Wednesday, January 16, 2008

LA GRAZIA E LA GIUSTIZIA




1. Voci
contrapposte.


Settembre 2007. Bruno Contrada si trova recluso nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere da quattro, lunghissimi mesi. Le sue condizioni di salute vanno peggiorando: ai problemi cardiovascolari (cardiopatia intensiva e segni di aterosclerosi vasale diffusa), all'enfisema polmonare e alla broncopneumopatia cronica ostruttiva che lo affliggono da tempo, si aggiungono una forma di eczema diffuso, una forte ipertrofia prostatica, la gastroduodenite, un lipoma alla base emitoracica sinistra, una fastidiosa forma di artrosi polidistrettuale, una periartrite post-traumatica alla spalla destra con limitazione funzionale, il diabete mellito di tipo 2 e, in ultimo, due ischemie. In particolare, una lesione ischemica cerebrale in regione occipito-temporale destra cagiona un deficit perimetrico bilaterale di tipo emianopsico, una sindrome vertiginosa e segni strumentali di atrofia cerebrale e cerebellare. U un'altra lesione ischemica, stavolta nel territorio dell’arteria cerebrale posteriore, provoca una neuropatia ottica, ossia un'ipertensione della guaina del nervo ottico di sinistra: ciò finisce con l'impedire al prigioniero di dedicarsi alla lettura, uno dei suoi svaghi preferiti, certo uno dei modi migliori per trascorrere in carcere ore che non passano mai.
Come se non bastasse, uno stato di progressiva prostrazione psico-fisica induce Contrada a rifiutare il cibo: durante la prima detenzione, in fase di carcerazione preventiva, l'ex-capo della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo era dimagrito di ben quattordici chili, presentandosi alla prima udienza del processo di primo grado a suo carico, a Palermo, nell'aprile del 1994, come l'ectoplasma di se stesso. Ora sono trascorsi altri tredici anni di patibolo. Nei primi mesi a Santa Maria Capua Vetere, il prigioniero ha già perso undici chili. Ma non è solo la depressione a spingere Contrada a rifiutare di alimentarsi: contro ogni norma di civiltà e di diritto di un Paese che dovrebbe essere evoluto nei fatti e invece lo è (a volte) solo sulla carta, l'amministrazione carceraria non concede al prigioniero il cibo previsto dalla dieta adatta alla sua condizione di diabetico. Dieta che gli è stata prescritta dagli stessi medici del carcere.
"Non tutti sanno" - scrive Bruno Contrada dal carcere il 17 dicembre 2007 - "che la morte viene irrogata a condannati, spesso colpevoli, talvolta innocenti, non soltanto in un'unica, istantanea soluzione, con un'iniezione letale o con una scarica elettrica o con un cappio al collo o con un proiettile alla nuca. Essa è anche inflitta non istantaneamente ma nel tempo, con ceppi inutili ed inumani su corpi martoriati dalle infermità e dalla senilità, molto vicini all'ultimo passo. Anche questa è una condanna a morte, sebbene dilazionata nel tempo. Non è forse lecito pensare e dire ciò alla lettura di qualche provvedimento giudiziario in materia di carcerazione?".

Questo il drammatico quadro in cui matura la richiesta di arresti domiciliari, tecnicamente l'istanza del cosiddetto "differimento della pena", presentata dall'avvocato napoletano Enrico Tuccillo l'1 ottobre 2007. Il 31 ottobre successivo la relazione del dirigente del servizio sanitario del carcere di Santa Maria Capua Vetere si conclude con una asserzione chiara ed inequivocabile: "in un contesto di avanzata senescenza, tutte le malattie presentate assumono rilevanza clinica maggiore rispetto alle possibili complicanze. Alla luce di quanto sopra esposto, secondo scienza e coscienza, io ritengo che esista un'effettiva condizione di non compatibilità con il regime carcerario delle malattie sofferte, suscettibili di cure e di trattamenti vari ed articolati a carattere di continuità verosimilmente più efficaci se prestati in ambiente domiciliare esterno che non nelle istituzioni carcerarie". A conforto di questa relazione d'ufficio, il professor Silvio Buscemi, ricercatore presso l'Università di Palermo, diabetologo e specialista in ipertensioni e nefrologia, ed il dottor Antonio Calmieri, medico legale napoletano, nominati consulenti di parte dalla difesa di Bruno Contrada, confermano con dovizia di particolari e di spiegazioni che lo stesso Contrada soffre di patologie assolutamente incompatibili con la detenzione in carcere. In particolare, il professor Buscemi scrive: "è ragionevole affermare che le condizioni cliniche del dottor Contrada sono incompatibili con il regime carcerario, regime che è in grado di influenzare sfavorevolmente l'elevato rischio cardiovascolare e di impedire il corretto trattamento della malattia diabetica e nutrizionale".

L'istanza di differimento della pena viene ovviamente rigettata dal magistrato di sorveglianza del carcere di Santa Maria Capua Vetere, Daniela Della Pietra, il 12 dicembre 2007. Il giudice Della Pietra prende atto delle relazioni mediche, sottolinea il fatto che il detenuto Bruno Contrada ha perso undici chili dal momento del suo ingresso in carcere, ma conclude invocando l'articolo 11 della legge penitenziaria, ossia quello che impone la "costante attenzione" da parte della struttura sanitaria del carcere: tradotto in parole povere, ciò significa che, ogni volta che il detenuto si sentirà male, i militari preposti lo porteranno in ospedale, lo faranno curare e poi lo riporteranno dentro.
Il provvedimento del giudice Della Pietra viene sùbito definito, senza mezzi termini, "errato, abnorme e orrendo" dall'avvocato catanese Giuseppe Lipera, che il 17 dicembre, due giorni dopo essere andato a trovare Contrada in carcere, viene dallo stesso ex-capo della Squadra Mobile di Palermo nominato suo avvocato difensore per potersi occupare della vicenda relativa all'istanza di differimento della pena. "A me è parsa una cosa assolutamente incredibile" - dichiara l'avvocato nella conferenza stampa da lui convocata il 2 gennaio 2008 - "perchè, come in altri casi simili di cui mi sono occupato, quando il medico del carcere dice che il soggetto soffre di una serie di patologie ed è, in particolare, a rischio di ischemia cerebrale, il che
significa che in qualsiasi momento può verificarsi un evento infausto, e aggiunge che le sue condizioni di salute sono incompatibili con il regime carcerario, la conseguenza logica di questa premessa dovrebbe essere un'altra. Invece il giudice lascia il dottore Contrada in carcere". Ogni commento è superfluo. Lasciamo proseguire l'avvocato: "Il 17 dicembre scorso mi sono dunque recato dal giudice Della Pietra e le ho fatto notare l'enorme incongruenza del suo provvedimento, illogico e assurdo. Ho informato il procuratore della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, che deve esprimere il suo parere in materia al Tribunale di Sorveglianza di Napoli, cui spetta il giudizio ultimo in materia. Ho chiesto, infine, al presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, informandone il procuratore generale presso la Corte d'Appello di Napoli, di accelerare i tempi della decisione. Nel frattempo, visto e considerato il muro dell'autorità giudiziaria che ha il potere di liberarlo, ho rivolto una supplica al presidente della Repubblica".

Supplica. Implorazione. Non una "grazia". Ecco il punto che richiede una precisazione d'obbligo. Il prigioniero innocente Bruno Contrada non chiede alcuna grazia, nè, in forma diretta o indiretta, lo fa il suo avvocato. Lo ribadirà lo stesso Contrada, qualche settimana dopo, in un'intervista rilasciata a Gianluigi Nuzzi di Panorama: "Accetterei la grazia dal presidente della Repubblica solo se non fosse chiesta dai miei familiari" - afferma l'ex-capo della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo - "perchè avrebbe comunque un significato diverso dalla concessione di un beneficio. L'accetterei come esito di una valutazione di dovuto atto riparatorio a fronte di una grave ingiustizia subìta. Io voglio una riparazione da parte dello Stato perchè non ho commesso nemmeno gli estremi integranti la violazione del Codice della Strada". Bruno Contrada non vuole chiedere alcuna grazia, dunque. E, d'altra parte, il testo della supplica rivolta dal suo avvocato a Giorgio Napolitano è chiaro ed incontrovertibile:

"Catania, 20 dicembre 2007

Al Signor Presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano
e p.c. al Signor Presidente del Senato della Repubblica Franco Marini
e al Signor Presidente della Camera dei Deputati Fausto Bertinotti

E' con profonda tristezza nel cuore che decido di rivolgermi alla Sua Illustre persona, avendo pochi giorni or sono avuto occasione di constatare de visu la miserevole e fragilissima condizione fisica in cui versa il dottor Bruno Contrada, il quale (a prescindere da ogni formale deliberazione della Giustizia) di sè ha sempre e solo detto di essere stato un "servitore dello Stato".
Il dramma dell'uomo Contrada angustia ancor più il profondo della mia coscienza poichè, proprio in questi giorni registriamo il successo ottenuto dall'Italia nella vicenda della moratoria della pena di morte, tenutasi presso la sede internazionale delle Nazioni Unite; una vittoria di civiltà mi suggerisce il pensiero; certo!, ma una snervante inquietudine agita i miei dubbi.
Chiedo a me stesso: come è possibile battersi per un vitale principio, ottenere il meritato riconoscimento mondiale e poi dimenticare, ignorare e sonnecchiare davanti ad un uomo che nella condizione tragica di salute in cui versa attende il sonno nelle patrie galere?
Signor Presidente, Bruno Contrada sta morendo consumato dalla senilità e soprattutto da patologie terribili, mentre fuori si festeggia alle eroiche ed etiche battaglie italiane contro la pena di morte! E' convinzione, non solo mia ma di tanti medici, che poco è oramai il tempo che resta al povero, malandato dottor Bruno Contrada. Ella, signor Presidente, dall'alto della Sua profonda saggezza, non può certamente non rilevare come riesce difficile per noi partecipare a questo euforico brindisi, a questo palpabile entusiasmo.
'Che non sia un'illusione!" (sulla tomba di Enzo Tortora c'è questa epigrafe, dettata da Leonardo Sciascia. Come dire: un monito, una lezione). Come spesso accade, infatti, il rischio che si corre in questi casi è quello di curare sempre e solo il quadro generale, la visione macroscopica del mondo e della vita, dimenticando (infausta incuria) il particolare, il singolo dettaglio, che nel nostro caso assume i contorni di una esistenza strappata alla vita, un uomo dello Stato dimenticato dallo Stato.
Signor Presidente, La informo, con estremo rispetto, che la recente relazione sanitaria del Carcere Militare di Santa Maria Capua Vetere (non, quindi, una perizia di parte), parlando del detenuto Contrada, riferisce drammaticamente: 'nel caso di specie, tenuto conto della anamnesi e del quadro clinico ipertensivo, esiste un rischio di recidiva di evento lesivo cerebrale, non preventivabile riguardo all'epoca di presentazione ma imprevedibile e instabile, dal punto di vista del controllo sintomatologico, soprattutto in un ambiente carcerario, ancorché con adeguata protezione terapeutica.
La cardiopatia ipertensiva espone altresì, con modalità analoghe a quelle su riportate, a eventi ischemici cardiaci cui potrebbe conseguire anche un esito infausto... Le ulteriori patologie citate in diagnosi rendono ulteriormente problematica la gestione clinica del paziente. Tutte le malattie presentate, in un contesto di avanzata senescenza, assumono rilevanze clinica maggiore rispetto alle possibili complicanze. Alla luce di quanto suesposto, ancorché le patologie presentate dal detenuto Contrada Bruno non configurino una condizione di imminente pericolo di vita, si ritiene secondo scienza e coscienza, che lo stato detentivo costituisca una prevedibile causa di grave peggioramento delle condizioni dello stesso, e che pertanto esista una effettiva condizione di non compatibilità con il regime carcerario delle malattie sofferte, suscettibili di cure e trattamenti vari ed articolati, a carattere di continuità, verosimilmente più efficaci se prestati in ambiente domiciliare esterno, che non nelle istituzioni carcerarie'.
Di fronte ad un Magistrato di Sorveglianza (dottoressa Daniela Della Pietra) che interpreta male - a mio avviso - le norme del nostro Codice Penale (l'art. 146 c.p. prevede un obbligatorio differimento della esecuzione della pena quando vi sia 'una malattia particolarmente grave per effetto della quale le condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione, quando la persona si trova in una fase della malattia così avanzata da non rispondere più, secondo le certificazioni del sevizio sanitario penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili a alle terapie curative') forse la sola battaglia giudiziaria non basta ed è proprio per tale motivo che mi sono permesso di disturbare l'Eccellenza Vostra.
Or deve sapere, anche se certamente lo immagina, che il dottor Bruno Contrada non firmerebbe mai una richiesta di grazia: egli è uomo di antico stampo, 'frangar non flectar!', che sempre ha dichiarato con estrema dignità la propria innocenza e la propria estraneità alle accuse ascrittegli.
Però è altresì vero che il nostro codice di procedura penale contempla un articolo, il 681 comma 4, che potrebbe conciliare le 'difficoltà' di questa intricata vicenda; la richiamata disposizione normativa recita così: 'la grazia può essere concessa anche in assenza di domanda o di proposta'.
Pertanto, in ragione della Legge, del profondo e acceso senso di umanità che l'Eccellenza Vostra custodisce nelle corde più intime del Suo animo, La prego di poter valutare la possibilità di un intervento sua sponte, onde poter fare fronte ad una situazione imbarazzante per l'intero nostro Paese. Il dottor Bruno Contrada sta morendo, Lei può restituirlo, forse per l'ultimo commosso abbraccio, ai suoi cari, all' anziana moglie Adriana e ai due figli (Guido e Antonio), depositari dei suoi affetti. Perché tutti i parlamentari, quali legittimi rappresentanti del Popolo Italiano, sappiano di questa pubblica supplica, mi permetto di trasmettere copia della presente al Presidente del Senato della Repubblica, Franco Marini e al Presidente della Camera dei Deputati, Fausto Bertinotti, rivolgendo Loro la preghiera di informare tutti i singoli appartenenti ai rispettivi rami del parlamento.

Con ossequi, Giuseppe Lipera"

Quel che accade lo lasciamo ulteriormente spiegare, ammesso che ve ne sia ancora bisogno, allo stesso avvocato Lipera, la cui voce si alza, nitida e stentorea, contro ogni tentativo di fraintendimento. "In primis, risulta assolutamente inesatto affermare che il Presidente della Repubblica ha ricevuto una domanda di grazia da parte dell’avvocato Giuseppe Lipera, quale difensore di Contrada, e che tale richiesta sia sbagliata nel merito perché motivata dalle condizioni di salute dell’istante." - precisa l'avvocato in un comunicato stampa, contestando quanto era stato affermato dal ministro per le Infrastrutture, l'ex-PM di "Mani Pulite" Antonio Di Pietro - "Il sottoscritto non ha mai presentato alcuna domanda di grazia per Bruno Contrada, ma ha solo rivolto al Presidente una accorata supplica affinché prendesse in considerazione la possibilità di concedere la grazia, sussistendone i presupposti, anche in assenza di una specifica domanda da parte del condannato; il tutto ai sensi dell’art. 681 comma 4 del Codice di Procedura Penale, che testualmente recita: 'la grazia può essere concessa anche in assenza di domanda o di proposta'. Non siamo affatto in presenza di una lieve sfumatura e la distinzione è realmente pregna di significato giuridico ed etico, laddove si consideri che Bruno Contrada, proclamandosi da sempre del tutto innocente e condannato ingiustamente, non ha mai inteso (e mai lo farà) intraprendere alcuna “scorciatoia” per sfuggire al suo iniquo giudicato, come inopinatamente ed incautamente asserito da Antonio Di Pietro". Quello stesso Di Pietro che poco dopo Lipera apostroferà ironicamente come "ministro onorario della Giustizia" poichè (sono parole dell'avvocato) "interviene sempre anche su cose che non lo riguardano".

In seguito l'avvocato Lipera riaffermerà con forza e recisione il punto. "La mattina del 31 dicembre 2007 (una settimana dopo aver presentato l'istanza con la supplica, nda) mi sono recato al Quirinale dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano." - racconta l'avvocato Lipera, sempre nella conferenza stampa del 2 gennaio 2008 - "Vengo ricevuto dal consigliere per gli Affari della Giustizia, Loris D'Ambrosio, magistrato. Fenomeno di preveggenza, forse, ma io ho con me l'istanza scritta con cui chiedo di parlare direttamente con il presidente Napolitano. Ancora io non ho letto il Corriere della Sera, e segnatamente l'articolo scritto da Giovanni Bianconi: lo leggerò nel pomeriggio. Esco dal colloquio col dottor D'Ambrosio e vengo intervistato da alcuni giornalisti. Ritengo che il colloquio fra me e il dottor D'Ambrosio debba rimanere informale, non coperto da alcun segreto, per carità, io ero lì coi miei colleghi avvocati Coco e Ficarra, ma, voglio dire, non era un qualcosa di pubblico, quindi io non parlo assolutamente. Anche perchè non dò alcuna valenza, alcun valore a qualunque cosa mi possa dire una persona che non sia il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Quando, però, poche ore dopo leggo il Corriere della Sera, mi rendo conto di quanto io continui ad essere ingenuo nonostante i trent'anni di professione e i cinquantadue di età. Leggo, infatti, la 'requisitoria' di Giovanni Bianconi in 'Torquemada', che evidentemente già ha parlato, che evidentemente già sa e, a parte i velati insulti e le insinuazioni anche sulla mia professionalità, di cui francamente poco importa, leggo delle inesattezze talmente eclatanti che in realtà sono lo sfondo di quello che è successo. E allora ricostruiamo quello che è successo. Noi, il 20 dicembre scorso, abbiamo trasmesso al presidente della Repubblica (mi parlava il cuore), e per conoscenza al presidente del Senato Franco Marini e al presidente della Camera Fausto Bertinotti perchè ne informassero ogni singolo membro dei due rami del Parlamento, un'istanza che recava un oggetto ben chiaro: si parlava di 'implorazione' a favore di Bruno Contrada. Cito il dato normativo su cui baso la mia istanza, ossia l'articolo 681 numero 4 del codice di procedura penale, per il quale la grazia può essere concessa anche in assenza di domanda o di proposta. Quest'articolo potrebbe conciliare i problemi che sono sorti. Voi sapete che Contrada, uomo della serie frangar non flectar (ossia 'mi spezzo ma non mi piego'), questo è l'uomo Contrada, sta morendo ma ha una dignità da fare invidia a tutti, Contrada, dicevo, non ha intenzione di chiedere alcuna grazia. Ma la grazia può essere concessa dal capo dello Stato anche in assenza di domanda. E noi non abbiamo rivolto al capo delllo Stato alcuna domanda di grazia, bensì una semplice implorazione. La verità è che Bianconi parla con personaggi del Quirinale, fra cui il dottor D'Ambrosio. 'Io ho interpretato' mi dice D'Ambrosio 'la sua istanza non come una supplica o un'implorazione ma come una domanda di grazia'. Mi dà del cretino, dunque, il dottor D'Ambrosio, mi dà dell'ignorante (ma per Contrada questo ed altro!) perchè, sempre in base al codice di procedura penale, la domanda di grazia non si presenta al presidente della Repubblica ma al procuratore generale della Corte d'Appello che ha emesso la sentenza di condanna. Io, dunque, non ho presentato alcuna domanda di grazia e, d'altra parte, nello stesso comunicato stampa diramato dal Quirinale il 24 dicembre precedente (come anche nella lettera di D'Ambrosio inviatami quello stesso giorno) si parla di implorazione e supplica, poi trasmessa dallo stesso Napolitano al ministro della Giustizia cui spetta svolgere le attività istruttorie".

