada è stato tragicamente simile a quello del suo stretto collaboratore Ignazio D'Antone, che fu, tra l'altro, uno dei successori di Contrada in qualità di capo della Squadra Mobile di Palermo e della Criminalpol della Sicilia Occidentale e che ha condiviso con lui sia indiscutibili vittorie contro la criminalità organizzata sia il calvario di un processo degno di Franz Kafka. Mentre scriviamo, Bruno Contrada si trova nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, lo stesso dove, il 28 maggio 2004, è stato condotto in stato di arresto Ignazio D'Antone. I processi hanno distrutto la carriera e l'esistenza dei due poliziotti, fino al tragico epilogo della condanna definitiva: per ambedue, che sul campo sono stati protagonisti di clamorose operazioni antimafia in un periodo in cui una parte delle istituzioni non era sembrata ancora così preparata o attrezzata per combattere Cosa Nostra, 10 anni di carcere con l'infamante accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Io ho seguito, in particolare, il processo Contrada. Un processo che ha avuto la sua influenza anche sulla mia vita di giovane cronista, entrato per la prima volta in quell'aula del Palazzo di Giustizia di Palermo nell'aprile 1994 con l'idea (basata soltanto su quanto fino a quel momento era apparso sui giornali) che l'imputato potesse anche essere colpevole, per poi rendersi immediatamente conto, già a partire dalle primissime udienze, che c'era qualcosa che non andava. Qualcosa di poco chiaro.
Fino al momento in cui, dopo la sua uscita dal carcere militare di Palermo dove aveva scontato l'ultimo periodo della sua carcerazione preventiva (31 mesi, dal 24 dicembre 1992 al 31 luglio 1995, trascorsi tra il carcere militare romano di Forte Boccea e il carcere militare palermitano di San Giacomo dei Militari, riaperto apposta per lui), ho avuto il piacere e l'onore di conoscere Bruno Contrada, di cominciare a frequentarlo, non per interesse di tipo giornalistico ma perchè la sua vicenda mi aveva ormai completamente coinvolto sul piano umano. Le mie impressioni di uomo, per quanto veritiere e (per chi mi conosce) basate su una oggettività di giudizio che ho sempre cercato di issare quale vessillo portante della mia attività giornalistica e della mia vita in generale, potranno non essere condivise da chi mi sta leggendo in questo momento; qualcuno potrebbe pensare che quanto leggerete nelle prossime pagine possa essere inficiato da quella che (con mia enorme gioia) posso definire la mia Amicizia (uso volutamente la "A" maiuscola) con Bruno Contrada; qualcuno potrebbe non credermi sol perchè preferisce assopirsi sull'apparentemente comodo giaciglio di una giustizia che, secondo alcuni, ma SOLO secondo alcuni, "è stata fatta"; e, certamente, le mie opinioni e i miei sentimenti sul piano umano non possono costituire, e sottolineo purtroppo, una prova a discarico dell'imputato sul piano squisitamente processuale. Ma non costituiscono neanche una maschera che mi possa aver annebbiato la vista o indebolito l'udito. L'aver conosciuto e frequentato Bruno Contrada non ha fatto altro che rafforzare la mia già ben salda e previa convinzione che l'imputato era innocente, convinzione che non nasceva da sensazioni ma da quanto io stesso avevo visto e ascoltato fino a quel momento in quell'aula giudiziaria, fosse essa quella della V sezione penale del Tribunale di Palermo o l'aula bunker del carcere romano di Rebibbia.
Ma allora, dirà qualcuno, perchè Bruno Contrada è stato condannato, e per giunta in via definitiva? E' proprio la risposta che vorremmo avere. Si potrebbe cominciare col rispondere che l'intelligenza di Socrate diede tanto fastidio a qualcuno da generare l'accusa per il filosofo di essere un "corruttore dei giovani". E a poco servì il carisma ed il prestigio dell'uomo che "sapeva di non sapere": altissima, ancorchè poco comprensibile per noi comuni mortali, quella dignità che lo portò a non approfittare di quella porta del carcere che qualcuno gli aveva promesso di aprire per farlo fuggire. Anche il capitano dell'esercito francese Alfred Dreyfus fu inizialmente condannato e deportato, diventando, agli occhi di parte dell'opinione pubblica della Francia di fine '800, simbolo di ogni nefandezza possibile. Fino al j'accuse di Emile Zola, che riuscì a svegliare una Francia intorpidita da un periodo di transizione che, come ogni fase interlocutoria generata da vuoti di potere, non prometteva nulla di buono.
Anche Enzo Tortora dovette subire l'onta e la sofferenza del carcere, che minò la sua salute in maniera irrimediabile, sconvolgendo quelle brave massaie che, fino a quel momento, aveva allietato con i suoi programmi televisivi. Ma, mentre Socrate bevve la sua cicuta, Dreyfus e Tortora riuscirono a indossare il mantello del conte di Montecristo e uscirono vittoriosi dall'ingiusta ordalia cui il destino avverso, la malafede dei loro avversari o l'insipienza dei loro censori li aveva condannati. Esistono, al contrario, dei verdetti già pronunciati in pectore fin dall'inizio: i due anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti furono ugualmente folgorati su quella sedia elettrica nel Massachusetts il 23 agosto 1927 nonostante le prove che li scagionavano: soltanto nel 1977 gli Stati Uniti d'America li riabilitarono. Ed esistono dei gradi di giudizio successivi in cui i giudici, per mille motivi legati o a corporativismo di categoria o a superficialità o anche a buona fede interpretativa di vicende che non possono conoscere fino in fondo, si limitano a recepire un verdetto precedente e la cosiddetta "impalcatura" accusatoria sul cui tronco, a volte perverso, siffatto verdetto è improvvidamente germogliato.