Si tratta di una precisazione importante. Bruno Contrada non vuole alcuna "Grazia". Bruno Contrada vuole soltanto Giustizia. Vuole che sia riconosciuta la sua innocenza. La grazia la chiede uno che è colpevole. Lui vuole la revisione del processo. La Storia esige e pretende la revisione del processo kafkiano cui il prigioniero è stato sottoposto. E' lo stesso Contrada, dopo aver affermato dal carcere "la mia dignità di uomo e di servitore dello Stato vale più della mia libertà e non permetto a nessuno di distruggerla a costo della mia stessa vita", a ribadire il concetto in una lettera inviata all'avvocato Lipera il 28 dicembre 2007, mentre divampano le polemiche sull'opportunità o meno di quello che sarebbe un atto di umanità nei suoi confronti: "All'inizio del sedicesimo anno del mio calvario" - scrive Contrada - "intendo continuare ad urlare la totale estraneità alle infamanti accuse rivoltemi. Lo farò fino a quando avrò un filo di voce che mi permetterà di rivolgermi a qualsiasi Giudice disposto ad ascoltarmi. Per questo motivo non ho chiesto alcuna grazia, poiché questa riguarda i colpevoli.
Voglio quindi rasserenare gli animi dei parenti delle vittime della mafia che hanno manifestato le loro opinioni senza conoscere personalmente l'uomo Bruno Contrada e quello che lui ha compiuto nella lotta contro la mafia.
Spero così che i toni di questi giorni vengano smorzati e ringrazio coloro che hanno creduto e credono in me ".
Lo stesso principio era stato enunciato da Contrada in una lettera inviata ancora all'avvocato Lipera qualche giorno prima: "Tutti coloro che, per qualsiasi motivo, vogliono dire qualcosa sulla mia vicenda giudiziaria" - scrive l'ex-poliziotto - "non parlino per sentito dire o sulla base di notizie dei mass-media; si informino, leggano gli atti dei processi, le sentenze, i motivi di appello, le memorie difensive, le testimonianze di più di 100 alti funzionari e ufficiali delle istituzioni dei corpi di polizia".
E' sacrosanto. Chiunque, privato cittadino o uomo delle istituzioni, prima di parlare deve documentarsi. Bruno Contrada ha chiesto soltanto che la gente che vuol parlare si perìti di conoscere con maggior precisione ciò che è inopinatamente accaduto nelle varie fasi del suo processo, e lo ha chiesto, peraltro, in un momento in cui ancora non erano state rese note le motivazioni della sentenza con cui la Corte di Cassazione gli ha spalancato le porte della prigione il 10 maggio 2007. Un imputato, condannato, detenuto, mantiene i diritti propri di un essere umano. Ed è suo pieno diritto, oltre che principio ineludibile di ogni logica e di ogni scienza, che chiunque voglia parlare di lui e delle sue vicende debba prima informarsi a dovere. E invece, oltre a tante voci solidali che si ergono forti e chiare dalla sua parte, arriva anche una vera e propria colata lavica di furenti e perbeniste dichiarazioni di pasdaran di un presunto Stato di Diritto, pensieri e parole di gente che parla senza pensare, improvvisati sanculotti di una Rivoluzione di cui costoro medesimi non si rendono conto di essere non gli artefici ma le vittime, gente che sa inneggiare all'intoccabilità delle istituzioni e delle sentenze quando sono gli altri ad essere colpiti, salvo poi invocare ogni attenuante ed ogni scappatoia dal primo poliziotto che dovesse contestar loro una semplice infrazione al Codice della Strada. Com'è facile pulire la propria coscienza sulle spalle degli altri! Com'è agevole scagliarsi comodamente dalla propria poltrona contro coloro che ogni servizio giornalistico insiste a definire "ubriachi al volante" che cagionano tanti incidenti stradali (anche se poi si scopre che il loro tasso alcoolico era irrisorio, ancorchè sopra gli infimi limiti pòsti dalla legge), sostenendo che la legge è giusta e ci voleva, per poi lamentarsi quando l'etilometro lo mettono sotto il nostro naso opinando che, alla fin fine, abbiamo soltanto bevuto "un bicchierino" in più! Com'è semplice demonizzare a mo' di unici untori universali i fumatori (sebbene, da fumatore, io sostenga che la legge Sirchia sia giusta) dimenticandosi di imporre ai signori industriali del petrolio o altro di ridurre le emissioni di gas nocivi nell'atmosfera o di adottare tutte le precauzioni necessarie! Com'è facile invocare lo Stato di Diritto e la Certezza della Pena sulla pelle altrui, senza preoccuparsi minimamente di tenere in considerazione quel virus dello Stato di Diritto che va sotto il nome di "errore giudiziario" e contro il quale i ricercatori più avveduti non hanno trovato ancora un antidoto! Eppure questi signori, questa parte un po' pigra, un po' vile del popolo italiano, certamente una parte assetata di sangue che brama di lavare in esecrabili auto da fe' le colpe di un sistema che derivano da responsabili diversi ed hanno origini più lontane, che affondano in buona parte anche nel loro stesso comportamento e nella loro mentalità da popolo chiamato a scegliere tra Cristo e Barabba, questi signori, dicevamo, sono scesi nella metaforica piazza di Internet armati di un moralismo da bieca pruderie e dalla violenza di cui sono capaci soltanto coloro che non possono scagliare la prima pietra per biblici motivi. Armi cui si aggiunge l'esasperazione del cittadino italiano che, d'altra parte, è tristemente abituato ad una giustizia incerta, a pene non espiate, a scappatoie attraverso le quali il cattivone di turno si insinua per sfuggire al suo giusto destino. Trattasi di un'indignazione comprensibile, per carità. Soltanto che, nel caso di Bruno Contrada, nessuno di costoro si è soffermato non solo a considerare l'ipotesi dell'errore giudiziario, ma neppure a valutare quanto sarebbe stato giusto ed opportuno documentarsi prima di aprir bocca. Le loro stesse frasi dimostrano la loro ignoranza della vicenda processuale in questione. Ne cito alcune, tratte dal famoso blog di Beppe Grillo:

1.

Marilù Barbera, 26 dicembre 2007, ore 13,51: "Contrada è molto malato, ma è sempre più in salute di tutti quelli che ha fatto uccidere...".
(La signora o signorina Barbera non conosce, evidentemente, il peso delle parole, nda).

2.

Danilo De Rossi, 26 dicembre 2007, ore 14,48, rispondendo a Margherita Grassi, che aveva scritto chiedendo quanti di questi internauti conoscessero realmente la vicenda giudiziaria di Contrada o avessero avuto modo di leggere gli atti del processo, e chiedendo loro anche perchè si ergessero a giudici di una vicenda e di una persona che non conoscono appieno: "Puttanate! La tua versione innocentista non vale quanto la mia, c'è una sentenza definitiva della magistratura di mezzo (ancora con questa panacea per tutti i mali!, nda), tu sei solo a favore dell'impunità dei potenti, si chiamino Contrada, De Lorenzo, Priebke, Berlusconi o Sofri, io rispetto la magistratura".
(Il signor De Rossi fa di tutt'un'erba un fascio, accostando il nome di Contrada ad alcuni nomi improponibili come Erich Priebke: perchè non citare anche il conte Vlad, Jack The Ripper o Nerone?, nda).

3.

Severino Verardi, 26 dicembre 2007, ore 14,06: "Contrada agiva per conto della massoneria, della mafia, delle corporazioni: le stesse che ora stanno premiando la sua omertà con la grazia".
(Le corporazioni? Quali corporazioni? Forse il signor Verardi crede di trovarsi ancora ai tempi di Mussolini oppure nella Firenze medicea?, nda).


4.
"Salice piangente", 26 dicembre 2007, ore 17,56: "Non capisco perchè una volta in cella si ammalano sempre".

(Peccato. Da uno, o una, che si firma con uno pseudonimo ricavato dall'albero da cui una saggezza antica ricavò la sostanza successivamente sintetizzata come acido acetilsalicilico, ovvero il componente base dell'aspirina, mi sarei aspettato una maggior attenzione ai problemi legati alla salute, nda).

5.
Giuseppe Vianello (libero), 26 dicembre 2007, ore 17,02: "Il presidente della repubblica delle banane si limita a passare la palla a un ministro dell'ingiustizia, che si preoccupa della salute di un dirigente dello Stato condannato per mafia a 10 anni. Si è mai preoccupato il ministro dell'ingiustizia di vedere quale danno ha causato allo Stato il signor Contrada? E forse anche morti? Ho il forte dubbio che la mafia regni fra le istituzioni".
(Ecco il danno causato dalla disinformazione: chiunque si degni di cercare di conoscere i fatti, o perlomeno di andare a leggere le carte processuali, scoprirà che il vero danno Contrada lo ha causato alla mafia con valanghe di rapporti di Polizia in cui ha denunciato decine e decine di mafiosi in un periodo in cui di mafia non si parlava neppura a bassa voce nelle TV o sui giornali, nda).

6.
Giuliano De Santis, 26 dicembre 2007, ore 16,03: "No, la grazia non è un atto dovuto proprio per niente. Che morisse in carcere".
(Complimenti al signor De Santis! Magari è uno che ha anche appoggiato la giusta moratoria internazionale proposta dall'Italia contro la pena di morte, nda).

7.
Federico Pasquini, 26 dicembre 2007, ore 21,35: "Deve morire in carcere, soffrire, anche se la sua sofferenza in nessun modo ripagherà il dolore di tutti coloro che hanno dato la vita per la legalità. La mafia siamo noi se rimaniamo indifferenti davanti a ciò che accade, ci hanno anestetizzato, siamo un popolo immobile. Non è possibile, non è giusto nei confronti di coloro che sono morti per noi".
(Valgono le stesse considerazioni fatte per il signor De Santis. Con in più il rilievo che il signor Pasquini ha ancor meno di altri idea di quella che sono stati la carriera di Bruno Contrada e il suo impegno per la legalità e le istituzioni, nda).

E giù altri bigliettini d'auguri che non vale neppure la pena di perder tempo a citare.
Ecco cosa ha causato la scarsa informazione. E se c'è qualcuno che è anestetizzato, come lamentava il signor Pasquini, è quella parte di italiani che sono stati addormentati dalla mancanza di un'informazione corretta. Ecco quali sono i veri danni, non quelli che, secondo il signor Vianello, improbabilmente soprannominatosi "libero", Contrada avrebbe causato allo Stato. E' lo Stato, caso mai, che ha causato danni a Contrada.

Ma non ci sono soltanto voci di cittadini disinformati a contestare la concessione di qualunque beneficio a Contrada. Ci sono voci più subdole, più nascoste, più inquietanti. Più che voci, sommessi bisbigli da artisti del complotto. Le gracchianti e malevole direttive di coloro che l'avvocato Piero Milio, difensore di Contrada in primo grado insieme all'avvocato Gioacchino Sbacchi, definì i "pupari e mestatori" dietro tutta la congerie di pretestuosi veleni rovesciati addosso all'ex-capo della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo. Coloro che, come scrive Lino Jannuzzi sul sito Internet de Il Giornale il 28 dicembre 2007 "ora temono la revisione del processo, che può smascherare i 'pentiti' e scoprire gli autori della trama. E temono anche la grazia: meglio che Contrada muoia in carcere e al più presto".

Prima della revisione del processo, comunque, l'urgenza è quella di tutelare la salute del detenuto Bruno Contrada. Nel frattempo, al di qua della raffica di polemiche che agita la fine di un altro anno triste per la storia d'Italia, è successo qualcosa. Il 28 dicembre il detenuto Bruno Contrada viene ricoverato all'improvviso nel reparto detenuti dell'Ospedale Cardarelli di Napoli, il cosiddetto padiglione "Palermo", su disposizione del magistrato di sorveglianza del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Un giorno di ricovero poi, contro il parere dei medici, che hanno messo per iscritto la loro assoluta contrarietà alle dimissioni del paziente (che è "affetto" - come essi stessi vergano su carta - "da patologie croniche non acute, a livello cerebrale e polmonare" e avrebbe bisogno, a loro giudizio, di ulteriori accertamenti), Contrada firma e lascia l'ospedale. "Sono andato via e ho preferito tornare in carcere" - spiegherà qualche giorno più tardi lo stesso Contrada ai microfoni di Sky TG24 - "perchè in ospedale sono stato offeso. Sono stato trattato come un volgare delinquente comune". L'avvocato Lipera preciserà ulteriormente le cose: "Capisco perfettamente la scelta del mio cliente" - dice - "non si può immaginare cosa sia il reparto detenuti dell'ospedale Cardarelli. E' un vero e proprio lager. I degenti stanno in cubicoli freddi, senza alcuna assistenza. Chi entra malato, esce morto".
E, a parte le condizioni del reparto ospedaliero (comuni, purtroppo, a tanti luoghi della nostra malata Sanità), Contrada in ospedale viene davvero trattato da delinquente pericoloso. Tutti si muovono intorno a lui con armi di grosso calibro, come se una persona anziana di settantasette anni circa possa costituire un pericolo o tentare la fuga dalla finestra del bagno come il Turnier di clouseauiana memoria.
Frattanto, l'iter innescato dalla supplica rivolta dallo stesso avvocato di Contrada al capo dello Stato prosegue. O almeno così pare. L'avvocato Lipera ha compiuto i passi necessari. Le carte sono in tavola. In un Paese normale ed evoluto, tutto sarebbe chiaro e l'istanza principale sarebbe quella di preoccuparsi della sopravvivenza, dunque della vita stessa, di una persona anziana, provata e sofferente, già ricoverata d'urgenza più volte, la cui salute, ormai precaria, sfiorisce di ora in ora dietro le grigie sbarre del suo personale Chateau d'If. Ma, come tante volte è accaduto nella storia della Repubblica Italiana, la vicenda si complica.
Uno dei due pubblici ministeri che rappresentarono l'accusa nel processo di primo grado, Antonino Ingroia, sente il dovere di intervenire per sottolineare che "in tutta questa vicenda bisogna tenere ben distinto il profilo giudiziario dal profilo umano. C'è il rischio di disorientare l'opinione pubblica. Ecco perché bisogna tenere separati i due profili. Vorrei ricordare che c'è stata una sentenza passata in giudicato in cui Contrada è stato riconosciuto colpevole. Questa sentenza non può essere vanificata. Se ci sono degli elementi a sua discolpa allora si farà la revisione, ma ad oggi c'è una sentenza passata in giudicato che va riconosciuta e rispettata".
Il 9 gennaio 2008 il Quirinale blocca l'iter avviato dopo la supplica. E' l'ennesima farragine del magmatico sistema italico. Il Colle, per bocca del già ricordato consigliere per gli Affari di Giustizia del capo dello Stato, Loris D'Ambrosio, enuncia i due motivi che hanno portato al blocco. Il primo è l'esatta interpretazione della lettera inviata dal difensore di Contrada al presidente della Repubblica (lettera che, come abbiamo visto, D'Ambrosio aveva interpretato come una richiesta ufficiale di grazia, salvo accorgersi in un secondo momento che, proprio come aveva sempre sostenuto l'avvocato Lipera, si trattava di una semplice supplica o implorazione). Il secondo motivo è l'annuncio da parte dello stesso avvocato dell'intenzione di presentare una richiesta di revisione del processo, cosa che, secondo il parere del Quirinale, farebbe venir meno le condizioni per far proseguire l'iter della concessione della grazia, che, come abbiamo visto, può essere concessa dal capo dello Stato anche motu proprio, vale a dire in assenza di una richiesta specifica. Che di fatto non c'è mai stata.
E' lo stesso presidente Napolitano, il 12 gennaio 2008, a spiegare le ragioni tecniche della sua decisione. In risposta ad una lettera del senatore di Alleanza Nazionale Gustavo Selva, autore di un accorato appello in favore di Bruno Contrada (che riportiamo nel capitolo dedicato al "Dissenso dell'opinione pubblica"), Napolitano sottolinea che non c'è stata da parte sua nessuna "marcia indietro, come si è volgarmente affermato da qualche parte" e ribadisce di non aver subìto "condizionamenti di sorta". "Quanto esposto nella sua lettera" - scrive Napolitano in una nota diffusa dall'ANSA - "è in linea con le dichiarazioni più volte rese a organi di stampa dal Contrada e dal suo legale. Questi, dopo avermi trasmesso il 20 dicembre scorso una 'implorazione in favore di Bruno Contrada', ha successivamente assunto che essa non andava considerata come domanda di grazia, ma solo come sollecitazione al Capo dello Stato perché attivasse motu proprio la procedura per l'atto di clemenza; ha inoltre precisato l'intenzione - sua e del Contrada - di presentare ricorso per la revisione della condanna ritenuta profondamente ingiusta. Nell'esercitare il potere costituzionale di 'concedere le grazie e commutare le pene' mi sono sempre doverosamente attenuto ai princìpi indicati dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 200 del 2006 e ai precedenti che non fossero in contrasto con detti princìpi. Infatti, la necessità di avviare l'attività istruttoria in presenza di una 'iniziativa' di soggetti legittimati (condannato, suoi familiari e avvocato) - principio precedentemente affermato anche dal giudice amministrativo - è ora chiaramente deducibile dalla citata sentenza della Corte Costituzionale. A tale principio mi sono pertanto ispirato, nell'ottica del favor rei, anche quando la qualificazione della istanza come domanda di grazia poteva prestarsi a dubbi interpretativi: solo a questo titolo ho perciò interessato il Ministero della Giustizia perché avviasse l'attività istruttoria prevista dall'art. 681 del codice di procedura penale sùbito dopo aver ricevuto la 'implorazione' dell'avvocato Lipera.
Tale mio passo non aveva quindi nulla a che vedere con l'avvio di una procedura per la concessione d'ufficio della grazia che avrei dovuto, se di ciò si fosse trattato, espressamente evidenziare. Come risulta dalla citata sentenza n. 200 del 2006 della Corte Costituzionale, all'avvio d'ufficio dell'istruttoria non può procedersi in assenza dei presupposti che legittimerebbero il successivo atto di clemenza, e in particolare di quello in base al quale la grazia non può mai costituire un improprio rimedio volto a sindacare la correttezza della decisione penale adottata dal giudice. Questa ultima affermazione trova conferma nel messaggio che il Presidente Scalfaro inviò ai Presidenti delle Camere il 24 ottobre 1997 ove sostenne che 'qualora applicata a breve distanza dalla sentenza definitiva di condanna', la grazia ha 'il significato di una valutazione di merito opposta a quella del magistrato, configurando un ulteriore grado di giudizio che non esiste nell'ordinamento e determinando un evidente pericolo di conflitto di fatto tra poterì. E' questa la ragione per la quale, nel prendere doverosamente atto che, a seguito delle dichiarazioni di Contrada e del suo legale, la 'implorazione' dell'avvocato non doveva essere configurata come domanda di grazia, ho comunicato al Ministro della Giustizia, il 9 gennaio scorso, che la procedura aperta su quella base non poteva dunque avere ulteriore corso: non vi è stata pertanto alcuna 'marcia indietro', come si è volgarmente affermato da qualche parte, né tantomeno ho subito condizionamenti di sorta. Inoltre, disporre d'ufficio l'istruttoria per la concessione della grazia in pendenza di procedimenti per il rinvio della esecuzione della pena o l'applicazione di una misura alternativa alla detenzione, motivati con le gravi condizioni di salute del Contrada, avrebbe indebitamente sovrapposto una procedura a carattere straordinario ed eccezionale a ordinari rimedi penitenziari : sovrapposizione, anche questa, inammissibile alla luce della sentenza n. 200 del 2006.
E' esclusivamente nella sede giurisdizionale che le condizioni di salute del Contrada dovranno ora essere prese in esame. Non può esserle però sfuggito che, per comprensibili ragioni umanitarie, di esse mi sono già fatto carico quando, essendomi state segnalate dal legale del Contrada nella sua 'implorazione', ho richiesto al presidente del tribunale di sorveglianza di valutare l'opportunità di anticipare l'udienza nel corso della quale di esse doveva discutersi per decidere sulla loro compatibilità con la detenzione carceraria; anticipazione che, con apprezzabile sensibilità, è stata disposta. Per quanto riguarda infine le considerazioni critiche da lei ampiamente svolte nella sua lettera circa la fondatezza della sentenza definitiva di condanna emessa nei confronti del Contrada, è evidente l'impossibilità per il Presidente della Repubblica di raccoglierle a qualunque titolo, esprimendo valutazioni indebite su una decisione della magistratura".
Alcuni telegiornali sintetizzano il pensiero di Napolitano con le seguenti, dure parole: "Non si concede la grazia a chi pretende l'assoluzione". E, probabilmente, proprio questo è il nocciolo della questione. Condannato ingiustamente, Contrada dovrebbe ammettere colpe che non ha commesso per poter uscire di prigione? E, per giunta, dovrebbe farlo davanti ad uno Stato che un anno prima ha aperto le porte delle patrie galere per far uscire fior di delinquenti (che in alcuni casi sono tornati a delinquere) con un contestatissimo indulto?
Il vero problema, al di là di speciose questioni giuridiche, è che dum Romae loquitur, Saguntum expugnatum est. Con il povero Bruno Contrada, in carcere e con una ventina di patologie accertate, nell'ingrato ruolo della città iberica cinta d'assedio da Annibale. La notizia del blocco viene data da Giuseppe Lipera, che racconta di aver ricevuto una telefonata da Loris D'Ambrosio: "Il presidente della Repubblica" - dice Lipera - "ha inviato una lettera al ministero della Giustizia per revocare l'avvio dell'iter per l'eventuale concessione della grazia a Bruno Contrada. D'Ambrosio mi ha detto che il Quirinale aveva interpretato come una richiesta ufficiale la mia missiva. Adesso, avendo appreso che era invece una supplica, e con la richiesta di revisione del processo pendente, sarebbero venute meno le condizioni per fare proseguire l'iter per la grazia. Io non l'ho mai chiesta, ma ho sollecitato al presidente della Repubblica un procedimento di sua iniziativa. Francamente, non capisco questa marcia indietro". L'impasse che si registra nella vicenda (che sarebbe di semplice lettura ma, come da italico costume, viene resa complicatissima) fa indignare anche l'ex-presidente del Consiglio e attuale capo dell'opposizione Silvio Berlusconi. "Non si può pensare" - dichiara Berlusconi all'AGI - "che un servitore dello Stato, condannato con le accuse di chi ha contribuito a far arrestare, sia dimenticato e trattato in questo modo. Sono cose che non possiamo accettare". Berlusconi dichiara anche di appoggiare la richiesta nel frattempo avanzata dal senatore di Forza Italia Lino Jannuzzi per la creazione di una Commissione Parlamentare d'Inchiesta sulla vicenda di Bruno Contrada. L'avvocato Lipera ribadisce, intanto, che "non è assolutamente e categoricamente possibile sollevare dubbi interpretativi sul contenuto, formale e sostanziale, della mia lettera del 20 dicembre scorso, inviata al signor capo dello Stato Giorgio Napolitano".
Ma, nonostante il pennello usato dall'avvocato Lipera determini sulla tela dei tratti sicuri ed evidenti, la cornice che viene applicata dal Quirinale mal si adatta all'opera. Il quadro, di conseguenza, risulta grigio e dai contorni sfocati. L'avvocato Lipera ha chiarito fin dal primo momento di non aver presentato alcuna domanda di "grazia" ma una semplice supplica o implorazione per consentire che un detenuto malato possa curarsi a casa (non da uomo "libero" ma agli arresti domiciliari). La pennellata è decisa e sicura. Il Quirinale interpreta, però, questa istanza come una richiesta di grazia e, resosi conto solo in un secondo momento che si tratta invece di una semplice supplica, la ritiene incompatibile con l'istanza di revisione del processo che, frattanto, l'avvocato ha annunciato di voler presentare. La cornice di cui sopra. Nessuno, a parte la difesa di Contrada, pare preoccuparsi, a fronte di questi problemi procedurali e dottrinari, del fatto che il detenuto versi in condizioni di salute che definire gravi sarebbe un eufemismo e che possono peggiorare da un momento all'altro.
Ancora una volta, l'italico habitus mentale prevede una vittoria della forma più astratta sulla sostanza.

Nel frattempo, parallelamente al convulso iter della "supplica fraintesa" (sembra il titolo di un canovaccio della Commedia dell'Arte o di un intermezzo comico da melodramma settecentesco: soltanto che qui non c'è assolutamente nulla da ridere) corre su un altro binario l'istanza di scarcerazione per Bruno Contrada che il 4 gennaio 2008 l'avvocato Grazia Coco (sostituto di Lipera) deposita nella cancelleria del magistrato di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere. L'istanza viene trasmessa per conoscenza al Consiglio Superiore della Magistratura, al ministro della Giustizia Clemente Mastella e al Procuratore Generale della Corte di Cassazione. I legali di Contrada chiedono al Tribunale di Sorveglianza di Napoli di decidere al più presto. Il Tribunale fa sapere di aver intenzione di anticipare l'udienza camerale, che in effetti si svolge il 10 gennaio anzichè a febbraio, come era stato inizialmente previsto. Ma la decisione dopo l'udienza tarda inspiegabilmente ad arrivare.
Il 14 gennaio 2008 l'avvocato Lipera invia un telegramma al Tribunale di Sorveglianza di Napoli. Questo il testo: "Sottoscritto difensore 76enne Bruno Contrada, detenuto carcere militare Santa Maria Capua Vetere, riferimento udienza camerale 10 cormes. STOP. Non avendo ricevuto comunicazione alcuna decisione da codesto on.le Tribunale, rilevato sussistere et permanere pregiudizio imminente et irreparabile, causa condizioni di salute gravi del condannato, sollecito emissione chiesto provvedimento differimento pena aut detenzione domiciliare STOP. Declino ogni responsabilità ipotesi infausta STOP. Catania, 14 gennaio 2008. Avv. Giuseppe Lipera".

All'indirizzo e-mail del Tribunale di Sorveglianza di Napoli piovono messaggi di solidarietà per Bruno Contrada. Si chiede sollecitudine nell'emissione del provvedimento. E, il giorno dopo l'invio del telegramma dell'avvocato Lipera, il provvedimento arriva. Funesto. Inesorabile. Sinistro. Ma, soprattutto (e purtroppo), atteso. Nel primo pomeriggio del 15 gennaio 2008 il Tribunale di Sorveglianza di Napoli rigetta l'istanza di differimento della pena o di concessione degli arresti domiciliari per motivi di salute. "Sono sconcertato, non riesco a capire il motivo di questa decisione" - commenta a caldo l'avvocato Giuseppe Lipera - "Adesso, prima di decidere quale altra iniziativa prendere, aspettiamo di leggere le motivazioni dei giudici".
Che arrivano immediatamente. Come un macigno. In linea, peraltro, con quanto aveva scritto il giudice Daniela Della Pietra, magistrato di sorveglianza del carcere di Santa Maria Capua Vetere, per rigettare la prima istanza di scarcerazione qualche tempo prima. E' la solita storia che, tragicamente, in una sorta di perversa unità di tempo, spazio e azione, si ripete ancora una volta nell'infinito iter della vicenda processuale di Bruno Contrada: i nuovi magistrati cui ci si appella ricalcano l'impostazione dei magistrati chiamati in precedenza a giudicare. Sarebbe una prova di coerenza del giudizio coi fatti se i fatti non stessero diversamente. E i fatti sono realmente diversi. Di fronte al precario stato di salute del detenuto Bruno Contrada, le ragioni addotte dal giudice Della Pietra per trattenere il detenuto dietro le sbarre sono le stesse che vengono ripescate dai magistrati del Tribunale di Sorveglianza di Napoli in poche pagine. Per l'esattezza sei, tristi pagine che servono a spiegare che, ancorché vecchio e malato, debilitato nel fisico e nel morale da un'ordalia lunga più di quindici anni, Contrada “ha a disposizione in carcere tutti gli strumenti e l’assistenza medica atti a curare le proprie patologie”. Patologie che, comunque, secondo tutti i medici che lo hanno visitato (e il Tribunale non può non prenderne atto) sarebbero tali da “sconsigliare il proseguimento della detenzione”. Secondo i giudici napoletani, per il differimento della pena o per la concessione degli arresti domiciliari non basta nè l'incompatibilità dello stato di salute del detenuto col regime carcerario (provata, appunto, dalle relazioni mediche) e neppure il pericolo di vita: dovrebbe esserci qualcosa in più (che cosa?) che leghi lo stato di detenzione e la morte con un nesso causa-effetto. Ma i nuovi giudici incalzano. In buona sostanza, essi scrivono che il reato di concorso esterno in associazione mafiosa è talmente grave da non consigliare alcuna clemenza. Nulla da dire sulla gravità del reato in sè, per carità: il punto è che Bruno Contrada quel reato non lo ha commesso. "Insomma" - scrive Dimitri Buffa su L'Occidentale - "una volta che un tribunale gli appiccica addosso la patente di mafioso, a torto o a ragione, e magari solo sulla parola dei pentiti, qualunque cittadino italiano è spacciato. E poco conta che sia stato un servitore dello stato che ha assicurato alla giustizia decine di criminali mafiosi in oltre 30 anni di carriera".
L'avvocato Lipera reagisce con sdegno alla pubblicazione delle motivazioni. "Il caso Contrada" - dice - "forse non è mai stato solo giudiziario, e adesso lo si evince ancor di più. Infatti è diventato anche un caso politico ed istituzionale.E ciò che è grave ed inquietante è che questa vicenda assomiglia sempre di più alla storia del capitano francese Albert Dreyfus, mentre in Italia cresce la sfiducia in chi fa le leggi e in chi le applica: per questo l'Italia è un Paese triste, non solo per la monnezza . In Italia si è pericolosi per legge: basta contestare un'aggravante di un 416 bis, non importa se si è vecchi o ammalati, che la pericolosità diventa ancorata all’imputazione non alle prove che la sorreggono... Così ha stabilito il legislatore, cioè i parlamentari di allora che votarono quella legge e i parlamentari di oggi che la mantengono in vita. In Italia si è in salute e giovani con un semplice provvedimento di un giudice... I medici del Cardarelli, i luminari interpellati dai difensori del Contrada, i sanitari del Carcere Militare di Santa Maria Capua Vetere dicono tutti castronerie. Infatti non è vero che in carcere Bruno
Contrada soffra in maniera disumana, non è vero che rischi ischemie cerebrali o cardiache e quindi la vita. Solo quello che dicono i giudici è vero. Giudici che hanno deciso, nonostante il parere contrario di tutti i medici, che Contrada deve stare in carcere. Aveva ragione Piero Calamandrei: il giudice ha il potere del mago della favola, può far diventare il bianco nero ed il nero bianco".
L'avvocato è un fiume in piena. "Se questa fosse una normale sentenza" - tuona - "diremmo semplicemente 'faremo ricorso in Cassazione'. Solo che la Corte Suprema di Cassazione non deciderà nè domani nè la prossima settimana perchè, come è noto a tutti, i tempi sono lunghi e intanto il malato muore. Per Silvia Baraldini (condannata per terrorismo) o per Adriano Sofri e Ovidio Bompressi (condannati per l'omicidio del commissario Calabresi), persone che certamente non avevano e non hanno 77 anni, le decisioni dei Tribunali di Sorveglianza di competenza furono diverse. Quindi, manifesta disparità di trattamento a seconda se sei detenuto a Pisa o a Roma anzichè a Napoli. Perchè il ministro della Giustizia Clemente Mastella, magari in sinergia col ministro della Salute Livia Turco non dispone che il suo dicastero effettui un monitoraggio di tutti i provvedimenti emessi in questi anni dal magistrato di Sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere Daniela Della Pietra e dal Tribunale di Sorveglianza di Napoli aventi ad oggetto incompatibilità carceraria per gravi motivi di salute e li fa raffrontare con quelli emessi dai Tribunali di Sorveglianza degli altri distretti? Credo che verrebbero fuori delle verità sconcertanti che tutti i cittadini italiani devono sapere".
Il giorno dopo il gran rifiuto del Tribunale di Sorveglianza partenopeo, l'avvocato Lipera presenta al giudice Daniela Della Pietra, magistrato di sorveglianza del carcere di Santa Maria Capua Vetere, una nuova istanza di differimento della pena o di arresti domiciliari per motivi di salute in favore di Bruno Contrada. L'avvocato ribadisce come il suo assistito non possa assumere antinfiammatori ed antidolorifici in quanto inconciliabili con gli antidepressivi che è costretto a prendere e come non esistano le "soluzioni terapeutiche alternative ipotizzate dal Tribunale". "Io, certamente, non resterò a guardare mentre Contrada muore." - dichiara Lipera - "Nelle prossime ore saprete che cosa farò".
E lo fa. Mentre il giudice Della Pietra rigetta l'istanza una seconda volta ("Il quadro clinico di Bruno Contrada non appare modificato rispetto alle precedenti valutazioni mediche. Non ci sono le condizioni per un differimento della pena", dice nelle motivazioni: il quadro clinico di Contrada non è diverso da prima, ma era già preoccupante in precedenza...
), l'avvocato impugna direttamente in Cassazione la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, lamentando che il diritto alla salute dello stesso Bruno Contrada sia stato palesemente violato dai magistrati partenopei. "Il tribunale" - afferma il legale - "ha seguito un percorso non corretto nel giudicare lo stato di salute di Contrada perchè non ha tenuto in considerazione il quadro clinico complessivo, ma ogni singola patologia. Al contrario, solo con un'attenta analisi complessiva, che tenga conto del quadro generale delle condizioni di salute del dottor Contrada, è possibile comprendere la gravità delle condizioni medesime. Considerare singolarmente le malattie da cui egli è affetto non può in alcun modo rappresentare il quadro reale e veritiero dello stato fisico in cui versa attualmente".

Il migliore e più icastico commento alle aberrazioni che si vanno aggiungendo alla tragedia che ha ingiustamente colpito Bruno Contrada lo dà il giornalista Nino Ippolito il 10 gennaio 2008 sul sito Internet www.giustiziagiusta.it. Ippolito parla di "una forma di inaudito accanimento che lascia quanto meno perplessi" ed aggiunge: "Le gravi condizioni di salute, acclarate da diverse e motivate certificazioni sanitarie, ne fanno – mi si perdoni il crudo linguaggio – un moribondo. La permanenza in carcere – dicono le perizie – è non solo incompatibile con le sue condizioni di salute, ma le aggraverebbe. La legge contempla il differimento dell’esecuzione della pena, ma il magistrato competente – ed è notizia di poche ore fa - ha già respinto una specifica richiesta del legale di Contrada, l’avvocato Giuseppe Lipera. L’impressione che se ne ricava, ancora con maggiore evidenza, è di una sfida 'al di sopra' dello stesso imputato, in cui il problema da capire e risolvere non sono le sue condizioni di salute, ma ciò che rappresenta Contrada nell’immaginario collettivo: un colluso e un traditore dello Stato. Il moribondo, dunque, rimane in carcere, subendo, nei fatti, la condanna ad una lenta agonia. E poco importa se 'le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità'. Almeno così sta scritto, con disarmante semplicità, nell’articolo 27 della nostra Costituzione, indipendentemente, va da sé, dal reato per il quale si è stati condannati. Lo Stato mostra così di sé un’immagine di crudele indifferenza, di meccanica fatalità, sottraendo non solo al buon senso ma ai più elementari principi di civiltà giuridica, la facoltà di togliere la vita. Ed inquieta che questa fatalità possa essere formalmente sostenuta con il supporto del diritto e delle macchinose malleabilità che, del diritto, è possibile fare anche per dimostrare la 'giustezza' di una detenzione che per alcuni tiene dietro le sbarre un 'simbolo', e in realtà ha messo ai ferri un corpo malato".

Frattanto, la situazione clinica di Bruno Contrada si aggrava. Il 30 gennaio 2008 l'avvocato Lipera si reca ancora una volta a trovare il suo assistito in carcere. "Il complesso di patologie è gravissimo. Bruno Contrada si trova in pessime condizioni di salute ed è in serio pericolo di vita, come affermano i medici, tutti i medici, privati, pubblici, di parte e della direzione sanitaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Dobbiamo soltanto confidare di trovare qualcuno che ha la volontà di applicare la legge, in nome di Dio e del popolo italiano" fa sapere l'avvocato tramite un comunicato stampa, inviando sùbito dopo una nota al giudice di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere e al presidente della Corte d'Appello e al Procuratore Generale di Caltanissetta. Il giorno dopo, commentando questa nuova iniziativa dell'avvocato Lipera, Giorgio De Neri scrive, sul sito Internet de L'Opinione, diretta da Arturo Diaconale, un articolo dal significativo titolo "Quando la giustizia diventa inumana". Lo riportiamo per intero. "Tecnicamente non è una nuova istanza di differimento della pena per motivi di salute né di accoglimento della misura di detenzione domiciliare. Non ancora almeno" - osserva De Neri - "Nella pratica, però, il documento presentato ieri dall’avvocato Giuseppe Lipera nell’interesse del proprio assistito Bruno Contrada ha il sapore di una messa in mora a tutti i giudici cui è stata indirizzata: il magistrato di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere, Daniela Della Pietra, il presidente della Prima Sezione Penale della Corte d'Appello di Caltanissetta, cioè il giudice che ha pronunciato la condanna a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa, ormai divenuta definitiva, e il Procuratore Generale della Corte d'Appello, la stessa che ha responsabilità dell’esecuzione della pena un volta diventata irrevocabile la sentenza pronunziata in nome del popolo italiano. Una messa in mora ma anche un mettere con le spalle al muro tutti questi magistrati qualora dovesse accadere qualcosa di brutto all’ex-numero tre del SISDE. Cosa che il difensore paventa senza mezzi termini nel proprio esposto. 'Contrada' – si legge– 'soffre contemporaneamente delle seguenti affezioni: cerebropatia vascolare cronica, vasculopatia ostruttiva carotidea, aortosclerosi, arteriopatia obliterante carotidea, ipertensione, cardiopatia, diabete, colecistopatia, sindrome depressiva, eczema diffuso, ipertrofia prostatica benigna...'. Per dirla alla romana Contrada 'sta più di là che di qua'. Ciò nonostante nessuno sembra avere pietà per questo vecchio che appare ormai destinato a morire in carcere. E infatti l’istanza di Lipera si chiude con tre domande, oramai desinate a essere definite 'retoriche': “con queste patologie, a quell’età, con la sofferenza particolare connessa allo stato detentivo, quanto tempo ancora, ed in che condizioni, potrà vivere il dottor Contrada? E’ giusto tutto questo? Siamo o no in una situazione di trattamento contrario al senso di umanità?”.