Lascio la spiegazione di questo concetto, terribile e pernicioso, alle parole dello stesso Bruno Contrada, nell'ultima lettera da lui scritta alla moglie Adriana dal carcere militare romano di Forte Boccea, prima del trasferimento al carcere militare palermitano di San Giacomo dei Militari:
"Roma, 28 marzo 1994
Adriana,
ho ricevuto il tuo telegramma che tu dici essere l'ultimo inviato qui a Forte Boccea. Anche questa mia lettera può darsi sia l'ultima che ti scriva da questo Carcere. Infatti, nei prossimi giorni, poco prima di Pasqua o subito dopo, sarò "portato" giù a Palermo, in altra prigione, per affrontare altra tappa del calvario, cioè il "processo".
Immagino la scena: l'aula del Tribunale (che ben conosco per esserci stato infinite volte per accusare, anzi per spiegare con elementi e dati di fatto perché accusavo), i tre giudici con la toga nera, i Carabinieri con la bandoliera bianca, gli avvocati Sbacchi e Milio, il pubblico ministero (forse due), il cancelliere, il pubblico, tanti spinti da curiosità e tra loro qualche volto amico. Ancora mio figlio Guido con gli occhi a me rivolti per dirmi, in silenzio: 'Papà, sono qui, vicino a te; anch'io sono il tuo avvocato, sono qui per difenderti, per darti forza, per far valere le tue ragioni e tante, tante altre cose'. Il tutto senza parlare, anzi parlando con i suoi occhi. Tu ed Antonio non sarete lì. Poi, vedo me, anzi, non mi vedo. Non riesco, nonostante ogni tentativo di immaginazione, a vedermi lì. Sarà un altro. Un altro uomo che, io Bruno Contrada, uomo dello Stato, vedrò come un estraneo. Non sono riuscito a vedermi, sentirmi, immaginarmi, imputato di mafia, durante i lunghi giorni e le interminabili notti trascorsi in questo Carcere, nei quindici mesi della mia carcerazione fisica e morale.
Come potrei farlo al processo?
Sarà un altro che io dovrò difendere.
Il mio assistito è un uomo colpevole di essere ancora vivo (almeno fisicamente), un uomo che non volle scegliere la fuga, che ebbe la presunzione di poter essere ancora utile per la difesa della Società e dello Stato di Diritto, di non aver compreso che dopo il successo bisogna scomparire acchè il successo stesso non venga tramutato n colpa.
Tenterò di difenderlo: anche se il dubbio, assillante e atroce, che la sentenza non sarà pronunziata il giorno... del mese... dell'anno... , ma è stata già pronunziata addì 24 dicembre 1992.
Quel giorno che fui portato via dalla mia casa, dalla mia vita, dai miei figli; quel giorno in cui fu cancellato il mio passato, fu distrutta la mia carriera, costruita rinunzia dopo rinunzia, sacrificio dopo sacrificio. Quel giorno in cui il pezzo di carta consegnatomi tra le mani era già una condanna!
Potrei scrivere a lungo per pagine e pagine: i pensieri, i ricordi, le considerazioni, le previsioni si affollano in modo pressante, talora lucido, talora confuso. Ma penso sia inutile continuare a trasferire sulla carta il mio travaglio morale ed intellettivo.
Avremo tempo ed occasione di parlarne a viva voce.
Ora ti abbraccio
Bruno"
Io non voglio ergermi a mia volta a giudice. Non ne ho la competenza. Non voglio neppure manifestare una sfiducia preconcetta nei confronti di un'intera classe giudiziaria. Sarebbe un ragionamento puerile. Ma i giudici sono esseri umani. E, in quanto tali, possono anche non svolgere bene fino in fondo il loro compito, possono sbagliare. Lasciamo il dogma dell'infallibilità a chi ha voluto costruirselo a suo uso e consumo da Scranni ammantati di più o meno reali spiritualità.
In questa sede voglio raccontarvi solo quel che ho visto, quel che molti giornalisti hanno taciuto, chi, probabilmente, in malafede, chi per scarso interesse, chi per non avere mai dedicato la giusta attenzione alla vicenda processuale se non nei momenti eclatanti delle dichiarazioni dei "pentiti", dell'arresto, della prima udienza, della richiesta di condanna da parte dei PM o della pronuncia della sentenza. Perchè, su questo processo, non è che non sia stata fornita un'informazione corretta (tranne in alcuni casi dove parlare di superficialità sarebbe soltanto un comodo eufemismo): non è stata fornita informazione e basta. Sic et simpliciter. Troppi cronisti si sono limitati a sparare a mille colonne suggestive dichiarazioni dei "pentiti" infarcite tanto di colorite espressioni quali "nelle mani di Cosa Nostra" e "sbirri che mangiavano" quanto di deficienze lessicali che, in alcuni casi, hanno portato a clamorosi scivoloni (è il caso della "saletta riservata" del ristorante "Il Delfino" di Sferracavallo, di cui parleremo in seguito). Gli inquirenti, di fronte a tali equivoci palesi, hanno anche sostenuto che i fraintendimenti erano originati dal fatto che il "pentito" (nella fattispecie Rosario Spatola) non aveva la giusta padronanza della lingua italiana. I giornalisti, in molti casi, hanno cercato e trovato la loro pietra filosofale, il titolo ad effetto, la notizia sensazionale: quando poi quella notizia è risultata smentita dai fatti, dai cosiddetti "riscontri oggettivi", c'è stato spazio, spesso, soltanto per trafiletti o articoli di secondo piano. Per quanto riguarda i notiziari televisivi, pochi sono i fotogrammi che sono stati spesi per portare i cittadini e l'opinione pubblica ad una conoscenza delle vicende processuali che potesse definirsi soddisfacente. C'è stato, certamente, chi ha seguito il tutto e ne ha parlato, sia durante che dopo la condanna in primo grado; chi ha scritto libri, ben confezionati, anche coraggiosi, ma senza andare in profondità, fermandosi sempre al di qua di un livello di guardia oltre il quale c'era e c'è il pericolo di scoperchiare troppi nidi di vipere; chi ha invitato Bruno Contrada in trasmissioni televisive e gli ha dato spazio, non riuscendo, tuttavia, a superare una diffidenza ingenerata da un ingeneroso e spesso violento battage giornalistico che aveva, evidentemente, già condannato l'imputato prima ancora che le porte dell'aula giudiziaria si spalancassero. Una campagna giornalistica che aveva già subornato una parte dell'opinione pubblica. Quella parte, purtroppo non sparuta, che non può tollerare di mettere in discussione delle certezze che si rivelano, a volte, artefatte: la certezza, ad esempio, che un giudice non possa sbagliare, in buona o in mala fede, la certezza che un uomo in divisa non possa usare a volte in maniera impropria un manganello, la certezza che una famiglia non possa dividersi anche quando fra i coniugi non c'è davvero più niente da dirsi, la certezza che esistano davvero armi chimiche sepolte nel sottosuolo iracheno. Il che non esclude, anzi implica necessariamente, che esistano, dall'altra parte, giudici che sanno fare il loro lavoro, poliziotti integerrimi che non abusino della loro divisa, famiglie che possano durare a lungo in pace e in armonia e subdoli manovratori che occultino da qualche parte armi chimiche da usare contro i loro nemici. Bisogna sempre contemplare diverse ipotesi: non tutti gli americani sono guerrafondai così come non tutti i siciliani sono mafiosi. Una parte dell'opinione pubblica italiana, invece, peraltro in un Paese abituato a leggere poco e a vituperare continuamente la sua enorme tradizione culturale ed artistica, aveva già accettato la colpevolezza di Bruno Contrada, nella convinzione di aver trovato un capro espiatorio per colpe delle quali, oltretutto, anche quando fossero state realmente dimostrate, lui stesso non avrebbe potuto mai macchiarsi da solo. Già. Il mito negativo della "super-talpa". Una specie di essere onnipotente che avrebbe avuto più braccia della dea Kalì, più tentacoli e teste dell'Idra di Lerna, più potere dei supervillains della tradizione fumettistica supereroica.