Molti altri, troppi, invece tacciono.

Il 13 febbraio 2008 Bruno Contrada, còlto da malore, viene trasferito d'urgenza all'Ospedale Civile di Santa Maria Capua Vetere. La diagnosi parla di "ictus cerebrale in paziente diabetico e cerebrovasculopatico". Contrada ha perso ormai sedici chili e, per via dei vari episodi ischemici subìti, la vista si è ulteriormente indebolita. L'avvocato Lipera rende noto di aver saputo del ricovero sùbito dopo aver letto la relazione del professor Franco Rengo, primario del dipartimento di Geriatria del Policlinico "Ferdinando II" di Napoli, che nei giorni precedenti aveva visitato Contrada e aveva accertato un peggioramento del suo stato di denutrizione, della sua depressione e del suo rischio cardiovascolare. L'avvocato chiosa, con amara ironia: "Un grazie di cuore a tutti coloro che si sono opposti alla grazia per Bruno Contrada, per tutti quei magistrati che hanno sinora denegato la sua liberazione e a tutti i politici, che hanno manifestato totale indifferenza".
Il 15 febbraio Contrada viene dimesso dall'ospedale. Ormai è un andirivieni continuo tra barelle e sbarre. L'avvocato Lipera reitera il suo grido d'allarme per invocare un atto di umanità, quanto meno la concessione degli arresti domiciliari, nei confronti di un "un vecchio ridotto pelle ed ossa", come lo definisce dopo esserlo andato a trovare in ospedale. "Perché non lo mandano a casa a morire nel suo letto?" - scrive in un comunicato stampa - "Bruno Contrada a Palermo non andrebbe a vivere in una villa di lusso, ma in un piccolo appartamento, una modesta casa popolare, per stare vicino a sua moglie Adriana, anziana e per questo acciaccata come lui. Chiunque abbia un cuore e un minimo senso d’umanità prova sdegno, semplicemente sdegno, per quanto è accaduto e per quanto sta accadendo, ma se qualcuno pensa incautamente che, con la morte di Bruno Contrada, finirà la battaglia per la verità e per la giustizia sbaglia di grosso: del caso Contrada se ne parlerà almeno per i prossimi cento anni!".

E se ne riparla immediatamente.
Il 18 febbraio il dottor Giuseppe Caruso, medico legale nominato dalla difesa, visita Contrada in carcere e stila la seguente, drammatica relazione: "L'attuale complesso quadro patologico di Bruno Contrada espone il paziente a gravissimo rischio sia di invalidità permanente sia di vita e lo rende incompatibile con l'ambiente carcerario. Le sue condizioni sono assolutamente incompatibili col carcere: a causa delle patologie vascolare-cerebrale, cardiaca, metabolica e psicologica, il paziente è da ritenersi ad altissimo rischio di ictus. Bruno Contrada è in immanente pericolo di vita e per questo a lui vanno concessi quantomeno gli arresti domiciliari, al fine di dargli la possibilità di curarsi in maniera più efficace, evitando così che le sue condizioni di salute possano peggiorare drasticamente ed irrimediabilmente con grave rischio per la vita stessa del paziente". Caruso ricorda che il suo giudizio "è peraltro lo stesso esposto da tutti i medici che lo hanno visitato, compreso il dirigente sanitario del carcere militare di Santa Maria Capua Vetere" e cita a sostegno della sua diagnosi anche le valutazioni "espresse da tutti i medici che in questi ultimi tempi hanno visita il paziente, come il professori Silvio Buscemi e Franco Rengo". Questi, nel dettaglio, i gravi problemi che il paziente presenta: "grave deperimento organico; vasculopatia cerebrale cronica in esito a sequela di accidenti vascolari; emianopsia destra; grave disturbo depressivo con marcata ansia reattiva; diabete mellito tipo 2; vasculopatia ostruttiva carotidea; insufficienza vertebro-basilare con vertigini marcate e persistenti; cardiopatia ipertensiva con bradicardia marcata; ipoacusia bilaterale con acufeni persistenti; ipertrofia prostatica con disturbi della minzione; colelitiasi; BPCO; poliartropatia diffusa con artralgie a marcata incidenza funzionale; deficit funzionale della spalla destra per lesione della cuffia dei rotatori; sinusite fronto-mascellare; gastro-duodenite con disturbi della digestione".
Il 21 febbraio l'avvocato Lipera, con una lettera al ministro della Difesa Arturo Parisi, sollecita la riapertura "urgente" del carcere militare di Forte Boccea a Roma. L'avvocato sostiene che il fatto che Roma sia più facilmente raggiungibile rispetto a Santa Maria Capua Vetere "faciliterebbe anche i rapporti tra i detenuti e gli avvocati che provengono da ogni Foro". Ma sottolinea anche che "si avrebbe un altro vantaggio: l'Ufficio del Magistrato di Sorveglianza di Roma è composto ovviamente da tanti magistrati anzichè da uno solo (come a Santa Maria Capua Vetere) e ciò consentirebbe un più ampio rapporto dialettico giuridico forense e magari una più completa e diversificata cultura della giurisdizione". Un'evidente frecciata al giudice Della Pietra. Cui, comunque, l'indomani, 22 febbraio, Lipera presenta la quarta istanza di differimento della pena per Bruno Contrada. L'istanza viene immediatamente rigettata.
"L'ennesimo provvedimento reiettivo" - è l'amaro commento di Lipera - "sembra voler dire che dal carcere il settantaseienne Bruno Contrada può uscire solo se muore oppure se entra in coma irreversibile".
Il 25 febbraio il professor Mario Barbagallo, ordinario di Geriatria presso l'Università di Palermo, visita Bruno Contrada in carcere su incarico dell'avvocato Lipera, il quale, contestualmente, presenta la quinta istanza di scarcerazione al giudice Della Pietra (che la rigetterà ancora una volta). Alla fine della visita medica, Barbagallo dichiara: "Ho visitato oggi il dottor Bruno Contrada presso il carcere militare di Santa Maria Capua Vetere ed ho preso atto della documentazione clinica. In considerazione dell’età del paziente, del profilo di elevato rischio di morbilità e mortalità cardiovascolare e dei ripetuti precedenti episodi di eventi cerebrocardiovascolari che hanno comportato una serie di ospedalizzazioni e della comorbilità complessa del paziente, appare evidente che la cura del dottor Contrada non sia compatibile col regime carcerario e la non osservanza del regime di cure prescritte si accompagnerebbe ad un ulteriore rischio cerebrocardiovascolare e metabolico. Nei prossimi giorni mi riservo una relazione dettagliata". E l'avvocato Lipera conclude: "E’ sconcertante. L’ennesimo consulto medico, di altissimo livello, conferma la gravità delle condizioni di salute del dottore Contrada, che a questo punto rimane in carcere contra legem. Purtroppo immaginavo, anche se non speravo, l’atteggiamento che avrebbe tenuto la Magistratura di Sorveglianza partenopea e per queste ragioni avevo invocato l’intervento sua sponte del Presidente della Repubblica. Purtroppo assai spesso ci accade di fare la fine di Cassandra. Ciò nondimeno, essendo palesemente esaustivo il pensiero del professor Mario Barbagallo espresso poco fa, mi preme immediatamente e doverosamente farlo ulteriormente presente al Magistrato di Sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere. Per quanto molto addolorato, consapevole di svolgere sino in fondo il mio dovere, non posso far altro che declinare ogni responsabilità nel caso di esiti infausti che dovessero sopravvenire di qui a poco. Ribadisco che di questa situazione ho informato sia il Ministro della Giustizia Scotti che il Consiglio Superiore della Magistratura".

L'8 marzo l'avvocato Lipera presenta al giudice Della Pietra la sesta istanza di scarcerazione. "La Costituzione" - dichiara - "sancisce categoricamente che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. La mera e cruda verità è che Bruno Contrada è un uomo anziano e malato, affetto da una trentina di patologie, una persona che soffre anche dei postumi di un ictus che lo ha portato a perdere, fra l'altro, parte della vista. E' inumano, ingiusto e illegittimo non sciogliere Bruno Contrada dai vincoli del regime carcerario a cui è sottoposto attualmente". Ma il rigetto è ormai praticamente automatico. Contro di esso, il 22 marzo Lipera presenta ricorso al presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, Angelica Di Giovanni, e reitera allo stesso giudice Della Pietra l'ennesima domanda di differimento della pena (la settima), stavolta con la precisa richiesta di sentire i medici che hanno in cura Contrada. Nel ricorso al Tribunale di Sorveglianza partenopeo, l'avvocato definisce "semplicemente incredibile l'ultimo rigetto del giudice Della Pietra, che nella sua valutazione non tiene conto di pareri medici specialistici. Sapere che il detenuto è stato sottoposto a visita odontoiatrica e che dalla stessa non è emerso alcunché di allarmante evidentemente avrà rassicurato la dottoressa Della Pietra. A tal punto che non la sfiora nemmeno il dubbio che a Contrada possa venire in carcere un ictus che potrebbe anche essergli fatale".
Indubbiamente. Il detenuto sarà anche stremato da una ventina di patologie gravi che affollano il suo già provato organismo, ma può stare in carcere perchè almeno i denti li ha a posto.

Il 23 marzo, giorno di Pasqua, Rita Bernardini (importante esponente del Partito Radicale, già in prima linea negli anni '70 nella lotta per i diritti degli invalidi) riceve due lettere dal carcere di Santa Maria Capua Vetere. Una è scritta e firmata da Ignazio D'Antone, l'altra da Bruno Contrada. Sono i due Edmond Dantes detenuti nel carcere casertano. Leggiamo quanto scrivono i due poliziotti:

"(...) A chi gli cheideva quale fosse la differenza fra un politico e uno statista, De Gasperi rispondeva che il primo era colui che pensava alle successive elezioni, il secondo chi guardava alle future generazioni.
Questa citazione degasperiana mi richiama alla mente alcune considerazioni di un grande poeta libanese di cui al momento mi sfugge il nome, peraltro abbastanza complicato: 'I nostri figli non sono nostri. Noi apparterremo sempre a loro, ma essi appartengono al mondo, alle loro idee, alla società in cui vivono e operano. Noi genitori siamo semplicemente l'amoroso arco che li lancia verso il domani, incontro all'avvenire'. Argomentando per analogia e per estensione, credo, carissima Rita, che la Politica ed il Governo che verrà debbano avere la stessa funzione della famiglia che dello Stato è la cellula primaria.
Proiettare il Paese verso il futuro; ma verso un futuro edificato sul rispetto per l'uomo, sulla sua centralità, sulal libertà, sullo sviluppo sociale, economico e scientifico, sulla cultura, sulla Verità e sulla Giustizia.
Un futuro in cui non debbano nè possano più verificarsi casi giudiziari come quelli di Bruno Contrada e di Ignazio D'Antone e, probabilmente, di altri ancora che ignoriamo.
Un futuro in cui possa emergere la verità sulle ingannevoli vicende che hanno devastato l'esistenza di due onesti servitori dello Stato che, da esso abbandonati e consegnati a magistrati intellettualmente prevenuti e fuorviati da pentiti e da sciacalli, possono ormai affidare la loro onorabilità, la loro reputazione e la loro totale innocenza al giudizio della Storia, se e quando verrà.
Ma io, cara Rita, ti scrivo per ringraziarti e non per angustiarti e penso che sia opportuno, a questo punto, riporre la penna che mi ha preso la mano e la mente.
Di quello che ti ho scritto e ti scrivo potrai farne l'uso che riterrai più congruo.
Mi affido completamente alle tue valutazioni e al giudizio che hai già palesato sulle vicende giudiziarie mie e di Bruno.
Prima di chiudere questa missiva voglio, però, augurarti, cara Rita, di trascorrere in serenitò, letizia e benessere la festività della Pasqua che si avvicina. Una santa ricorrenza che bussa al cuore del mondo per accedervi col suo bagaglio di valori religiosi, ma anche per vivificarne le virtù laiche atte a sostenere dolori, ingiustizie e sofferenze.
Buona Pasqua, Rita, con un caloroso, affettuoso abbraccio.

Ignazio"

"Carissima Rita,
cosa mai posso aggiungere a ciò che ti ha scritto Ignazio? Solo una cosa: ti sono profondamente grato di tutto ciò che hai fatto e fai per me, ti ringrazio di cuore e ti manifesto i miei sentimenti di affetto grande e sincero.
Ti voglio bene e ti abbraccio forte.

Bruno"

Due lettere commoventi, che potrebbero colpire l'opinione pubblica, ma non perchè questa sia tristemente abituata com'è a melensaggini televisive e al mercimonio di facili sentimenti propinato da certe trasmissioni o da certa musica, quanto per la carica di profonda e vera umanità che ha mosso la penna dei due prigionieri. I quali non sanno davvero più come gridare al mondo la loro innocenza e invocano il giudizio della Storia. Che, nonostante il lecito dubbio di Ignazio D'Antone al proposito, ci sarà. Ci sarà, eccome. E ribalterà tutto.
Al contrario di buona parte della stampa, che continua ad ignorare il caso Contrada e il caso D'Antone se non per sparare titoloni quando si tratta di dare addosso ai due poliziotti, Rita Bernardini risponde alle missive inviatele e scrive:
"Mi è giunta in questi giorni una lettera di Ignazio D'Antone e Bruno Contrada, che ho deciso di rendere in parte pubblica nel giorno di Pasqua perchè contiene auguri che ho molto gradito. Con Sergio D'Elia (ex-terrorista dissociato da Prima Linea e in seguito riabilitato, fondatore dell'associazione Nessuno tocchi Caino, che lotta per l'abolizione della pena di morte, e in quel momento deputato della Rosa nel Pugno, nda) ho incontrato D'Antone e Contrada il 22 dicembre dello scorso anno, quando abbiamo potuto apprezzare interamente l'umanità, il rigore, la dignità e l'integrità morale dei due poliziotti reclusi nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere. Ci auguriamo un futuro in cui possa emergere la verità sulle ingannevoli vicende che hanno devastato l'esistenza di due onesti servitori dello Stato".

Un futuro che ci auguriamo anche noi. Ma che, purtroppo, appare, al momento, ancora lontano.

Il futuro immediato, infatti, riserva un'altra amara sorpresa per Bruno Contrada. Pochi giorni dopo Pasqua, un altro pesante chiavistello viene serrato sulle speranze del prigioniero. Il 27 marzo la I Sezione Penale della Corte di Cassazione, presieduta da Severo Chieffi,
respinge il ricorso che la difesa aveva presentato contro l'ordinanza con la quale, il 15 gennaio, il Tribunale di Sorveglianza di Napoli aveva detto no al differimento della pena e alla scarcerazione di Contrada. Come era già tristemente avvenuto nell'àmbito del primo ricorso in Cassazione, quando i giudici con l'ermellino avevano annullato la sentenza d'assoluzione in appello nonostante il sostituto procuratore generale avesse chiesto la conferma della medesima e quindi l'assoluzione in via definitiva dell'imputato, anche in questo caso il sostituto procuratore generale, nella fattispecie Tindari Baglione, aveva assunto una posizione diversa da quella consacrata poi nella decisione finale: nella sua requisitoria scritta si era dimostrato, infatti, favorevole ad una nuova valutazione del quadro clinico del detenuto e aveva addirittura chiesto l'annullamento con rinvio dell'ordinanza del Tribunale di Sorveglianza impugnata. In altre parole, aveva chiesto che la decisione di tenere Contrada in carcere fosse annullata e fosse concessa la possibilità di un nuovo esame della situazione, anche dal punto di vista medico, onde poter fare una nuova valutazione. La Cassazione ha detto no.

L'esame odontoiatrico di Contrada evidentemente tranquillizza tutti coloro che indossano delle toghe. Aveva da poco tranquillizzato il giudice Daniela Della Pietra, che aveva così potuto rigettare l'ennesima istanza di scarcerazione, e rasserena anche il collegio giudicante della I Sezione Penale della Cassazione.
Fuor di metafora, nell'intera, sconfortante vicenda giudiziaria di Bruno Contrada, i giudici hanno mostrato di tenere conto di ciò che i rappresentanti della pubblica accusa sostenevano solo quando di accuse, per quanto infondate, si trattava: ogniqualvolta le toghe dell'accusa si sono mosse per fare anche soltanto un minimo cenno favorevole all'imputato, è intervenuta una decisione successiva di segno diametralmente opposto.
Cui prodest?

L'avvocato Lipera persiste nella sua linea d'azione e non lascia nulla d'intentato. Il 3 aprile Bruno Contrada, denutrito e gravemente depresso, viene ascoltato dai giudici del Tribunale di Sorveglianza di Napoli e, dopo aver sottolineato per l'ennesima volta di essere detenuto ingiustamente, dichiara: "Intendo tornare a casa non per stare in spiaggia ma per tentare di curarmi meglio, per trascorrere gli ultimi giorni di vita accanto a mia moglie e poter morire a casa, perché sono consapevole di avere poca vita".
Contestualmente alla deposizione di Contrada, la difesa deposita presso la cancelleria del Tribunale di Sorveglianza un invito ad astenersi rivolto al giudice Daniela Della Pietra, nell'eventualità che la stessa possa far parte del Collegio che dovrà decidere entro pochi giorni sull'ennesima richiesta di scarcerazione dell'ex-capo della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo. Frattanto, l'avvocato Lipera contesta la condotta di tutte le testate giornalistiche nazionali che, a suo dire, "durante questi mesi non hanno mai dato spazio alle numerose notizie riguardanti il dottore Contrada, se non a quelle di natura negativa". Esattamente ciò che era accaduto durante il processo di primo grado.
Quello stesso 3 aprile il Tribunale di Sorveglianza di Napoli rigetta l'ennesima istanza di differimento della pena o, in alternativa, concessione degli arresti domiciliari.
Gli esami medici continuano. Prima di prendere la sua decisione, il Tribunale di Sorveglianza di Napoli richiede una relazione sanitaria all'infermeria speciale dell'organizzazione penitenziaria militare. La risposta consiste in un documento lungo nove pagine, dove si legge, fra le altre cose, quanto segue: "Alcune delle patologie emerse hanno un'elevata percentuale di mortalità e sono, tra l'altro, correlate funzionalmente tanto da indurre un fenomeno a catena quando si verifica lo scompenso di una di esse. In definitiva, il complesso nosologico che affligge il detenuto consente di affermare che quest'ultimo è incompatibile con il regime di restrizione. ll precario equilibrio delle varie patologie comporta uno stretto controllo medico specialistico ed un continuo ricorso a stnitture ambulatoriali ed ospedaliere esterne, sia per interventi maggiormente approfonditi che per esami di routine, atteso che la struttura sanitaria del carcere Militare non è dotata di attrezzature atte a svolgere esami estemporanei, nè è idonea a fronteggiare le emergenze in àmbito neurologico, così come per quelle cardiovascolari".
Più chiaro di così...

Nel frattempo, va avanti anche un altro complicato iter, uno dei mille affluenti di questo fiume in piena che nel corso degli anni è diventato il processo Contrada. Il 27 marzo 2007, infatti, poche settimane prima della sua condanna definitiva, Bruno Contrada aveva presentato alla Procura di Caltanissetta un esposto per denunciare tutti coloro che lo avevano ingiustamente accusato, ed il 21 gennaio 2008 (i tempi della giustizia italiana...) la medesima Procura aveva chiesto al Gip l'archiviazione di questo procedimento. Contrada, ovviamente, si oppone all'archiviazione ed il 7 aprile successivo il giudice Della Pietra, su delega del Gip del Tribunale di Caltanissetta Ottavio Sferlazza, lo interroga in carcere, in qualità di persona offesa. Per circa sei ore Contrada, assistito dagli avvocati Marilisa Prestanicola del Foro di Roma, e da Salvatore Ficarra del Foro di Catania, entrambi appartenenti allo studio di Giuseppe Lipera, ha ripetuto che nei suoi confronti "sono state dette una marea di bugie e rappresentate tante circostanze non vere. Far luce sulle vicende narrate nell'esposto-denunzia presentato il 27 marzo del 2007 alla Procura della Repubblica di Caltanissetta significherà stabilire una volta per tutte precise verità". Contrada chiede (e non è certo la prima volta) che vengano svolte indagini mirate ed indica nomi, cognomi e circostanze assolutamente precise.

Frattanto, nell'oceano di orrori che continua a lambire le frastagliate coste dell'assurda vicenda umana e processuale di Bruno Contrada, si intravede almeno una goccia di speranza. Il PM catanese Lucio Setola chiede la condanna a 4 anni di reclusione per il "pentito" Giuseppe Giuga, reo di calunnia ai danni di Contrada: per l'altro "pentito" di Sommatino, in provincia di Caltanissetta, ossia Calogero Pulci, il PM chiede l'assoluzione in quanto ritiene che non fu Pulci ad istigare Giuga a formulare la falsa accusa secondo cui l'ex-capo della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo avrebbe agevolato la fuga del boss catanese Nitto Santapaola. Il processo è stato aggiornato al prossimo 14 luglio. L'avvocato Lipera commenta: "La requisitoria del PM e le sue richieste sono l'ultima conferma delle tante falsità che sono state raccolte e lanciate contro il mio assistito. Attendiamo ora che anche altri si rendano conto che Bruno Contrada è innocente e non può rimanere in carcere".
Sono in molti a rendersene conto, tranne quelli che dovrebbero prendere una decisione in materia.
Parallelamente al capitolo relativo a Giuga e Pulci, altri affluenti continuano a riversare le proprie acque nel fiume in piena del caso Contrada. Il 16 Aprile, a Caltanissetta, si apre davanti al Gip Ottavio Sferlazza l'udienza in cui si deve discutere dell'opposizione della difesa alla richiesta di archiviazione avanzata dal PM contro la revisione del processo Contrada.
Poi, il giorno dopo, il 17 aprile, Anna Contrada, sorella di Bruno, scrive una lettera disperata al magistrato di sorveglianza del carcere di Santa Maria Capua Vetere e, per conoscenza, ai presidenti emeriti della Repubblica e senatori a vita Francesco Cossiga e Carlo Azeglio Ciampi. Una lettera in cui la sorella del prigioniero invoca addirittura l'eutanasia come unico spiraglio possibile per alleviare le sofferenze del fratello, il quale, nel frattempo dà disposizione ai propri familiari di non portare più alle visite in carcere i suoi nipotini "per abituarli gradualmente all'idea di non vederlo più". Leggiamo il contenuto della lettera:

"Bruno Contrada è oramai divenuto tragicamente un vero e proprio doloroso e disperato caso umano: la sua triste vicenda dimostra come la giustizia in Italia, in certi casi, possa diventare totalmente cieca, accanendosi su uno stanco e vecchio Uomo, gravemente sofferente per l'età e per una serie innumerevole di malattie indiscutibilmente acclarate. Quella dell'eutanasia sembra una richiesta assurda, ma a tutt'oggi si presenta come l'unica strada percorribile affinché Bruno Contrada possa mettere fine alle sue infinite pene, chiudendo con coraggio e con forza d'animo una intera vita vissuta all'insegna della intransigente onestà, della correttezza ed anche di quella Giustizia che oggi gli viene costantemente negata".

Contestualmente, Anna Contrada, insieme all'avvocato Lipera, deposita nella cancelleria del Giudice Tutelare del Tribunale Civile di Santa Maria Capua Vetere l'istanza di eutanasia. Il presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici (FNOM), Amedeo Bianco, definisce sùbito la richiesta "senza fondamento dal punto di vista giuridico perché la legge italiana non prevede l'eutanasia e, per questo, un giudice non può autorizzarla su richiesta". Ma poche ore dopo la diffusione a mezzo stampa della lettera della sorella, Bruno Contrada viene trasferito d'urgenza all'Ospedale Civile "Melorio" di Santa Maria Capua Vetere. La TAC esclude, fortunatamente, la temuta ed originaria ipotesi di ischemia cerebrale: i medici parlano di una violenta crisi di astenia accompagnata da vertigini. Ma il quadro non è affatto consolante. All'uscita dall'ospedale, dove si era recato per sincerarsi di persona delle condizioni del suo assistito, l'avvocato Lipera annuncia l'intenzione di presentare una nuova richiesta di arresti domiciliari per motivi di salute, accompagnata stavolta da un'istanza di ricusazione del giudice Daniela Della Pietra, che ha più volte respinto le precedenti richieste di scarcerazione. La duplice istanza viene presentata il 18 aprile. L'udienza per decidere sulla ricusazione del giudice Della Pietra viene fissata per il 7 maggio davanti alla III Sezione Penale della Corte d'Appello di Napoli. E' l'ottava volta che la difesa di Bruno Contrada invoca dal magistrato di sorveglianza del carcere un provvedimento di umanità nei confronti del detenuto, ormai ben più che sofferente.
Otto giorni dopo, il 26 aprile, Lipera ricorre in Cassazione contro l'ordinanza con cui, il 3 aprile precedente, il Tribunale di Sorveglianza aveva a sua volta respinto l'ennesima domanda di differimento della pena o concessione degli arresti domiciliari per Bruno Contrada. Dal momento che il Tribunale "ciecamente ha continuato a negare l'evidenza dei fatti sottoposti al suo giudizio", il legale di Bruno Contrada chiede alla Suprema Corte "l'annullamento senza rinvio dell'impugnata ordinanza e la conseguente concessione del differimento della pena o la detenzione domiciliare". Nel ricorso, che il penalista chiede venga trattato con "la massima sollecitudine viste le gravissime patologie e l'età avanzata" del suo assistito, viene ricordato come "è proprio il quadro complessivo, che si ricava analizzando le numerose perizie formulate dagli illustri Medici che si sono presi cura di visitare il dottor Contrada, a mostrare come le condizioni di salute dello stesso sono talmente gravi e cronicizzate da risultare incompatibili con il regime carcerario cui è attualmente sottoposto. Peraltro le vicende degli ultimi giorni, che hanno visto il Contrada ennesimamente ricoverato d'urgenza presso l'ospedale civile di Santa Maria Capua Vetere, rafforzano la bontà dell'assunto difensivo. Non si può negare che il Contrada versi in una condizione di gravità dell'infermità fisica, che il suo diritto alla salute sia stato violato e che si sia palesemente lesa la sua integrità fisica e la sua salute". Per questi motivi il penalista ritiene che l'ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Napoli impugnata è affetta da "manifesta illogicità. Il Tribunale di Sorveglianza di Napoli respinge l'istanza di differimento di pena presentata dalla difesa del dottor Contrada con un'ordinanza farcita di relazioni medico legali sulle quali argomenta con eccessiva sicurezza interpretativa, quasi a far supporre una competenza medica che mai ci aspetterebbe di riscontrare in Giudici preparati su ben altre materie".
Il 27 aprile Bruno Contrada, dal suo letto d'ospedale, scrive una lettera al procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso. Vuole un colloquio con l'alto magistrato relativamente all'esposto-denuncia che lo stesso ex-capo della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo aveva presentato il 27 marzo 2007 alla Procura di Caltanissetta onde denunciare i suoi accusatori per calunnia. E' un disperato tentativo di attaccarsi ad un filo di speranza dopo che per quell'esposto, come abbiamo visto, il PM presso il Tribunale di Caltanissetta aveva chiesto al Gip l'archiviazione.
Dopo neppure una settimana, il 13 maggio, il magistrato di sorveglianza del carcere di Santa Maria Capua Vetere, Daniela Della Pietra, respinge anche l'ottava richiesta di scarcerazione. Il giorno precedente, quasi in maniera profetica, Bruno Contrada aveva formalmente revocato al suo avvocato la delega per "qualsivoglia istanza, concernente l'esecuzione della pena, rivolta al magistrato di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere e al Tribunale di Sorveglianza di Napoli. Ciò per la tutela, per quanto ancora possibile" - sottolinea Contrada - "della mia dignità personale, considerato che tutte le numerose e reiterate istanze rivolte a dette Autorità giudiziarie sono state pervicacemente respinte". La stessa sorte che poche ore dopo toccherà anche all'istanza numero otto. "Ciò vuol dire" - tuona l'avvocato Lipera - "che può essere scarcerato solo il detenuto in coma irreversibile o malato assolutamente terminale? Come mai Contrada non può essere scarcerato mentre gli arresti domiciliari per motivi di salute furono concessi a Erich Priebke, a Ovidio Bompressi prima della grazia e a Silvia Baraldini?".

Poco tempo dopo, il successivo passo dell'avvocato Lipera è la richiesta di trasferimento del detenuto Bruno Contrada all'ospedale militare romano del Celio. Ma il giudice Della Pietra continua a non sentire ragioni e respinge anche questa istanza, praticamente la nona, adducendo le seguenti motivazioni: "non si ritiene che ricorrano i presupposti per addivenire a un tale provvedimento: non clinici, atteso che l'istituto penitenziario non ha fatto a questa autorità giudiziaria alcuna richiesta di ricovero (...) e non giuridici, atteso che, non esistendo presso l'ospedale del 'Celio' un centro clinico penitenziario e non ricorrendo le ragioni di cui prima, si darebbe luogo a un ricovero in quel nosocomio sine die, con continuo piantonamento del detenuto da parte dei Carabinieri, il che è escluso dalla natura stessa dell'istituto di cui discute". Il giudice ritiene inoltre che "non è sufficiente che l'infermità fisica menomi in misura rilevante la salute del soggetto in espiazione della pena, ma è necessaria che la stessa, oltre a non potere essere adeguatamente curata in centri clinici carcerari o con l'eventuale trasferimento del detenuto in ambienti sanitari esterni, raggiunga un livello tale da rendere incompatibile il senso di umanità". Il giudice Della Pietra aggiunge che, anche se si comprende come per un anziano la privazione della libertà sia vissuta come una sofferenza aggiuntiva, la cosa, secondo giurisprudenza, può assumere rilevanza soltanto nel caso in cui si configuri di entità tale da superare il limite dell'umana tollerabilità.
Nessun commento.
L'avvocato Lipera, sostenendo l'incompetenza del magistrato di sorveglianza a decidere sul trasferimento del detenuto in un ospedale militare, scrive immediatamente al ministro della Giustizia Angelino Alfano e al ministro della Difesa Ignazio La Russa, chiedendo, in particolare, che sia proprio il dicastero di Via XX Settembre ad ordinare d'autorità il ricovero di Bruno Contrada al Celio. Una lettera di fuoco, della quale riportiamo di seguito alcuni passi:

"La dottoressa Della Pietra scrive nelle motivazioni: 'E’ già stato detto, peraltro, in altri provvedimenti che la fruizione dell’opzione di espiare la pena presso il Carcere Militare riconosciuta agli appartenenti alle Forze dell’Ordine, qual è l’istante, condannati per reati ordinari, non può comportare un’applicazione dell’ordinamento penitenziario 'diversa' in ragione di carenze strutturali – peraltro note a coloro che dell’opzione si giovano – e che, ovviamente, non possono essere ascritte all’Autorità Giudiziaria'.
In altre parole: hai scelto Tu il regime di detenzione militare, per cui adesso non Ti lamentare, stai zitto e soffri!
Devo necessariamente prendere atto che il Magistrato di Sorveglianza di cui sopra si arroga poteri che non gli competono per legge e per regolamento. (...)
Purtroppo, la disponibilità al detto trasferimento, immagino garbatamente espressa dal Ministero della Difesa - in questa tanto triste, quanto singolare situazione - non è stata ritenuta sufficiente dal Magistrato che, evidentemente, non è a conoscenza del fatto che il dottor Contrada non è persona soggetta alla sua esclusiva giurisdizione: la dottoressa Daniela Della Pietra è sì il Magistrato di Sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere, MA NON E’ IL MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA DI BRUNO CONTRADA!
Alla luce di quest’ennesima presa di posizione del detto Magistrato di Sorveglianza, che addirittura rigetta una richiesta sulla quale non ha competenza, sommessamente non posso fare a meno di invitare il Signor Ministro della Difesa ad intervenire direttamente (così come fece l’allora ministro della Difesa, Arnaldo Forlani, che nel 1976, proprio a seguito delle gravi condizioni di salute del generale Herbert Kappler, ne dispose d’iniziativa il trasferimento dal carcere militare di Gaeta all’ospedale del “Celio” di Roma) disponendo d’imperio il trasferimento, dell’ex-Dirigente Generale della Polizia di Stato Bruno Contrada dal Carcere Militare di Santa Maria Capua Vetere all’Ospedale Militare “Celio” di Roma".

L'avvocato Lipera non è l'unico a citare il nome del tristemente famoso Herbert Kappler. Lo fa, aggiungendovi anche il nome di un altro noto criminale nazista, Erich Priebke, anche Amedeo Laboccetta, deputato nazionale del Popolo delle Libertà. "Dal 2 giugno scorso mi sto occupando del caso umanitario del dottor Bruno Contrada, dirigente generale della Polizia di Stato" - dichiara il 20 giugno Laboccetta - "Mi sto occupando, cioè, di un uomo che ha 77 anni, che sta morendo nel Carcere Militare di Santa Maria Capua Vetere perché affetto da 24 gravi patologie, e che, secondo il dirigente sanitario della struttura penitenziaria, è assolutamente incompatibile con la detenzione. Ho chiesto alla Presidenza della Camera dei Deputati un giurì d'onore per essere stato pesantemente offeso in aula ieri dall'onorevole Francesco Barbato, appartenente al gruppo dell'ex-ministro Antonio Di Pietro, con l'accusa di essere amico dei mafiosi e di essermi prodigato per far uscire dal carcere un soggetto condannato per mafia. Del caso Contrada si sono già occupati oltre cento deputati della Repubblica, che hanno firmato un appello per la sua liberazione. Se ne sta occupando il governo Berlusconi attraverso il ministro della Difesa La Russa, che ha concesso il benestare per far curare il detenuto Contrada nell'Ospedale Militare del Celio, e se ne sta occupando il Capo dello Stato Giorgio Napolitano, attraverso il suo Consigliere per gli Affari dell'Amministrazione della Giustizia. Allora, sono tutti mafiosi, o amici dei mafiosi?
Contrada ha già scontato 5 anni di carcere. Non vede la moglie da 13 mesi e 7 giorni e si sta spegnendo lentamente. Al Celio la magistratura italiana ha permesso ad Erich Priebke di potersi curare, così come aveva già fatto in precedenza per Kappler. Ma quel che è stato concesso a due criminali nazisti sembra non debba valere per Bruno Contrada. Io non lo accetto
e, soprattutto, non mi lascio intimidire dall'onorevole Antonio Di Pietro e dai suoi uomini e continuo la mia battaglia umanitaria. Una battaglia che solo coloro che sono in malafede possono considerare in favore della mafia. Quante fortune politiche, e non solo politiche, sono state costruite sul cosiddetto mito dell'antimafia! Se fossimo stati in altri tempi, avrei sfidato a duello l'onorevole Barbato; oggi, non posso far altro che chiedere il giurì d'onore".

L'8 luglio è una mattinata afosa, intrisa di quel caldo umido così tipico del Meridione d'Italia. Il traghetto Messina-Salerno approda in orario al porto di Salerno. Ne sbarco con la mia macchina, diretto a Santa Maria Capua Vetere per andare a trovare Bruno Contrada. L'avevo conosciuto personalmente durante il processo, sùbito dopo la fine della sua carcerazione preventiva, nel 1995. Il traffico e gli insensati limiti di velocità, oltre al ritardo nello sbarco dal traghetto, cagionato dall'impressionante quantità di TIR (ah, la mancanza dei treni...), impediscono a me e a mia moglie, che mi accompagna, di arrivare in tempo per l'orario di visite mattutino. La vista del carcere mi scuote fino al pianto. Un aperitivo e un pranzo veloce e, intorno alle quattordici, eccoci nuovamente intenti a varcare le pesanti soglie del carcere militare. Il Bruno Contrada che mi trovo di fronte, dopo aver superato gli ovvi controlli all'entrata, è totalmente diverso da come lo ricordavo. Non ci vediamo da quasi cinque anni. Non è la sua barba, lunga quanto la mia, a colpirmi: è l'espressione del volto, lo sguardo stanco, l'amarezza con cui mi rivolge le prime parole, ancor prima di salutarmi affettuosamente. "Io non dovrei essere qua" dice, sentendo giustamente addosso tutto il peso di una condanna e di una carcerazione ingiuste. Un'ora di colloquio, durante il quale registro il rispetto e l'affetto con cui il detenuto è trattato dal personale carcerario militare tanto quanto la sofferenza umana e civile di un condannato innocente: mi colpisce però l'energia che, sempre viva, continua ad affiorare da quegli occhi e da quel fisico così duramente provato. Tra un aneddoto e l'altro, un ricordo, persino qualche battuta, e il persistere di una memoria così lucida ed inalterata da non sottacere neppure il più piccolo dettaglio in ogni discorso, ecco riaffiorare più volte quelle parole, lapidarie, tristi, pesanti come il macigno di Sisifo: "Io non dovrei essere qua". Reco in dono a Bruno Contrada mezza forma di caciocavallo e una bottiglia di vino. Volevo portare anche dei biscotti, ma l'acuta forma di diabete di cui il detenuto soffre mi aveva fatto desistere dal proposito. Il vino, poi, devo riportarlo indietro, visto che ai detenuti non è consentito berlo.
Lo stapperò alla salute dell'ex-capo della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo qualche giorno dopo. Il 23 luglio, infatti, mentre mi trovo a Berlino, mi raggiunge la notizia della concessione degli arresti domiciliari a Bruno Contrada.
Decisiva, a tal fine, la perizia medica della dottoressa Agnese Pozzi
, che ha deciso di offrire la sua consulenza spontaneamente e, soprattutto, in maniera assolutamente gratuita. Una donna che ha avuto il coraggio, oggi purtroppo non comune, di sfidare ogni pregiudizio dell'opinione pubblica, della sua stessa categoria e di istituzioni apparentemente avverse, partendo dalla fedeltà al giuramento di Ippocrate per seguire la difficile strada verso la verità. Un medico che è entrato come un faro acceso nel tunnel in cui è stato imprigionato Bruno Contrada, per il quale lei è diventata immediatamente "Agnesina".
Le porte del carcere, dunque, si riaprono per lasciar uscire il detenuto Contrada. Per lui, sei mesi da trascorrere non a Palermo, con la moglie e i figli che non vede da lunghi mesi, ma a casa della sorella Anna a Varcaturo, a pochi chilometri da Santa Maria Capua Vetere. La notizia è di quelle che ti riassestano l'umore, se non fosse per un particolare: nel concedere al detenuto di poter finalmente dormire di nuovo in un letto amico, il Tribunale di Sorveglianza di Napoli lo bolla come soggetto "socialmente pericoloso", motivando così il divieto per lui di ottenere gli arresti domiciliari nella sua casa palermitana. Meglio di niente: Roma non è stata costruita in un giorno. Che poi un uomo di settantasette anni, con ventiquattro patologie accertate, provato da sedici anni di calvario giudiziario, dei quali tre e mezzo complessivamente trascorsi nelle patrie galere (con tutte le conseguenze psicofisiche del caso), possa essere giudicato pericoloso, beh, questa, come diceva qualcuno, è davvero un'altra storia.
Incredibile.