Coloro che, invece, erano totalmente dalla parte dell'imputato per averlo conosciuto e aver lavorato con lui (140 testimoni della difesa, tutti agenti e funzionari di polizia e dei servizi segreti, questori, prefetti, colonnelli e generali dei Carabinieri, magistrati, politici, uomini dello Stato di riconosciuta capacità e lealtà) spesso, paradossalmente, non hanno avuto o non sono riusciti a trovare la giusta voce e il giusto spazio per poter dire ciò che pensavano.
Con questo libro io, nel mio piccolo, voglio dare spazio proprio a questi ultimi, fra i quali ci sono anch'io, "innocentista" convinto. Già, perchè non bisogna nascondersi dietro un dito. Io penso che Bruno Contrada sia innocente e cerco di portare degli argomenti a sostegno di ciò: nulla di trascendentale, solo fatti. E se queste mie parole possono scandalizzare i "colpevolisti" o alcuni ignavi del pensiero e dissuaderli dal leggere quanto ho scritto, aggiungo che questo libro è anche per loro. Sarebbe bello, e costruttivo al contempo, creare un dibattito proprio con chi la pensa diversamente. Non avrebbe senso limitarsi solo a coloro che la pensano come te: invito chiunque a dire la sua, a confrontarsi sulla base dei fatti che io esporrò con dovizia di prove, soprattutto chi la pensa in maniera opposta a me. Perchè il leit motiv di questo processo è stata l'erezione a verità assoluta di semplici sentori o del "sentito dire", la consacrazione pretestuosa a "prova" di semplici indizi, il tentativo, pur in mancanza di riscontri oggettivi, di avvalorare le accuse dicendo che era impossibile trovare quei riscontri ma sostenendo che quelle accuse ben si incastonavano in una perversa parure fatta di semplici "voci di corridoio" o atmosfere. Proprio quest'ultimo principio è stato sostenuto nella requisitoria dei PM in primo grado e scritto, più o meno a chiare lettere, nelle motivazioni della sentenza di condanna in primo grado.
2. Sotto il velame de le accuse strane...
Nessuno, ad esempio, ha mai trovato la prova che Bruno Contrada, come sostenuto dall'accusa, abbia fatto avere il porto d'armi e riavere la patente al boss Stefano Bontade, ma la cosa, pur non provata (in quanto recisamente negata da un numero impressionante di testimoni) e nel caso del porto d'armi addirittura impossibile (il porto d'armi fu rilasciato a Bontade nel 1960, Contrada venne trasferito a Palermo soltanto nel 1962 e uno dei suoi primi atti fu proprio la segnalazione al Questore dell'inopportunità che un personaggio come Bontade avesse un porto d'armi), è stata ritenuta plausibile perchè "si sa" che c'è sempre stata una collusione fra la mafia e una parte dello Stato.
E' stato dimostrato che Bruno Contrada non è mai stato proprietario di un appartamento messogli a disposizione a Palermo dal boss Rosario Riccobono, come dichiarato dal pentito Gaspare Mutolo, ma i giudici hanno salvato la "genuinità" del pentito scrivendo nelle motivazioni della sentenza che il suo racconto non era vero ma "verosimile" in quanto il pentito aveva veramente visto salire Contrada in quel palazzo di Via Guido Jung,
Il tentativo di Bruno Contrada di raccomandare una giusta e ovvia prudenza alla signora Gilda Ziino, vedova dell'ingegner Roberto Parisi, presidente dell'ICEM e della Palermo Calcio, assassinato dalla mafia a Palermo, è stato mistificato da accusatori in mala fede sotto il fallace abito di una assurda intimidazione nei confronti della vedova medesima.