Ma la soft parade dell'assurdo non finisce qua. L'1 ottobre i giudici consentono a Contrada, che, come abbiamo visto, si trova dal mese di luglio nella casa napoletana della sorella Anna, di scontare gli arresti domiciliari a Palermo. Sembra un ulteriore passo avanti, ma lasciamo che a spiegare quanto accade sùbito dopo siano le parole della dottoressa Agnese Pozzi, che verga quanto segue in una lettera indirizzata all'avvocato Lipera e ai colleghi dello studio legale di quest'ultimo:

Carissimi avvocati,
Vi comunico il mio parere, dal punto di vista medico e senza mezzi termini, su quanto messo in atto ai danni di Bruno Contrada, soggetto quasi ottantenne, affetto da cardiopatia ipertensiva, ipertensione sistemica, vasculopatia cerebrale con postumi di
ictus, diabete, denutrizione grave, depressione grave reattiva (per citare solo alcune delle numerose patologie), il quale, senza preavviso alcuno, è stato svegliato all'alba dalle Forze dell'Ordine per essere tradotto, nel termine di poco più di un'ora, a Palermo con volo aereo. A parte il fatto che nessuno si è preoccupato di chiedere un parere medico sull'opportunità di traduzione in volo per un simile malato, cosa altrettanto grave dal pnto di vista del diritto alla salute (e alla vita), trovo certe modalità d'intervento nei suoi confronti inqualificabili. Un simile detenuto, gravemente malato ed anziano (ben lungi dall'essere un terrorista ergastolano in buona salute, premiato con la libertà condizionata come ultimamente Francesca Mambro ed altri delinquenti prima di lei) continua ad essere oggetto di veri attentati alla sua vita, come in questo recentissimo episodio. In seguito al quale si è reso necessario l'intervento del medico di base e del 118, a causa del malore inevitabilmente e prevedibilmente sopraggiunto in conseguenza del blitz. Tengo a ricordare alle Ill.me SS.VV. che il generale Bruno Contrada (ex-servitore dello Stato sempre professatosi innocente, al contrario di ex-terroristi incalliti, non pentiti e rei confessi, ergastolani, giovani ed in ottima salute) è in attesa di un delicato intervento chirurgico con correlata biopsia per un fondato sospetto di patologia degenerativa tumorale. Per la qual cosa stava facendo la relativa preparazione terapeutica farmacologica presso il vicino Ospedale di Giugliano: dal momento che il 25 settembre scorso, proprio a causa del rischio operatorio emorragico, si dovette interrompere l'esame e rimandarlo a tempi successivi.
Questo cittadino italiano sta subendo torture nel corpo e nello spirito da parte di uno Stato che, ben lungi dall'essere uno Stato di Diritto, si sta comportando in modo distorto e che, invece di garantirne la salute e la dignità, ha deciso di ucciderlo. Dal punto di vista medico questo potrà essere l'effetto sulla già minata salute di Bruno Contrada. Vi esprimo tutto il mio sgomento e la mia indignazione, quale medico e cittadina di questa Repubblica.

Lagonegro (PZ), 7 ottobre 2008

Distinti saluti
Dr.ssa Agnesina Pozzi

E questo è quanto. Nessuno si perita di chiedere ad un medico se Bruno Contrada, nelle sue condizioni di salute, possa o meno affrontare un volo in aereo. Nessuno si preoccupa del fatto che l'ex-poliziotto sia in procinto di subire un imminente e delicato intervento chirurgico per il quale sta seguendo l'opportuno trattamento di preparazione. Non solo, ma il quasi ottuagenario detenuto, senza alcun preavviso, viene addirittura svegliato di soprassalto all'alba. Già per una persona giovane e in buona salute non sarebbe piacevole vedersi spuntare dal nulla delle divise che, a quell'orario, non per colpa loro, non promettono nulla di buono; figurarsi per un anziano provato da sedici anni di calvario giudiziario e da patologie indiscutibilmente gravi che comportano un serio pericolo di vita. Il malore che, come conseguenza dell'improvviso arrivo delle forze dell'ordine, coglie Contrada (e che persino uno studente del primo anno di qualunque Facoltà di Medicina avrebbe potuto preconizzare, se solo fosse stato interpellato...) appare dunque come frutto inevitabile di una trascuratezza che sembra essere, purtroppo, la cifra normale ed ordinaria del modus operandi dello Stato italico in pressocchè ogni sua manifestazione.
A peggiorare una situazione che a luglio sembrava stesse prendendo una piega migliore, un'altra tegola si abbatte sul capo di Bruno Contrada. Il 7 ottobre la V sezione penale della Corte di Cassazione conferma il verdetto col quale, nel febbraio precedente, la Corte d'Appello di Caltanissetta aveva negato allo stesso Contrada la revisione del processo.




2. Voci inique


A prescindere da quello che sarà l'esito della tragedia umana e civile di Bruno Contrada, resta un dato di fatto sconcertante. Quello stesso, improbabile, Stato italiano che ha condannato un suo integerrimo servitore vittima di calunnie mai realmente provate, non ha esitato a concedere la grazia, se non proprio nella forma almeno nella sostanza, persino ad ex-terroristi, molti dei quali precedentemente condannati per omicidio. Omicidio, soppressione violenta di vite umane, il reato peggiore, non certo quello strano ibrido giuridico e concettuale che è il "concorso esterno in associazione mafiosa", l'astratto e cervellotico capo d'accusa che è sceso sul capo di Bruno Contrada come una mortale spada di Damocle. Capo d'accusa che, non ci stancheremo mai di ripeterlo, non è stato assolutamente provato in nessuna fase del lunghissimo, estenuante iter processuale che Contrada ha percorso con sofferenza ma sempre con grandissima dignità e con forza d'animo inusitata. La dignità e la forza di chi sa di essere innocente. Ma andiamo a vedere cosa è accaduto agli ex-terroristi di cui sopra, traendo spunto dal resoconto di Gianmarco Chiocci e Stefano Zurlo, pubblicato nel 2004 su Il Giornale.

1.
Roberto Adamoli, esponente delle Brigate Rosse, lavora oggi nella comunità di don Mazzi.

2.
Corrado Alunni, 58 anni, uno dei fondatori delle Brigate Rosse, che poi lascerà per dare vita alle Formazioni Comuniste Combattenti. Arrestato nel 1978, tenta la fuga da San Vittore insieme a Renato Vallanzasca nel 1980. Nel 2003 scrive con altri autori un libro dal titolo La rapina in banca: storia, teoria, pratica. Da anni è uscito dal carcere e lavora in una cooperativa informatica.

3.
Vittorio Antonini, già responsabile della colonna romana delle Brigate Rosse, coinvolto nel sequestro del generale statunitense James Lee Dozier, e successivamente arrestato nel 1985, è in semilibertà dal 2000.

4.
Vittorio Assieri, capo della colonna "Walter Alasia" di Milano, lavora alla Bottega Creativa della Caritas.

5.
Lauro Azzolini, 62 anni, membro dell'esecutivo delle Brigate Rosse nel "processo" contro Aldo Moro durante la prigionia di quest'ultimo, nonchè l'uomo che sparò a Indro Montanelli, con tre ergastoli sul groppone, è libero. Da semilibero aveva iniziato a lavorare in una cooperativa che si occupa di no-profit nel settore disabili, per conto della Compagnia delle Opere.

6.
Barbara Balzerani, uno dei vertici delle prime Brigate Rosse, autrice del libro Compagna Luna, edito da Feltrinelli, ha lavorato con la cooperativa Blow Up di Trastevere, specializzata nell'informatica musicale. Arrestata nel 1985, dopo aver partecipato ai delitti più efferati (il rapimento di Aldo Moro, l'omicidio dello stesso Moro e degli uomini della sua scorta, ed il sequestro del generale James Lee Dozier), accumula ben 4 ergastoli. Ottiene i primi permessi agli inizi degli anni Novanta. Ora è libera, con la condizionale di 5 anni.

7.
Marco Barbone, assassino del giornalista Walter Tobagi, si è pentito ed è tornato libero. Lavora in una tipografia a Milano.

8.
Cecco Bellosi, ex-componente della colonna "Walter Alasia" di Milano, in manette nel 1980, condannato a 12 anni, è libero dal 1989. Presiede un centro di recupero di tossicodipendenti a Nesso e collabora con l'associazione Lila.

9.
Paola Besuschio, che era tra i terroristi di cui le Brigate Rosse volevano la liberazione in cambio del rilascio di Aldo Moro, lavora oggi in una cooperativa statistica.

10.
Maurice Bignami, ex-comandante di Prima Linea, una lunga serie di delitti alle spalle, venne arrestato a Torino nel 1981 mentre cercava di assaltare un'oreficeria con un mitra che fortunatamente non ebbe il tempo di usare, e fu condannato a due ergastoli. In semilibertà dal 1992, ha preso servizio presso la Caritas di Roma, insieme alla moglie Maria Teresa Conti, anche lei ex-militante di Prima Linea.

11.
Vittorio Bolognese, colonnello delle Brigate Rosse, è in semilibertà dal settembre 2000. Ha lavorato come operatore informatico presso la cooperativa romana Parsec, dove ha trovato Remo Pancelli, Raffaele Piccinino e altri ex-irriducibili.

12.
Franco Bonisoli, brigatista del commando di via Fani, ergastolano, è libero dopo 13 anni di carcere. Dopo aver lavorato come grafico in una cooperativa di Sesto San Giovanni, lavora adesso in una società di servizi ambientali.

13.
Anna Laura Braghetti, ex-compagna di Prospero Gallinari, è coinvolta nell'omicidio del giudice Vittorio Bachelet ed è stata la carceriera di Aldo Moro in via Montalcini, nota come "signora Altobelli": è stata condannata al carcere a vita. Dopo aver scritto alcuni libri, dal 1994 lavora tutti i giorni all'organizzazione di volontariato Ora d'Aria, vicina agli ex-Ds, che si interessa dei problemi dei detenuti. Nel 2002 ha ottenuto la condizionale.

14.
Roberto Carcano, esponente delle Formazioni Comuniste Combattenti, lavora presso la Comunità Nuova di don Gino Riboldi.

15.
Paolo Cassetta, esponente tra i più duri del partito armato, una raffica di condanne alle spalle, è semilibero da un bel pezzo. Lavora stabilmente alla cooperativa 32 dicembre, collegata al Centro Polivalente circoscrizionale intorno a cui gravitano vecchie conoscenze degli anni di piombo, come Bruno Seghetti e Cecilia Massara.

16.
Geraldina Colotti, militante dell'Unione Comunisti Combattenti, ex-insegnante di filosofia, ferita in un conflitto a fuoco nel gennaio del 1987, è in semilibertà dal 1999. Ha lavorato alla cooperativa romana 32 dicembre e oggi è impiegata al quotidiano Il Manifesto.

17.
Maria Teresa Conti, ex-militante di Prima Linea, ha fatto parte delle "squadre armate proletarie". Fra le sue gesta, il sequestro e il ferimento dell'ostetrica Domenica Nigra, gambizzata sulla base di accuse inventate. Come il marito ex-terrorista Maurice Bignami, lavora presso la Caritas di Roma.

18.
Anna Cotone, ex-brigatista del feroce Partito Guerriglia, coinvolta nel sequestro dell'ex -assessore regionale campano della DC Ciro Cirillo, arrestata nel 1982, è in semilibertà da anni e dal 2002 lavora nella segreteria politica dell'europarlamentare di Rifondazione Comunista Luisa Morgantini.

19.
Renato Curcio, fondatore e ideologo delle Brigate Rosse, gira l'Italia facendo conferenze in scuole, università e Consigli Comunali e presenta i suoi libri ai festival dei partiti. In TV, sulla berlusconiana Canale 5, è arrivato a dire che le vere vittime degli anni '70 sono i suoi compagni di lotta morti sul campo. Da dieci anni è a capo della cooperativa editoriale Sensibili alle foglie, che si occupa di studi sulla lotta armata e dei problemi relativi al carcere e alla droga, tema , quest'ultimo, cavalcato da don Gallo, il parroco antagonista di Genova, che ha presentato il libro edito da Curcio insieme a Dario Fo. Condannato a 30 anni, ne ha scontati 24 ed è semilibero dal 1993.

20.
Roberto Del Bello, ex-brigatista della colonna veneta, condannato a 4 anni e 7 mesi per banda armata, oggi lavora al Viminale come segretario particolare di Francesco Bonato (Rifondazione Comunista), sottosegretario agli Interni.

21.
Sergio D'Elia, dirigente di Prima Linea, sconta 12 anni di carcere. Liberato e ottenuta la riabilitazione, entra nel Partito Radicale. Nel 2006 viene eletto alla Camera nella lista della Rosa nel Pugno e, fra polemiche e proteste, diventa segretario d'aula di Montecitorio.

22.
Alessandra De Luca, brigatista coinvolta nel "processo" celebrato dalle BR contro Aldo Moro durante la sua prigionia, è in semilibertà da tempo. È stata candidata da Rifondazione Comunista alle regionali del Lazio, ma non ce l'ha fatta.

23.
Adriana Faranda, già membro di Potere Operaio, fondatrice nel 1973 del LAP (Lotta Armata Potere Proletario) insieme a Valerio Morucci, Bruno Seghetti e Germano Maccari, membro della direzione strategica delle Brigate Rosse ed ex-postina (insieme a Valerio Morucci) del commando brigatista che teneva Aldo Moro segregato in via Montalcini, è l'unica, insieme a Morucci, ad opporsi alla condanna a morte di Moro, cosa che la porterà fuori dalle BR per confluire nei gruppi facenti capo alle riviste Metropoli e Pre-print e cominciare così a collaborare con Franco Piperno, Oreste Scalzone e Lanfranco Pace. Arrestata il 29 maggio 1979 insieme a Morucci nella casa romana di Giuliana Conforto (figlia di quel Giorgio Conforto che il dossier Mitrokhin rivelerà come uno dei più importanti agenti del KGB in Europa, capo rete dei servizi strategici del Patto di Varsavia), la Faranda aderisce presto alla "dissociazione". Nel 1984, in un'intervista al Corriere della Sera, dichiara, insieme a Morucci, che "la lotta armata è fallita". Viene rilasciata nel 1990 e affidata all'Opera di don Calabria, dove lavora al computer. Scrive libri e si occupa di fotografia. Finisce anche al Costanzo Show.

24.
Enzo Fontana, militante del GAP dell'editore Giangiacomo Feltrinelli, oggi scrittore di successo e studioso di Dante Alighieri, ha lavorato alla Bottega Creativa della Caritas.

25.
Diego Fornasieri, guerrigliero di Prima Linea, incassa una condanna a 30 anni nel 1983, dopo 3 anni di latitanza. Ora è libero e, insieme ad altri ex-detenuti, è attivo nel settore no-profit attraverso la cooperativa sociale di prodotti biologici Arete.

26.
Alberto Franceschini, fondatore con Renato Curcio delle Brigate Rosse, si dissocia nel 1983. Condannato a più di 50 anni di galera, esce dal penitenziario dopo soli 17 anni di reclusione. Oggi lavora a Roma con Anna Laura Braghetti presso la già citata organizzazione di volontariato Ora d'Aria, vicina agli ex-Ds, che si interessa dei problemi dei detenuti. Scrive libri e partecipa a conferenze.

27.
Prospero Gallinari, membro del commando che sparò alla scorta di Aldo Moro in via Fani, responsabile della "prigione del popolo" e, in quanto tale, tra i carcerieri dello stesso Moro, ed infine autore, insieme a Bruno Seghetti, del tentativo di omicidio di Gino Giugni, è libero da tanti anni per problemi di cuore.

28.
Claudia Gioia, ex-primula rossa dell'Unione Comunisti Combattenti, subisce una condanna a 28 anni di prigione per l'omicido del generale Licio Giorgieri e per il ferimento dell'economista Antonio Da Empoli, capo del dipartimento economico della Presidenza del Consiglio dei Ministri. È in libertà condizionale dal gennaio 2005. Nel 1991 viene intercettata mentre, in cella, parla col brigatista Fabrizio Melorio di un tentativo di ricostituzione dell'Unione Comunisti Combattenti.

29.
Eugenio Pio Ghignoni, brigatista coinvolto nel delitto Moro ed in seguito condannato, è il responsabile della Direzione Affari Generali dell'Università Roma Tre.

30.
Maurizio Jannelli, già capocolonna romano delle Brigate Rosse, già condannato all'ergastolo per vari crimini (tra cui la strage di via Fani), ha lavorato alla RAI come autore a partire dal 1999. Per il Tg3 ha seguito "Il mestiere di vivere", "Diario Italiano" e "Residence Bastogi", e fa parte dello staff della trasmissione sportiva "Sfide". Ha scritto Princesa, un libro su un transessuale suicida. Dal 2003 è in libertà condizionale.

31.
Paolo Klun, esponente di Prima Linea, ha fondato a Bologna il giornale di strada Piazza Grande, che dà voce agli emarginati e a coloro che sono senza fissa dimora.

32.
Natalia Ligas, nome di battaglia "Angela", la dura delle Brigate Rosse-Partito Guerriglia che partecipò al massacro di piazza Nicosia a Roma, ergastolana, ha cominciato a ricevere permessi premio a partire dal 1998 e dal 2000 è semi-libera, nonostante non si sia mai dissociata dalla lotta armata.

33.
Maurizio Locusta partecipa all'omicidio del generale Licio Giorgieri e viene condannato a 24 anni di pena. Dopo essere stato estradato dalla Francia nel marzo 1988, sconta solo qualche anno, quindi esce e viene assunto alla Fondazione Lelio Basso-Issoco come "assistente di sala consultazione".

34.
Francesco Maietta, ex-militante dell'Unione Comunisti Combattenti, dopo aver subìto condanne pesantissime, lavora part-time in un importante ente dal 1990. Si è sposato nel 1998 a Ostia con una ragazza della Caritas.