Ancora, Contrada è stato accusato dal pentito Rosario Spatola di appartenere alla massoneria deviata: tutta l'accusa, invero farneticante e mai provata, fu montata sul fatto che su un'agenda di Contrada del 1981 fu trovato il nome di un poliziotto, il vicequestore Varchi, appartenente alla Loggia P2, a cui Contrada aveva inviato un telegramma per la morte del figlio ventenne (era questo l'appunto segnato sull'agenda: ricordarsi di inviare il telegramma...). Su un'altra agenda di Contrada fu trovato il nome del professor Pusa: Contrada era solo una delle centinaia di persone che in tutta Palermo conoscevano il professore, senza per questo sapere che appartenesse alla massoneria nè essere massoni essi stessi. Pur non avendo trovato uno straccio di prova che confermasse i presunti legami di Contrada con la massoneria, i giudici, nella sentenza di condanna in primo grado, hanno scritto che il "pentito" poteva essere considerato credibile: il fatto di non aver scoperto una loggia che fosse una a cui ricollegare il nome di Bruno Contrada non portava ad escludere ogni legame tra il poliziotto e i free masons ma poteva significare che una loggia che annoverasse Contrada fra i suoi adepti poteva esistere ma era di difficile reperibilità in quanto segretissima. Siamo ben oltre il ridicolo! Qualcuno ha anche scritto, come ho recentemente letto in un sito Internet, che "sono stati trovati dei diari di Contrada in cui si parla di suoi incontri con il dottor Bellassai, capo gruppo della loggia massonica P2 in Sicilia": a parte il suggestivo uso di parole come "diari", "incontri" e "massoneria", chi ha seguito il processo sa che i diari non erano altro che l'agenda, la normalissima agenda che tutti usiamo e di cui abbiamo poc'anzi parlato, in cui Contrada aveva segnato luogo e data dell'appuntamento con il dottor Bellassai. Quest'ultimo, personaggio legato alla massoneria, aveva denunciato alla polizia palermitana di essere stato, a parer suo, vittima di un attentato mentre si recava a Palermo: in quel "misterioso" incontro, Bellassai doveva soltanto essere interrogato dal poliziotto Bruno Contrada a proposito di quel presunto attentato. E ciò è stato confermato dallo stesso Bellassai e da altri poliziotti che parteciparono a quella rapida indagine, che peraltro si concluse con un nulla di fatto.
E, anche quando tutte le accuse sono de facto cadute, i giudici hanno comunque lasciato in piedi de iure quell' "impalcatura" generica di cui si parlava prima, fatta di voci e di sentito dire, di quei luoghi comuni per cui "dài, finiamola, non poteva non essere così, credi di vivere nel Paese dei Balocchi?"; ovvero "Contrada faceva parte dei servizi segreti, dunque dev'esserci per forza qualcosa sotto" (ecco perchè, parlando e scrivendo di lui, io non ho mai usato la qualifica, indubbiamente suggestiva e molto appassionante per quei giornalisti che cercano l'effetto a tutti i costi, di "007": lo stesso Contrada mi disse, una volta, di mal sopportare il fatto di essere etichettato così. Chi lo conosce sa che lui ricorda con maggior affetto il periodo trascorso in Polizia a Palermo). Altri luoghi comuni che hanno trovato cittadinanza in questa vicenda? Eccone un breve saggio: "certo che per arrestare e processare una persona, costui o costei qualche cosa DEVE per forza averla fatta"; "uno che arriva così in alto non può non sporcarsi le mani"; o ancora "e come
Bruno Contrada è stato anche accusato di essere rimasto vivo.
E, guarda caso, menti perverse hanno deciso, invece, di mettere in bocca alla sequela di morti illustri sopracitati delle parole di sfiducia e di diffidenza nei confronti dello stesso Contrada: i morti non potevano venire a testimoniare il contrario. Ma ci sono stati tanti altri, che avevano conosciuto quei morti illustri e avevano lavorato con loro, che hanno giurato a gran voce che Falcone, Borsellino, Cassarà, e così via, avevano stima di Contrada e ne apprezzavano oltremisura il lavoro scrupoloso e onesto. C'è un encomio speciale, acquisito agli atti del processo, che lo stesso Falcone chiese ed ottenne per Contrada quando questi condusse vittoriosamente un'operazione antidroga nel palermitano che sgominò un intero apparato mafioso che gestiva il traffico degli stupefacenti. E l'unico tra i presunti "diffidenti" che era ancora vivo durante il processo, l'ex-prefetto ed ex-Alto Commissario per la lotta alla mafia Angelo Finocchiaro, è venuto in udienza, indignato, a ribadire rabbiosamente di avere sempre avuto stima di Contrada e di non aver mai dubitato di lui neppure per un solo minuto. Ma ciò non è servito a scalfire l' "impalcatura" costruita dall'accusa e difesa dai PM oltre ogni evidenza contraria.
Anzi, per colmo di beffa, qualcuno ha deciso di profanare anche il cadavere di Boris Giuliano e di rivoltarlo contro Bruno Contrada, millantando una assurda diffidenza del primo nei confronti del secondo. Boris Giuliano e Bruno Contrada. Ovvero (come confermato, anzi gridato a gran voce da tutti coloro che li hanno conosciuti e hanno lavorato con loro) Castore e Polluce, "i miei gioielli" (come li definiva il questore di Palermo Mendolia negli anni '70), i "gemelli", i fiori all'occhiello della Polizia, e via dicendo. Boris Giuliano avrebbe diffidato di Bruno Contrada? E' davvero più facile che il cammello ci passi, da quella famosa cruna dell'ago. Anzi, visti gli scempi del diritto e dell'umanità cui abbiamo dovuto assistere in questo processo, chi ci assicura che le stesse menti che hanno ordito questa trama ai danni del "superstite" Contrada, usando contro di lui il defunto Boris Giuliano, non sarebbero state capaci di trascinare alla sbarra, accanto a Contrada, anche lo stesso Giuliano, se quest'ultimo fosse stato ancora vivo? In fin dei conti, se davvero Contrada (come sostengono i PM palermitani) era diventato un delinquente peggiore di quelli che aveva sempre perseguito, come mai il suo "gemello" Giuliano non se ne era accorto? E come mai non se ne sono accorti mai le centinaia di poliziotti, carabinieri, questori, prefetti, Alti Commissari, dirigenti dei Servizi Segreti che hanno lavorato con lui a stretto contatto, dalla mattina alla sera, condividendo gli stessi rischi e gli stessi pericoli? Noi cittadini, pur consci del fatto che lo Stato abbia avuto (e abbia ancora) dei legami con mafie di vario genere, possiamo davvero accettare di essere stati tutelati per anni, nella migliore delle ipotesi, da un branco di incompetenti, nessuno dei quali sia stato in grado di accorgersi dei sinistri venti che spiravano al suo fianco e sulla sua testa ignara? O, nella peggiore delle ipotesi, da un'accozzaglia di collusi e corrotti, nessuno dei quali dovrebbe allora salvarsi dalla pubblica gogna. Lo dice lo stesso Contrada, in un'intervista rilasciata a Gian Marco Chiocci de "Il Giornale" il 23 febbraio 2006: "La mia è la storia di un uomo delle Istituzioni che dopo 40 anni di servizio si sente dire da quello stesso Stato: hai servito l'Antistato. E ciò senza rendersi conto che accusando me accusa tutti i poliziotti che per 40 anni non si erano accorti di nulla".