35.
Nadia Mantovani, dissociata, condannata a 20 anni per appartenenza alle Brigate Rosse, ottiene la condizionale nel gennaio 1993 dopo aver scontato due terzi della pena. Ex-fidanzata di Renato Curcio, è tra le fondatrici dell'associazione per il reinserimento dei detenuti Verso Casa. Il 23 agosto 2004 la sua performance sugli anni di piombo al meeting di Rimini ha riscosso molto successo tra il pubblico di Comunione e Liberazione.

36.
Corrado Marcetti, ex-militante di Prima Linea, oggi è direttore della Fondazione Michelucci a Fiesole.

37.
Cecilia Massara, ex-appartenente alle Brigate Rosse, nel 1994 ottiene la sospensione temporanea della pena per via del suo stato di gravidanza. Lavora stabilmente alla cooperativa 32 dicembre, collegata al Centro Polivalente circoscrizionale.

38.
Giuseppe Memeo, esponente di Autonomia Operaia, condannato per l’omicidio del vicebrigadiere della Celere Antonio Custrà, oggi lavora a Poiesis, un centro per la cura dell’AIDS.

39.
Mario Moretti, il numero uno delle Brigate Rosse, leader della direzione strategica e uno dei partecipanti al sequestro Moro, viene condannato a 6 ergastoli. Dopo 17 anni di carcere, nel 1994 ottiene il permesso di andare alla Scala. Una volta fuori, si occupa di volontariato. Esperto di informatica, partecipa alla fondazione della cooperativa Spes, composta da ex-irriducibili dissociati. La cooperativa ottiene vari contributi, anche dalla Regione Lombardia, e insieme all'associazione Geometrie variabili cerca "forme di lavoro non alienanti per i detenuti". Moretti è anche autore di libri.

40.
Valerio Morucci, l'ex-postino delle Brigate Rosse (insieme ad Adriana Faranda) durante i 55 giorni della prigionia di Aldo Moro, scontati 17 anni di prigione, si dissocia e viene messo in libertà. Autore di libri di successo, alcuni anche vincitori di premi letterari, lavora come consulente informatico.

41.
Roberto Ognibene, ex-brigatista in seguito dissociato, gode dei benefici della legge sui dissociati e lavora come impiegato al Comune di Bologna.

42.
Remo Pancelli, killer dell'ala militarista delle BR denominata "Colonna 28 marzo", l'ex- dipendente delle Poste del sequestro D'Urso, viene bloccato dai Carabinieri il 7 giugno del 1982. Dopo aver riportato diverse condanne, viene inserito in una cooperativa sociale che ha ospitato altri ex-terroristi rossi.

43.
Ave Maria Petricola, nome ricorrente durante il processo Moro, ex-brigatista pentita, viene assunta dalla Provincia di Roma come responsabile del centro di Torre Angela, VII Municipio della Capitale, che si occupa di cercare un lavoro per i disoccupati. Amnistiata nel 1987, nel 2004 la ritroviamo nella lista degli assistenti sociali regionali.

44.
Raffaele Piccinino, ex-irriducibile dei NAP (Nuclei Armati Proletari), autore dell'attentato al questore Noce dove morì un poliziotto della scorta, condannato all'ergastolo e a 22 anni di carcere, ha lavorato come operatore informatico alla cooperativa romana Parsec.

45.
Francesco Piccioni, ex-brigatista, è impiegato al quotidiano Il Manifesto.

46.
Marco Pinna, soldato della colonna sarda delle Brigate Rosse, è vicepresidente della cooperativa ambientale Ecotopia.

47.
Susanna Ronconi, storica figura del troncone toscano di Prima Linea, lavora al Gruppo Abele di Torino, dove ha la responsabilità delle cosiddette "Unità di strada". Nel 1987 guadagna il primo permesso-premio per la sua dissociazione. È stata consulente di Asl e Comuni del nord Italia, collabora alla pubblicazione del «Rapporto sui diritti globali» a cura dell'associazione Informazione & Società per la CGIL Nazionale.

48.
Bruno Seghetti, fondatore nel 1973 del LAP (Lotta Armata Potere Proletario) insieme a Valerio Morucci, Adriana Faranda e Germano Maccari, entra nelle Brigate Rosse col nome di battaglia di "Claudio", fa parte del gruppo di fuoco che il 16 marzo 1978 sequestra Aldo Moro, partecipa attivamente a gran parte delle azioni della colonna romana quindi, passato alla colonna napoletana, partecipa all’attentato in cui, il 19 maggio 1980, rimane ucciso l’assessore al Bilancio della Regione Campania, il democristiano Pino Amato. Arrestato sùbito dopo quest'attentato, viene condannato all’ergastolo e viene ammesso al lavoro esterno nell’aprile del 1995, dopo solo quindici anni di detenzione. Nel 1999, in seguito ad alcune infrazioni, questo beneficio gli viene revocato e Seghetti rientra in carcere. Oggi lavora stabilmente alla cooperativa 32 dicembre.

49.
Sergio Segio, comandante militare di Prima Linea e ideologo della dissociazione, oggi lavora nel Gruppo Abele di don Luigi Ciotti.

50.
Giorgio Semeria, membro del nucleo storico delle Brigate Rosse, è stato a lungo volontario presso il carcere di San Vittore a Milano.

51.
Giovanni Senzani, il "criminologo" delle Brigate Rosse-Partito Guerriglia, irriducibile fino all'ultimo, già sospettato di essere il "Grande Vecchio" del sequestro Moro, ergastolano per l'omicidio del fratello del pentito Patrizio Peci, esce in semilibertà nel 1999 e un anno dopo è dietro la scrivania di un centro di documentazione della Regione Toscana denominato "Cultura della legalità democratica" e viene inserito nel progetto Informa carcere. È coordinatore della casa editrice di sinistra Edizioni Battaglia.

52.
Marco Solimeno, ex-militante di Prima Linea, è stato consigliere dei Ds al Comune di Livorno. Da circa dieci anni è assistente volontario al carcere di Livorno come responsabile ARCI.

53.
Nicola Solimano, ex-militante di Prima Linea, condannato a 22 anni, lavora alla Fondazione Michelucci di Fiesole. È stato consulente della Regione Toscana per la nuova legge a tutela dei popoli Rom e Sinti e fra i coordinatori di un campus internazionale nell'àmbito dell'iniziativa regionale Porto Franco, per conto dell'Assessorato alla Cultura della Regione Toscana.

54.
Ettorina Zaccheo, esponente delle Formazioni Comuniste Combattenti, lavora presso la Comunità Nuova di don Gino Riboldi.

Un lungo elenco. Nulla da dire sul recupero dei detenuti, principio cui si ispira la nostra legislazione penale e che, personalmente, mi trova d'accordo. Il problema è che, se è stato possibile concedere semilibertà ed altri benefìci a gente che si era macchiata di omicidio, a maggior ragione sarebbe possibile un atto di umanità nei confronti di chi non si è macchiato di omicidio. Anzi, aggiungerei io, non si è macchiato proprio di nulla.




3. Voci sinistre


Oltre alla ridda di voci contrapposte e alla constatazione dell'esistenza di due pesi e due misure (fenomeno ben conosciuto nella triste realtà italiana), vi sono altri aspetti che definire inquietanti appare come conseguenza logica dei fatti. Ne parla lo stesso avvocato Lipera nel corso della conferenza stampa cui abbiamo fatto riferimento ad inizio capitolo, conferenza che egli convoca, come abbiamo detto, il 2 gennaio 2008 proprio per confermare di non aver chiesto la "grazia" per Contrada al presidente della Repubblica (poichè la domanda di grazia si inoltra direttamente al procuratore generale presso la Corte d'Appello che ha emesso la sentenza di merito), ma di aver rivolto al capo dello Stato una implorazione o supplica che dir si voglia.
In questo incontro con i giornalisti, Lipera ricorda e sottolinea l'intervento di personaggi autorevoli a favore di Contrada e della istanza di supplica o implorazione. Parla di Francesco Cossiga, l'ex-presidente della Repubblica intervenuto a ribadire la sua stima e la sua amicizia nei confronti dell'ex-capo della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo ("e non credo che sia l'ultimo degli italiani", chiosa l'avvocato). Parla dei deputati Chiara Moroni (Forza Italia, figlia del parlamentare socialista Sergio Moroni, coinvolto in Tangentopoli e suicidatosi per le accuse ricevute), Francesco Storace (La Destra) e Peppino Caldarola (Partito Democratico) e dell'ex-senatore Emanuele Macaluso, tutti schieratisi a favore di Contrada. Ma parla anche di altre voci, contrarie, stizzite, avvelenate. "In Italia" - dice Lipera - "anche la giustizia è di destra o di sinistra. Anche la sanità è di destra o di sinistra, quindi anche noi dobbiamo stare a questo gioco".
Analizziamo il tutto in dettaglio.


3a. L'intervento di Rita e Salvatore Borsellino


"Dopo che il 24 dicembre il Quirinale, tramite il proprio ufficio stampa, aveva diramato la notizia che la nostra supplica era stata accolta dal presidente Napolitano, che aveva già messo in moto tutte le procedure necessarie" - spiega l'avvocato Lipera nella sopracitata conferenza stampa del 2 gennaio 2008 - "è successo un putiferio. Molti si sono ribellati, comunque tutte persone non legittimate. Una cosa che mi colpì fu una frase che lessi su un giornale, non ricordo quale. Rita Borsellino dichiara sùbito di voler parlare con il presidente Napolitano in qualità di parlamentare della Regione Siciliana e di cittadina italiana. In seguito lessi che la Borsellino aveva detto 'ora ho parlato col presidente della Repubblica e sono tranquilla'. Punto. Linguaggio criptico. Perchè la Borsellino sia tranquilla non si sa".
Qualche giorno dopo, la notizia che il presidente della Repubblica Napolitano ha bloccato l'iter per la concessione della grazia a Bruno Contrada fa esclamare all'avvocato Lipera: "Adesso capisco perchè Rita Borsellino si è detta tranquilla dopo avere parlato con il capo dello Stato. Io insisto comunque nel volere incontrare Giorgio Napolitano".
"A proposito degli eroi di secondo grado" - prosegue l'avvocato - "sui giornali passa sempre la Borsellino, non so come mai non passa la voce della vedova del vicequestore Boris Giuliano, di Rita Bartoli Costa e Michele Costa, ossia la vedova e del figlio di un altro eroe assassinato a Palermo, il procuratore della Repubblica Gaetano Costa, i quali la pensano in maniera diametralmente opposta alla Borsellino e ai parenti delle vittime della strage di Via de' Georgofili. Insomma, io ho l'impressione che si voglia sempre far rivivere un qualcosa. La signora Borsellino si mette al telefono e dice, in parole povere, al capo dello Stato 'non ti permettere di accogliere la domanda di grazia per Bruno Contrada' e questi 'poveri imbecilli', che siamo noi, non devono dire niente. (...) Da questa parte non si può dire una parola, dall'altra parte, invece, succede l'inferno".
Già in precedenza, e precisamente in una nota del 25 dicembre 2007, l'avvocato Lipera aveva stigmatizzato l'intervento di Rita Borsellino e quello, di ugual segno e del medesimo tono, dei familiari delle vittime della strage di Via de' Georgofili, a Firenze. "Ognuno è libero di esprimere le proprie opinioni, ma non di diffamare chi peraltro non può difendersi in questo momento" - aveva scritto Lipera - "L'intervento della signora Rita Borsellino e dei familiari delle vittime di Via de' Georgofili, teso ad interferire nelle decisioni delle massime cariche istituzionali, è completamente fuori luogo e ci sorprende. (...) Tentare di tirare per la giacca la massima carica dello Stato, utilizzando e strumentalizzando i nomi di Giovanni e Paolo ne guasta la memoria, che ci è cara pur senza esserne consanguinei". Giovanni e Paolo. Vale a dire Falcone e Borsellino. Quante volte sono stati evocati questi nomi, intendo proprio i nomi di battesimo di questi due eroi riconosciuti della lotta alla mafia. Rita Borsellino, al contrario di altri che non esitarono ad attaccare i due giudici quando erano vivi, ha ragione di usare direttamente il nome "Paolo": ne era la sorella. Ma il rispetto del suo dolore, che è anche il dolore di ogni cittadino onesto per la morte di due servitori dello Stato, non implica anche il fatto di legittimare qualunque sua affermazione. La sorella del giudice Borsellino non ha seguito una sola udienza del processo di primo grado a carico di Bruno Contrada: sa soltanto che quest'ultimo è stato condannato. Non ha preso in considerazione neppure per un attimo, come tutti coloro che si sono scagliati contro Contrada in questi anni, l'eventualità di un errore giudiziario. Lo sottolinea anche Lino Jannuzzi: “La signora Rita Borsellino evidentemente non sa di che cosa parla e probabilmente è essa stessa vittima degli intrighi di Palazzo che hanno tentato di attribuire a Bruno Contrada persino dirette responsabilità nella strage di via D’Amelio, dove perse la vita suo fratello Paolo assieme agli agenti della scorta” - replica Jannuzzi - “Bruno Contrada è stato ingiustamente condannato dopo processi durati quindici anni e solo sulla base delle calunnie di falsi 'pentiti', mafiosi assassini che lui ha combattuto per quarant’anni servendo lo Stato con la stessa dedizione e con la stessa lealtà di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. La grazia servirà a salvargli la vita, la revisione del processo gli ridarà l’onore”.
Parole che condividiamo pienamente.

Ma non è soltanto Rita Borsellino ad agitare la levata di scudi. Anche l'altro fratello del giudice ucciso in Via D'Amelio, Salvatore, dice la sua. Il 28 dicembre, su un blog chiamato Benny Calasanzio Borsellino - Il Blog della legalità, scrive, a proposito di Contrada: "Personaggio sul quale pesano peraltro gravissimi sospetti, oggetto di indagini purtroppo ancora in corso dopo ben quindici anni, in merito alle telefonate intercorse, 80 secondi dopo la strage, tra il castello Utveggio, dal quale è probabilmente stato azionato il telecomando per l'esplosione dell'autobomba, tra una utenza clonata intestata a Paolo Borsellino e l'utenza dello stesso Contrada". Una vicenda che in àmbito processuale, in realtà, è stata chiarita. Vari testimoni, tra i quali due ufficiali dei Carabinieri, hanno confermato che, in quei tragici istanti di quel maledetto 19 lugliio 1992, Bruno Contrada si trovava con loro in barca in mare aperto. E le calunnie successive, tese a coinvolgere Contrada anche in questa altra pagina nera della storia d'Italia, hanno sortito delle querele. Ma questo molta gente non lo sa. Preferisce credere a delle versioni che conferiscano delle sicurezze, per quanto tali sicurezze possano rivelare dei piedi d'argilla. E' meglio, per molti, basarsi su una distinzione manichea: le forze del Bene hanno catturato il cattivone. Che poi costui possa essere stato incastrato senza prove certe, poco importa.

E' strano, o forse no, come si verifichi sempre quel famoso adagio popolare secondo il quale "ad albero caduto accetta, accetta!". Se l'albero rappresentato dal dottor Bruno Contrada della Polizia di Palermo (una quercia, invero, o meglio una sequoia gigantesca degna di Yosemiti Park) non fosse caduto sotto gli spietati colpi d'ascia di una manovra inquisitoria degna di un Villefort dei nostri giorni, sicuramente il suo nome sarebbe ancora circondato da quella giusta aura di rispetto e di riconoscenza dovuta a chi ha trascorso la sua vita al servizio dello Stato e dei cittadini. Tutti gli onesti e gli optimates, e non solo coloro che lo hanno apertamente difeso in sede processuale, avrebbero fatto a gara nel rammentare e sottolineare la loro amicizia e i loro rapporti con lui, proprio come tanti, nonostante li avessero criticati o attaccati in vita, hanno ricordato le parole che "Giovanni" e "Paolo" dicevano loro, riferendosi, ovviamente, a Falcone e Borsellino, e dimenticando d'un tratto le accuse, i veleni, le critiche che avevano contraddistinto, ad esempio, il momento in cui Falcone, scoraggiato ed amareggiato dopo la sua mancata nomina a consigliere istruttore del Tribunale di Palermo, aveva deciso di accettare la proposta del ministro di Grazia e Giustizia, il socialista Claudio Martelli, ed era diventato direttore degli Affari Penali presso quel Ministero. Invece, dopo la caduta, Contrada è stato dimenticato da molti. Anche da chi non ha avuto rapporti diretti con lui, ma sente la strana urgenza di chiosare su questo ed altro. Anche in relazione a terzi. “Nostro fratello non ha mai avuto rapporti di amicizia con Bruno Contrada”. Così si esprimono, in una nota dell'1 gennaio 2008, Rita e Salvatore Borsellino, fratelli del giudice assassinato da Cosa Nostra. Cosa possano saperne loro dei rapporti di amicizia del fratello resta una domanda importante. Ma il punto non è quanto Paolo Borsellino abbia avuto occasione di condividere pranzi o cene o viaggi con Bruno Contrada: il fatto incontrovertibile, inequivocabile ed irrefutabile è che ha lavorato di comune accordo con Contrada, come dimostrano non semplici parole ma quei fatti, certi, inconfutabili, che sono sotto gli occhi di tutti, come l'accoglimento da parte del giudice istruttore Borsellino del rapporto giudiziario del 7 febbraio 1981 con cui Bruno Contrada, al termine di un lungo e complesso lavoro investigativo e con l'incombenza di una chiara minaccia di morte subìta da parte dei "corleonesi" vincenti (minaccia che egli affrontò senza alcuna scorta o altro tipo di tutela), inchiodava responsabili e mandanti dell'omicidio del vicequestore Boris Giuliano, capo della Squadra Mobile di Palermo. Un rapporto, tra l'altro, che Contrada, non essendo più alla polizia giudiziaria ma alla Criminalpol della Sicilia Occidentale, non era neanche tenuto a redigere, ma che volle stilare per dare il suo contributo all'incriminazione dei responsabili dell'omicidio del suo amico fraterno Boris Giuliano. Sulla base di quel rapporto, Borsellino spiccherà una ventina di mandati di cattura per altrettanti esponenti dello zoccolo duro dei "corleonesi": tra questi, ben sei appartenenti alla famiglia Marchese, ovvero padre, zii e cugini dello stesso Pino Marchese che, undici anni dopo, sarà uno dei primi "pentiti" ad accusare Bruno Contrada. Il processo che, a distanza di anni, seguirà, vedrà, con la determinante testimonianza in aula di un Contrada in quel momento in regime di carcerazione preventiva per il suo processo, la condanna degli assassini di Boris Giuliano. Non è, forse, questo un brillante esempio di collaborazione fra Contrada e Borsellino? Che importanza ha, per il resto, se Contrada fosse per Borsellino un amico, un amico fraterno o un semplice conoscente per motivi di lavoro? La cosa che importa davvero è che i due abbiano lavorato insieme, di comune accordo, dalla stessa parte della barricata: e questo è dimostrato dai fatti che abbiamo or ora citato. A questi fatti le parole di Rita e Salvatore Borsellino non aggiungono nè tolgono nulla. Ma possono irretire quella parte di opinione pubblica che si lascia facilmente influenzare da certe forme anzichè dalla sostanza: se il parente di una vittima di mafia spende parole non lusinghiere nei confronti di una persona, quella persona, per molti, diventa sùbito degna di essere additata al pubblico ludibrio. E questo, con tutto il rispetto, ovviamente, per le vittime della mafia ed i loro parenti, è successo troppe volte.