Si aggiunga a queste amare considerazioni un rilievo importante. Il processo, le accuse dei pentiti, il carcere, potrebbero costituire una "vendetta" di Cosa Nostra contro un poliziotto come Bruno Contrada che è stato sempre uno dei più temibili avversari della mafia. Non lo hanno ucciso, è vero. Non fisicamente. L'assurdo giudiziario in cui è rimasto coinvolto non equivale forse ad una morte civile? Non dimentichiamo quanto disse Tommaso Buscetta a Giovanni Falcone, poco prima di cominciare a fare le sue rivelazioni: "L'avverto, signor giudice. Dopo quest'interrogatorio lei diventerà, forse, una celebrità, ma la sua vita sarà segnata. Cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. Non dimentichi che il conto con Cosa Nostra non si chiuderà mai. E' sempre del parere di interrogarmi?". Falcone, ovviamente, andò avanti. Ma ricordiamo che non tutti quelli che oggi inneggiano a lui (dopo che è saltato in aria...) sono stati al suo fianco in quegli anni bui, avvalorando così la "profezia" di Buscetta: il 19 gennaio 1988 il CSM gli preferisce per anzianità, tre voti contro due, Antonino Meli per la carica di Consigliere Istruttore di Corte d'Appello a Palermo (incarico ricoperto fino a quel momento da Antonino Caponnetto: il consigliere istruttore di Palermo era il coordinatore del pool di giudici istruttori antimafia di cui facevano parte anche Falcone e Borsellino); molti negano il lavoro istruttorio compiuto da lui e da Borsellino, definendo le dichiarazioni di Buscetta soltanto un "teorema"; viene accusato da alcuni di coloro che Leonardo Sciascia definisce i "professionisti dell'antimafia" (tra questi anche il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando) di aver insabbiato alcune indagini sui delitti politici compiuti dalla mafia e di "avere nei cassetti documenti compromettenti per alcuni suoi amici giudici"; viene bocciato alle elezioni per un seggio al CSM; quando, alla fine, accetta l'invito del ministro di Grazia e Giustizia, il socialista Claudio Martelli, a ricoprire l'incarico di direttore degli Affari Penali, viene accusato di essersi "inginocchiato al Palazzo"; infine, poco prima di morire, gli viene preferito Agostino Cordova nella "corsa" al ruolo di Capo della Superprocura Nazionale Antimafia. A questi dati storici, aggiungo un ricordo personale. Dopo la morte di due ragazzi, Biagio Siciliano e Maria Giuditta Milella (quest'ultima figlia del vicequestore Carlo Milella, in servizio a Palermo), travolti alla fermata dell'autobus da un'auto di scorta del giudice Borsellino, che sbandò ad alta velocità all'incrocio tra Piazza Francesco Crispi e via Libertà, a Palermo, io stesso, passeggiando per via Notarbartolo, assistetti ad una vergognosa manifestazione di parecchie persone, in gran parte ragazzi e studenti universitari di dubbie estrazioni politiche o ideologiche, che, sotto casa di Falcone (proprio dove ora c'è l' "albero di Falcone"), gridavano allo stesso magistrato "Cornuto, vattene!".
E, dopo questi vituperi subìti in vita, Falcone, per buon ultimo, è stato offeso anche da morto: qualcuno, infatti, gli ha messo in bocca parole ostili e sospetti nei confronti di Contrada. Falcone non può più replicare, ma svariate testimonianze di tanti suoi stretti collaboratori e atti ufficiali parlano per lui e a favore di Contrada.
E' lecito porsi una domanda. Quanti, tra alcuni sciasciani "professionisti dell'antimafia", se Falcone non fosse morto e non fosse dunque diventato oggetto di stima ed elogio incondizionati da parte di tutti, sarebbero tornati sui loro passi e avrebbero cessato di criticarlo ferocemente? E chissà se qualcuno avrebbe trovato qualche "pentito" pronto a distruggere, a pagamento, il giudice Giovanni Falcone? Così come è stato fatto con Bruno Contrada. Del resto, il 15 ottobre
Tutte queste cose le sa solo chi ha seguito il processo. Chi non lo ha fatto, o lo ha fatto superficialmente, o ha soltanto letto maldestri o fuorvianti resoconti delle vicende processuali, è inevitabile che si formi delle convinzioni sbagliate. Del resto, questo processo è stato davvero strano, per usare un eufemismo.
E' strano, ad esempio, che i termini di custodia cautelare, già scaduti una prima volta e rinnovati ex lege, siano stati in seguito, in mancanza della possibilità di un ulteriore rinnovo, addirittura "congelati", secondo chissà quale cavillo che ha sbalordito tutti, addetti ai lavori e non. Contrada è stato scarcerato soltanto quando un coma ipoglicemico lo fece accasciare al suolo in aula. Era il 13 giugno 1995. Io ero seduto proprio dietro lui e i suoi due avvocati, Gioacchino Sbacchi e Pietro Milio, sul bancone dei giornalisti. Fui tra i primi a soccorrerlo: insieme agli avvocati gli togliemmo le scarpe per favorire la circolazione del sangue, mentre il carabiniere addetto alla sua sorveglianza in aula, il brigadiere Salerno, cercava di rianimarlo. La totale approssimazione, per non dire la mancanza, dei servizi sanitari e di assistenza all'interno di un luogo pubblico come un Palazzo di Giustizia si commenta da sè. Mentre giudici e PM non sapevano bene come comportarsi e non trovarono nulla di meglio da fare che allontanarsi dall'aula dopo la sospensione dell'udienza, io ricordo di esser schizzato fuori dall'aula gridando alla ricerca di un medico. Non ebbi risposta alcuna. Mentre nessuno di noi riusciva a capire se Contrada fosse stato vittima di un infarto, di un'ischemia cerebrale o di qualcos'altro che potesse farlo trovare in un immediato pericolo di vita, e mentre il figlio Guido, giustamente fuori di sè, gridava, tra le lacrime, "l'hanno ammazzato! Era questo che volevano!", fu solo grazie alla telefonata dell'avvocato Sbacchi al suo amico Primo Vanadia, primario all'Ospedale Civico di Palermo, che Contrada potè trovare un posto letto per essere ricoverato e curato tempestivamente. Aggiungerò soltanto che, in mancanza di un posto di pronto soccorso e di strutture adeguate all'interno del Palazzo di Giustizia, nonchè di ambulanze disponibili provenienti dall'Ospedale Civico, Bruno Contrada fu soccorso dagli uomini della Guardia Forestale, che lo trasportarono giù dal secondo piano (dove si trovava l'aula della V sezione penale in cui era in corso il processo a suo carico) caricandolo con un telone...
Io scesi giù a mia volta, con in mano la valigetta e le scarpe di Contrada, andai a prendere la mia macchina e corsi in ospedale. Lì, giunto al reparto diretto dal dottor Vanadia, arrivai trafelato davanti all'ascensore dove stavano caricando la lettiga con sopra Contrada, cui avevano applicato due bende per coprirgli gli occhi: solo più tardi seppi che, durante il trasporto in ospedale, si era risvegliato ed era stato còlto da una crisi di nervi per cui aveva dovuto essere sedato. Davanti all'ascensore, colsi il lampo del flash di una macchina fotografica: mi girai e ricordo che, con rabbia, dissi al fotografo "Anche qui! Lasciatelo in pace!". Qualche giorno dopo, nei corridoi del Palazzo di Giustizia, quel fotografo mi avrebbe fermato e mi avrebbe diffidato dall'interferire un'altra volta col suo lavoro: gli risposi male, ma quando vidi quella foto pubblicata su tutti i maggiori quotidiani e riviste nazionali, mi resi conto che, in definitiva, a volte, un'immagine, ancorchè cruda, poteva valere più delle parole. Forse, ovviamente sempre nel rispetto dell'uomo Bruno Contrada, quella foto aveva contribuito a chiarire le idee ad un'opinione pubblica distratta e, spesso, prevenuta, sicuramente non informata colpevolmente da gran parte della stampa, che non si era degnata di seguire il processo se non nei momenti più eclatanti. Davanti all'ascensore dell'ospedale, dopo il flash della macchina fotografica, incrociai lo sguardo del brigadiere Salerno e gli chiesi se potevo salire per riconsegnare valigetta e scarpe. Lui mi guardò e mi disse qualcosa che non scorderò mai: "Tu puoi salire. So che non stai venendo in qualità di giornalista, ma di amico". In realtà io, allora, non conoscevo ancora personalmente Bruno Contrada: avevo conosciuto il figlio Guido e fin dall'inizio avevo seguito il processo udienza per udienza, non tralasciando nemmeno una sillaba. Ma mi fece piacere che il carabiniere mi rivolgesse quell'apprezzamento. Salii, dunque, e, con scarpe e valigetta in mano, incontrai in corridoio, davanti alla stanza dove avevano portato Contrada, una signora dagli occhi vivissimi e scintillanti, iniettati di dolore ma anche pervasi da una dignità sovrumana e da un'energia che avrei imparato in seguito a conoscere molto bene. Era la signora Adriana, moglie di Bruno Contrada. Mi presentai e le consegnai gli effetti personali del marito: qualche tempo dopo, a casa sua, lei mi raccontò che le sarebbe rimasta impressa la scena di questo ragazzo che si avvicinava a lei con la valigetta e le scarpe del marito, considerato soprattutto che io mi presentai e lei mi riconobbe come quel Salvo Giorgio che non perdeva un'udienza e che, pur da una tribuna non certo di grido quale una televisione privata palermitana, Video Pa, era tra i pochi che cercava di raccontare quanto stava effettivamente succedendo nel processo al marito. Ricordo che dettai il mio servizio alla redazione da un telefono pubblico dell'ospedale. Poi rimasi ad aspettare notizie sulle condizioni di Contrada. Rassicurato dai medici e dalla signora Adriana sul fatto che la situazione era sotto controllo, tornai a casa. Quando, più tardi, dopo le prime cure, ha riaperto nuovamente gli occhi e si è ritrovato in un letto d'ospedale, Bruno Contrada ha gridato: "Vogliono annientarmi!". Ha chiesto che lo lasciassero morire, ha pianto, ha tentato di impadronirsi della pistola del carabiniere che lo vegliava, ha strappato dalle mani del medico la siringa infilandosela nella gola. E' stato allora che la moglie, la signora Adriana, ha pronunciato la sua famosa invettiva contro "Caino":
"Caino, sia maledetto Caino... Caino è un collega di mio marito... È lui che ha voluto che Bruno finisse in galera... È qualcuno che ha capito che
Proseguendo con le stranezze e le incongruenze di questa assurda vicenda, è strano, altresì, che lo stesso giudice che il 5 aprile
E' strano che vari testimoni dell'accusa, convocati per sostenere le tesi dei PM, si siano limitati a dichiarazioni generiche, spesso de relato (ossia hanno raccontato di aver sentito dire da altri cose che questi altri avevano sentito dire da altri ancora). Una di queste fu una ragazza che lavorava presso un parrucchiere per signora di Palermo, la quale, mentre faceva lo shampoo ad una cliente, sentì da quest'ultima raccontare che la figlia del boss Riccobono aveva detto "Contrada si è dimenticato di quando circolava per Palermo con mio padre e vuole pulirsi il coltello insanguinato sulle sue spalle": dopo lo shampoo, la ragazza raccontò la cosa ad una sua amica, che la riferì prontamente in Procura. Peccato che quest'ultima signora, ultimo anello di una catena più lunga delle radici di Yggdrasil, l'albero della vita della mitologia nordica, si sia rivelata una nota delatrice spesso tacciata di mitomania dagli stessi inquirenti o poliziotti cui si era più volte rivolta in passato. Peccato che la stessa ragazza autrice dello shampoo incriminato, nonchè la proprietaria della chioma che ricevette quel lavacro e perfino la stessa figlia del boss Riccobono, abbiano negato tutto e affondato così, miseramente, questo "significativo" capo d'accusa.
Ma è ancora più strano che altri testimoni dell'accusa si siano rivelati, in realtà, testimoni a discarico, abbiano parlato bene dell'imputato e lo abbiano difeso, come poliziotto e come uomo, e si siano dunque, di fatto, aggiunti ai 140 testimoni ufficiali della difesa. Una cosa che non càpita davvero in tutti i processi...
E' strano che il pentito Giuseppe Marchese dichiari che Contrada avrebbe favorito, nel 1981, la fuga di suo padre Vincenzo Marchese, di suo zio Filippo Marchese e dello stesso Totò Riina, ignorando, ovviamente, che proprio in quel periodo Contrada, capo della Criminalpol della Sicilia Occidentale, aveva appena personalmente compilato e presentato alla Procura di Palermo un rapporto giudiziario (datato 7 febbraio 1981) che indicava gli stessi Vincenzo e Filippo Marchese, oltre ai loro familiari Antonino, Gregorio e Pietro Marchese, tra i responsabili dell'omicidio del capo della Squadra Mobile di Palermo Boris Giuliano, ucciso a Palermo due anni prima. In questo rapporto Contrada faceva anche il nome di Leoluca Bagarella (cognato di Giuseppe Marchese) e di Giacomo Bentivegna come esecutori materiali dell'omicidio: sono proprio di quel periodo le ripetute minacce di morte ricevute da Contrada, molto probabilmente dallo stesso Bagarella e da altri dei coinquisiti. Sempre col rapporto del 7 febbraio 1981, Contrada evidenziò i collegamenti fra il delitto Giuliano e l'omicidio del capitano dei Carabinieri Emanuele Basile, avvenuto l'anno prima a Monreale, aprendo una fondamentale pista investigativa che si sarebbe rivelata preziosa per giungere alla soluzione dei due casi. A questo rapporto avrebbero, infatti, fatto seguito prima l'emissione di una serie di ordini di cattura firmati dall'allora giudice istruttore Paolo Borsellino e poi un processo, che si sarebbe poi concluso con la condanna (confermata dalla Corte d'Appello di Palermo il 26 gennaio 1996) di tutti gli accusati, primo fra tutti Leoluca Bagarella, proprio in base al sopracitato rapporto giudiziario e grazie anche alla determinante testimonianza in aula dello stesso Contrada.
E' altrettanto strano che, secondo le dichiarazioni rilasciate nel 1986 al giudice Falcone dal pentito Vincenzo De Caro, cognato di Gaspare Mutolo e uomo di spicco della cosca di Rosario Riccobono, dichiarazioni confermate dallo stesso De Caro dieci anni dopo, a Padova, nell'udienza per l'ultimo troncone del maxiprocesso istruito da Falcone, lo stesso Riccobono, che, secondo i PM palermitani, sarebbe stato amico e "gestore" di Contrada, avesse progettato, nel 1979, insieme ai fratelli Michele e Salvatore Micalizzi, di uccidere proprio Bruno Contrada e di far poi ricadere la colpa su Gaspare Mutolo, che Contrada aveva in precedenza più volte denunciato e arrestato. Ma i pentiti non hanno sempre sostenuto che Contrada e Riccobono erano amici e si scambiavano favori?
E' strano che il 30 marzo 1973 il primo, vero pentito di mafia, undici anni prima di Tommaso Buscetta e senza alcun programma di protezione nè legge speciale, vale a dire Leonardo Vitale, della famiglia mafiosa di Boccadifalco e nipote del capo di quella famiglia, Giovanni Battista Vitale, detto don Titta, in preda ad una sorta di crisi mistica si presentasse volutamente proprio a Contrada (che lo aveva già arrestato per sequestro di persona nel 1972). Contrada era all'epoca dirigente della Sezione Investigativa della Squadra Mobile, della quale sarebbe divenuto Capo soltanto nell'agosto successivo. Leonardo Vitale volle parlare esplicitamente soltanto con lui, e non col capo della Squadra Mobile. Lo avrebbe fatto se Contrada fosse stato amico di quei mafiosi che Vitale stesso stava tradendo?
E' strano, infine, che Bruno Contrada sia stato messo sotto processo proprio mentre stava completando la sua opera di riconversione del SISDE (il servizio segreto civile del quale era alto dirigente) in funzione antimafia e dopo aver svolto una serie di clamorose operazioni, condotte tutte in porto, contro Cosa Nostra e i suoi mille addentellati, e proprio mentre, su incarico del procuratore capo di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, stava svolgendo una delicata opera di indagine sul delitto Borsellino, giungendo per primo ad individuare la mano della cosca dei Madonia nell'organizzazione e nell'esecuzione della strage. Ma è ancora più strano che Bruno Contrada sia stato arrestato, alla vigilia di Natale del 1992, proprio mentre dirigeva una task force da lui stesso creata appositamente per la ricerca del superlatitante Bernardo Provenzano, il vero capo di Cosa Nostra: dalle testimonianze di vari funzionari del SISDE e da documenti ufficiali è emersa l'alacre ed efficace attività di questa squadra speciale, che era giunta ad isolare un'ampia area entro la quale si muoveva all'epoca Provenzano, secondo l'acclarato principio per cui i boss si nascondono preferibilmente nel loro territorio, dove possono trovare più facilmente protezione e contare maggiormente sull'omertà e sulle coperture di cui necessitano. La task force viene sciolta, improvvisamente e senza un motivo plausibile, il 18 dicembre 1992, all'insaputa di Contrada. Sei giorni più tardi Bruno Contrada viene arrestato. Il tutto proprio mentre era sulle tracce di Binnu 'u tratturi, dell'inafferrabile Provenzano. Il quale verrà arrestato, ormai, probabilmente, allo spirare della sua carriera di "capo dei capi", l'11 aprile 2006, ossia soltanto quattordici anni dopo...
Poniamoci delle domande e cerchiamo la risposta. Io mi sono chiesto, anzitutto tre cose:
Lo scopo di questo libro vuole essere la ricerca delle risposte a tante domande e tanti dubbi che il processo non ha dissipato. La diffusione di una verità che è stata coperta, in buona fede o ad arte, da un cumulo di omissioni, disinteresse, mistificazioni e pregiudizi che l'hanno mortalmente avvolta ed inchiodata come una Vergine di Norimberga. Eviterò il più possibile, al di là dell'affermazione e della dimostrazione delle mie tesi, toni apodittici; userò, al contrario, un metodo maieutico, ponendo, a chi avrà la bontà di leggere quanto scrivo, delle domande, come faceva Ellery Queen nelle sue leggendarie "sfide al lettore"; dimostrerò con dovizia di particolari alcuni fatti, chiedendovi, in ultima analisi, non di uniformarvi acriticamente alle mie convinzioni ma di farvi voi stessi delle domande e formarvi una vostra idea. Sulla base non di quanto afferma superficialmente chi ha solo sentito parlare del processo, ma di quanto riferito da chi quel processo lo ha vissuto tutto, dalla prima all'ultima udienza, e, soprattutto, sulla base di prove e di riscontri dei quali, non so perchè, i giudici hanno dimostrato di non tenere conto. Adducendo motivazioni che noi esporremo di volta in volta e sulle quali sarà il lettore a farsi un'idea.
Perchè una delle cose che hanno caratterizzato questo processo è un'insanabile dicotomia. Un contrasto, pragmatico quanto emotivo, fra le sensazionali affermazioni dei "pentiti" e i riscontri oggettivi che non sono stati trovati o non hanno mai superato la soglia del "ragionevole dubbio". Tutti noi, all'inizio, siamo rimasti colpiti dalla reboante forza delle dichiarazioni dei "pentiti": fa un certo effetto sentire dire che un poliziotto da anni riverito e stimato da tutti sia stato "nelle mani di Cosa Nostra" (o affermazioni consimili), colpisce, scuote, vellica quel lato oscuro che, dentro tutti noi, è proclive a vedere complotti, congiure di palazzo e pastette di vario genere anche dove non ci sono. Poi si prende la pala, si scava a fondo, si approfondisce la cosa, neppure con troppo spreco di energie o di mezzi, essendo sufficiente seguire un processo o pretendere da molti giornalisti che lo facciano loro, ma con costanza e dedicando alla cosa il giusto spazio: solo allora ci si accorge che il "pentito" può anche averla "sparata grossa", che è facile mettere in bocca certe affermazioni a gente che è morta e non può più smentirti, che ci sono fatti oggettivi che pendono dalla parte dell'imputato, che non si può finire in galera per un'automobile mai trovata o per un appartamento in cui ci si recava soltanto a trovare un amico o per parole fraintese dall'interlocutore. E fosse solo questo! Il signor Rossi, tra un caffè e un'attenta lettura della "Gazzetta dello Sport" in attesa della nuova puntata in TV del suo reality show preferito, potrebbe anche dire che "beh, comunque non è stato chiarito tutto", "si sa come vanno queste cose", "certe prove sono difficili da trovare, altrimenti sarebbe tutto facile". Bene. Invitiamo il signor Rossi a posare per un attimo il suo telecomando e a cercare di inquadrare il mondo con la sua testa e non soltanto attraverso un tubo catodico. Ad analizzare le cose. E ad un'attenta disamina delle vicende processuali, quale quella che abbiamo tentato di fare in questo libro, il signor Rossi medesimo potrebbe anche scoprire certe cose di fronte alle quali magari preferirà tornare a rintanarsi nel suo "particulare" fatto di confortanti piatti di spaghetti, dessert finale e telenovelas, ma che, anche solo per un istante, lo avranno costretto a riflettere. Capirà che le accuse non sono mai state realmente provate. E se, nella peggiore delle ipotesi, potrà soltanto ripetersi fino all'autoconvincimento "per fortuna che non è capitato a me", nella migliore delle ipotesi dovrà assistere ad uno spettacolo da grand guignol in cui le parole hanno prevalso sui fatti, l'indizio è diventato prova, il sospetto si è rivestito arbitrariamente degli incongrui panni della verità. Ma si impone un'altra considerazione.
Se è vero che il simbolo della giustizia è una bilancia, possiamo ben affermare che l'accusa e la difesa vanno ponderate. Se un "pentito" dichiara che Contrada è un amico dei mafiosi e decine di altissimi funzionari dello Stato affermano il contrario (con il conforto di atti e rapporti, dunque di documenti), è ovvio che la bilancia pende dalla parte della difesa. Ci accontenteremmo anche di un pareggio a reti bianche. Non volete proprio affermare che Contrada è stato un leale servitore dello Stato? Non potete affermare neppure il contrario. E tutti a casa. A livello squisitamente processuale, in àmbito, peraltro, giuspenalistico, dove si richiede una certezza che esclude ogni analogia (legis o iuris che sia), dove si esclude ogni responsabilità indiretta o oggettiva, dove si richiede l'onere della prova certa e non del semplice sospetto o indizio, un'accusa controbilanciata da una dimostrazione della difesa di forza uguale e contraria cade senza mezzi termini. Per condannare un uomo non possono bastare "elementi indiretti di concordanza" o scenari "verosimili". Ci vuole una certezza. E la verità è che, in questo processo, la certezza delle accuse non è stata mai raggiunta, a fronte di prove a discarico e di argomenti difensivi basati su fatti. Questa è la sola, unica, grande verità del processo Contrada.
Conoscere la verità, parlarne, diffonderla, può solo fare del bene.
A tutti.
SALVO GIORGIO