3b. L'intervento della Procura di Palermo


"Ho portato al Quirinale, che già sapevano perchè sono informati di tutto, un malloppo così sulle condizioni di salute attuali del povero dottor Contrada." - rammenta l'avvocato Lipera ancora nella conferenza stampa del 2 gennaio 2008 - "Porto altresì due atti che sono importantissimi e che formeranno oggetto della valutazione che farà il Tribunale di Sorveglianza di Napoli e della valutazione che farà, se farà, quando farà, il Quirinale. Questi atti, contenuti nel fascicolo del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, sono le informative di rito, una a firma del questore di Palermo, Caruso, e l'altra stilata dalla Procura di Palermo, cosa, quest'ultima, che a noi sembra irrituale perchè chi deve interloquire sulla domanda di differimento della pena per il dottor Contrada sono il procuratore della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere e il procuratore generale presso la Corte d'Appello di Napoli. Invece, non so come, trovo tra gli atti un parere espresso dalla Procura di Palermo, a firma del dottor Antonio Ingroia, uno dei PM del processo di primo grado contro Bruno Contrada, e controfirmato dal procuratore capo Messineo. In quest'informativa si riferisce che 'a parere di quest'ufficio, la pericolosità sociale del detenuto deriva dal solo fatto di avere subìto una sentenza di condanna. In ordine alla eventuale attualità dei collegamenti di Contrada con Cosa Nostra, questo ufficio non ha acquisito alcun ulteriore elemento neppure di segno contrario, sicchè non può mancare di evidenziare che i predetti collegamenti si sono evidenziati come tendenzialmente permanenti'. Immaginate un marito che arriva a casa e non ha le prove di essere stato tradito dalla moglie, ma le dice: 'dammi le prove che mi hai tradito!'. Ho scritto a D'Ambrosio, quindi già la Procura di Palermo lo saprà, che queste deduzioni sono illogiche, incoerenti e contraddittorie, e che forse Erasmo da Rotterdam sarebbe stato più chiaro e più corretto".

Il pensiero dell'avvocato, al contrario di quello della Procura di Palermo, è chiarissimo. Ma, forse, è chiaro, in un senso certamente alquanto perverso, anche quanto espresso dal sostituto procuratore Ingroia. In poche parole, Ingroia sostiene che la Procura di Palermo non ha le prove che Contrada possa avere ancora quei contatti con la mafia per i quali è stato condannato (e noi sottolineiamo, ancora una volta, ingiustamente e senza prove certe) ma non ha neppure le prove che questi contatti siano definitivamente cessati. Uno a uno e palla al centro, direbbe l'uomo della strada. Invece no. Siccome non si può provare nè tutto nè il contrario di tutto, allora, per una sorta di illuminazione divina o per qualche altro motivo che, francamente, sfugge, si getta la monetina e si sceglie l'ipotesi che questi collegamenti possano sussistere ancora e che possano essere "tendenzialmente permanenti". Perchè? Se non siamo certi di una cosa nè del suo contrario, non possiamo avere certezze. Punto e basta. Monsieur De Lapalisse ce lo insegna. Invece i magistrati palermitani ostentano delle sicurezze. Visto che non si sa se Contrada possa avere ancora contatti strani o pericolosi oppure no, allora certamente li avrà, li potrebbe ancora avere. Non fa una grinza. Nel senso che non ne fa una sola: ne fa mille e più. Ma torniamo al riferimento dell'avvocato Lipera al buon Erasmo. "Perchè dico questo?" - prosegue Lipera - "Perchè mentre la Procura di Palermo scrive tre righe che non possono essere chiarite nemmeno da un trattato di filosofia, il questore di Palermo, Caruso, molto più chiaramente, dice: 'allo stato, anche dal quadro complessivo delle attività investigative in corso, non risulta che il dottor Bruno Contrada intrattenga collegamenti con soggetti inseriti o gravitanti in contesti delinquenziali nè che nel periodo trascorso in stato di libertà, dal luglio 1995 al maggio 2007, in attesa della sentenza definitiva, abbia commesso altri reati'. Questa è l'informativa seria, datata 24 dicembre 2007. Quella della Procura di Palermo non è un'informativa seria: è un parere da Erasmo da Rotterdam."

"Io non posso credere, non posso immaginare, con tutta la fantasia più diabolica possibile, che Bruno Contrada faccia paura, sia una persona socialmente pericolosa", aveva dichiarato l'avvocato Lipera in un'intervista a Radio Radicale del 18 dicembre 2007, il giorno dopo essere stato nominato difensore di Contrada e tre giorni dopo averlo conosciuto personalmente.





4. L'istanza per la revisione del processo


Bruno Contrada non vuole la grazia perchè non è colpevole.
Vuole giustizia.
Vuole che il suo onore, la sua dignità, che lui in realtà non ha mai perduto, gli siano restituiti anche agli occhi di quella parte di opinione pubblica che si ostina a ragionare su triti luoghi comuni anzichè documentarsi ed analizzare i fatti. L'unica strada da percorrere nei limitati spazi della cronaca, prima che la Storia, come certamente accadrà, renda all'uomo e al poliziotto Contrada la vera giustizia che merita, è quella della revisione del processo. "Proprio ieri" - dichiara l'avvocato Lipera nell'ormai famosa conferenza stampa del 2 gennaio 2008 - "il dottor Contrada mi ha conferito mandato scritto, olografo, perchè l'avvocato Giuseppe Lipera del Foro di Catania, insieme al suo sostituto, avvocato Grazia Coco, presentino domanda per la revisione del processo. Il signor Bianconi (il giornalista del Corriere della Sera autore dell'articolo che aveva fatto letteralmente inviperire l'avvocato Lipera, nda), guardate quant'è bravo, dice: 'ma come fate a presentare istanza di revisione del processo se la Corte di Cassazione non ha ancora depositato le motivazioni della sentenza di conferma della sentenza di condanna in Corte d'Appello?'. Allora aspettiamo. Signora Cassazione, faccia passare altri tre, quattro, cinque, sei mesi, facciamo morire Contrada e poi, quando sarà, nell'altro mondo gli mandiamo le motivazioni. E' grave che dal 10 maggio il dottor Contrada sia in carcere (vi ricordo che si è fatto il biglietto d'aereo, se l'è pagato e se n'è andato a Napoli con la valigia per presentarsi in carcere da solo: poteva scappare, poteva andare ovunque) e la Cassazione non abbia depositato queste motivazioni".
E' grave, certo. E le motivazioni vengono rese note l'8 gennaio 2008. Ma perchè usare il plurale? La motivazione, per la Suprema Corte, è una sola. “Contro di lui nessun complotto”. In altre parole, il solito leit-motiv: Contrada è colpevole perchè i pentiti hanno parlato, e, secondo la Cassazione, non sono stati manovrati da nessuno. La Suprema Corte ricorda anche che ad accusare Contrada non ci sono solo le parole dei pentiti ma anche "le testimonianze di numerosi suoi colleghi, anche di alto grado, che sospettavano di lui e ne chiedevano l'allontanamento da Palermo". Numerosi? Forse noi abbiamo seguito un altro processo, celebrato in una delle tante "dimensioni parallele" così care ai lettori della Marvel Comics o di Dylan Dog. Le dichiarazioni del commissario Renato Gentile sono state smentite dall'intera Squadra Mobile di Palermo del 1980, con in più un acceso confronto nel quale l'ex-ispettore Corrado Catalano ha di fatto costretto all'angolo lo stesso Gentile; l'atteggiamento assunto proprio in quel periodo dal successore di Contrada alla guida della Squadra Mobile di Palermo, Giuseppe Impallomeni, e dal questore Vincenzo Immordino, è stato esaurientemente spiegato dalle testimonianze rese a favore di Contrada da tutti gli altri suoi colleghi e dipendenti dell'epoca e dal ricordo di vicende simili verificatesi in precedenza alla Questura di Reggio Calabria, dove Impallomeni, in qualità di capo della Squadra Mobile, aveva fatto la stessa cosa che aveva cominciato a fare a Palermo, ossia aveva praticamente smantellato l'ufficio e lo aveva riplasmato secondo le sue esigenze; le dichiarazioni del tenente dei Carabinieri Carmelo Canale, collaboratore del giudice Borsellino, non sono andate al di là di vaghi ricordi relativi a presunte "diffidenze" e malumori. E le parole di Prefetti, Capi della Polizia, Questori, Generali e Colonnelli e altri alti ufficiali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, direttori del SISDE, Alti Commissari Antimafia, Ministri, funzionari e agenti delle tre forze dell'ordine dove le mettiamo? Sono agli atti. Ma sono state liquidate dal PM di primo grado, Antonio Ingroia, che in un'intervista mi disse che costoro "non potevano sapere" perchè lavoravano lontano. Dunque, nell'ottica dell'accusa, i membri delle istituzioni che hanno accusato Contrada (in realtà pochissimi) hanno ragione; i membri di quelle stesse istituzioni che lo hanno difeso (una valanga) "non potevano sapere in realtà come stessero le cose".

"L'istanza di revisione è dunque pronta." - dichiara l'avvocato Lipera a conclusione della conferenza stampa del 2 gennaio 2008 - "La presenteremo dopo il 10 gennaio (data fissata dal Tribunale di Sorveglianza di Napoli per la decisione definitiva circa l'istanza di differimento della pena, nda) e la presenteremo a Caltanissetta".
Caltanissetta. Il Foro prossimo a Palermo competente per territorio. Una città il cui nome era già venuto fuori nel corso del processo di primo grado. Erano stati infatti i giudici di Caltanissetta, oltre a quelli di Palermo, a ricevere dal pentito Mannoia la chiara ed incontrovertibile affermazione "di Contrada non so nulla", per due volte inopinatamente taciuta in sede dibattimentale e in seguito praticamente smontata, se non addirittura ignorata, non si riesce a capire in nome di quale logica, dalla Corte, presieduta da Francesco Ingargiola, che ha condannato Contrada in primo grado. Era stato l'allora procuratore della Repubblica del capoluogo nisseno, Francesco Tinebra, a incaricare Contrada, all'epoca numero tre del SISDE, di svolgere un'attività investigativa e di intelligence sulla strage di Via D'Amelio. E adesso Caltanissetta tornerebbe alla ribalta, ma la buona Lachesi si diverte spesso a tessere delle trame strane ed ingarbugliate. "L'istanza di revisione la presenteremo a Caltanissetta anche se lì si porrà un grosso problema di legittima suspicione" - precisa l'avvocato Lipera ancora il 2 gennaio 2008 - "in quanto il presidente della Corte d'Appello di Caltanissetta è Francesco Ingargiola, ossia colui che presiedette la Corte che condannò Bruno Contrada in primo grado. Quindi, dato che grazie a Sofri si fece quella legge per cui il processo di revisione si deve fare non nella stessa sede del primo procedimento ma nella sede più prossima per evitare condizionamenti, ma la sede più prossima a Palermo è Caltanissetta dove c'è Ingargiola, è molto probabile che andremo a finire a Catania. Ma non a caso andiamo a finire a Catania, perchè voi dovete sapere che nel nostro ordinamento processuale esiste la norma che prevede la revisione del processo solo grazie a Catania. Grazie al giornalista, vostro collega, morto l'anno scorso, Enzo Sciolla, e grazie all'avvocato Salvatore Lazzàra, di Lentini, morto qualche anno fa. Ricordate il famoso caso Gallo? Sciolla e Lazzàra fecero i detective e scoprirono che il signor Gallo, condannato ad una pena pesantissima per l'omicidio del fratello, era stato vittima di un clamoroso errore giudiziario perchè il fratello era vivo e lo trovarono proprio Enzo Sciolla, a cui va il mio saluto, e l'avvocato Lazzàra. Dunque Catania è la sede naturale per risolvere gli errori giudiziari. L'errore giudiziario commesso nel caso Contrada è palese ed è dato dalla stessa imputazione: si condanna una persona parlando giuridicamente di 'concorso esterno' ma nella sostanza di collusione con la malavita, con la mafia, con quello che è. Signori, collusione è un termine letterario che, se esiste giuridicamente, va tradotto in un capo d'imputazione specifico che può essere favoreggiamento personale, favoreggiamento reale, interesse privato in atti d'ufficio, omissione di atti d'ufficio, corruzione. Nel caso Contrada non c'è nulla di tutto questo, anzi si ha la prova che Bruno Contrada uno spillo non l'ha mai rubato. Dunque la sentenza di primo grado contro Bruno Contrada non è una sentenza di condanna ma è una sentenza che dichiara 'Contrada coglione, chè ha favorito la mafia per hobby'! Per hobby! Perchè non mancavano a Palermo i Circoli del Tennis, i Circoli della Caccia, i boy-scouts e altre cose. Invece uno, per hobby, cosa fa? Mi associo alla mafia! La prova dell'innocenza di Contrada è data anche dalla sentenza di condanna. Ho qui un documento consegnatomi ieri dallo stesso Contrada. 'Il giudice che mi ha condannato con sentenza di primo grado poi confermata' scrive Contrada 'ha scritto nella sentenza che non era necessario stabilire e dichiarare per quale motivo mai un poliziotto che aveva per decenni operato in prima linea contro la mafia in Sicilia aveva poi deciso di tradire lo Stato e di asservirsi ai mafiosi'. Non era necessario! L'imputato è colluso e basta, non importa perchè lo abbia fatto! Guarda caso, è che siamo tutti un po' disattenti, per concorso esterno in associazione mafiosa ci sono state altre sentenze, altri processi poi terminati con delle assoluzioni. E già la sola esistenza di queste sentenze rende revisionabile immediatamente la sentenza Contrada. Sono le famose sentenze Carnevale e Andreotti. Ho concluso. Adesso io, l'avvocato Coco, il collega Ficarra e i fratelli e le sorelle qui presenti del dottore Contrada siamo a vostra disposizione per qualsiasi tipo di domanda. Con preghiera di non fuorviare troppo quello che ho dichiarato oggi".

Un episodio della nota e fortunata serie di cartoons statunitensi dei Simpsons vedeva Homer Simpson incastrato in una falsa storia di molestie sessuali. Difendendosi dai microfoni di una improbabile tv della sua città, Homer diceva: "Tutti avete creduto il peggio di me. Ma a nessuno importa una cosa. Che io possa non averlo fatto. E io non ho fatto niente".

L'istanza di revisione viene presentata a Caltanissetta il 16 gennaio 2008.
Il giudice Francesco Ingargiola, che, come abbiamo visto prima, è presidente della Corte d'Appello del capoluogo nisseno, si è già chiamato praticamente fuori. Un atto corretto. Ma il 7 febbraio il sostituto procuratore generale presso la medesima Corte d'Appello di Caltanissetta, Luigi Birritteri, chiede il rigetto dell'istanza di revisione. Ma l'avvocato Lipera non si arrende. L'11 febbraio, insieme ai colleghi Grazia Coco, Marilisa Prestanicola, Giuseppe Palazzo, Claudia Branciforti, Grazia Saitta, ai patrocinanti legali Pietro Lipera, Salvatore Ficarra, Francesco Preti, Davide Capizzi, Simona Suriano e Angelo Catalano e allo psicologo Marco Lipera, confuta la memoria del sostituto procuratore generale e chiede vieppiù che venga disposta in via cautelare la sospensione dell'esecuzione della pena e quindi la liberazione di Bruno Contrada, sollecitando, in subordine, "l'applicazione di una misura coercitiva meno afflittiva quale quella degli arresti domiciliari".
Nella memoria difensiva, fra l'altro, i difensori di Contrada lamentano quello che, a loro dire, è un pregiudizio di tipo ideologico dal parte del sostituto procuratore generale Birritteri, che, nel 2003, era stato candidato alla Provincia di Agrigento nelle fila di quel centrosinistra che non ha fatto altro che avversare ogni forma di clemenza o di umanità nei confronti di Bruno Contrada. "Non è colpa nostra" - scrivono i legali - "se in certi processi penali in Italia si sono formati stranamente degli schieramenti per così dire... 'ideologici'. Se difendi un imputato coinvolto negli scontri del G8 di Genova o un ultrà dello stadio, tutta la sinistra è con te, mentre la destra ti attacca; se difendi un imputato di mafia, a prescindere se sia colpevole o innocente, tutta la sinistra è contro di te, la destra è invece garantista. E' inspiegabile ma è così! In Italia purtroppo è avvenuto che una parte politica, tutti sanno quale è, ha fatto di una ovvietà un programma politico, ove per ovvietà deve intendersi la lotta alla mafia, con la benda agli occhi: chi è accusato di mafia, o qualcosa di simile, a prescindere se sia colpevole o innocente, è un appestato (il principio costituzionale di innocenza non esiste). E non stiamo dicendo fandonie... E' così che vanno le cose. Tutti sanno che a fine dicembre fu chiesto al Presidente della Repubblica di intervenire valutando la possibilità di concedere sua sponte la grazia a Bruno Contrada. Apriti cielo! La sinistra, con Rita Borsellino in testa, si è ribellata (non è insorta nè per il graziato Ovidio Bompressi, compagno di Lotta Continua, accusato dell'omicidio del commissario Luigi Calabresi, vice-responsabile della squadra politica della Questura di Milano, nè per il graziato Graziano Mesina, il famoso bandito sardo. (...) Manco a farlo apposta, o nulla succede a caso, il magistrato chiamato a formulare il parere sulla domanda di revisione sarà, e senz'altro lo è, un buon magistrato ed un fine giurista, ma, guarda il caso, è stato candidato nelle liste del centrosinistra (nel 2003, ad Agrigento, il magistrato Luigi Birritteri non è riuscito a strappare la poltrona all'uscente Vincenzo Fontana di Forza Italia, che ha ottenuto il 56,4% dei voti".
Ma i legali non si soffermano soltanto su un dato politico. Basano la loro istanza di revisione (e le loro critiche alla richiesta di rigetto della medesima formulata da Birritteri) sul fatto che esiste una prima sentenza d'appello (quella emessa dalla Corte d'Appello di Palermo il 4 maggio 2001) che assolse Bruno Contrada perchè il fatto non sussiste (sentenza che il sostituto procuratore generale ha omesso di ricordare). La Corte di Cassazione, il 12 dicembre 2002, aveva poi deciso di annullare la sentenza di assoluzione in appello perchè non era scritta bene (sic!)
e aveva rinviato il processo a nuovo giudice: la sentenza di condanna di questo nuovo giudice era stata poi confermata dalla Cassazione "perchè scritta meglio, evidentemente" chiosano l'avvocato Lipera e soci nella succitata memoria difensiva. Il punto è che, come scrivono ancora i legali in tale memoria, "abbiamo avuto due distinti collegi, due sezioni della Corte d'Appello di Palermo, che, valutando lo stesso materiale probatorio, sono pervenuti a due decisioni diametralmente contrapposte, una di assoluzione e l'altra di condanna a dieci anni di reclusione: il Nadir con lo Zenit, il che significa che, sinanco a prescindere dall'esito che avrà questa domanda di revisione, il dubbio di un condannato innocente rimarrà sempre e resterà scritto indelebilmente negli annali secolari della storia giudiziaria italiana".
Partendo da questa considerazione, che già di per sè appare efficace, i legali prendono l'aire per affrontare il terzo punto cruciale. Dopo il pregiudizio ideologico e la difformità di giudizio, il titolo di reato. "Se a tutto ciò" - scrivono ancora i legali medesimi - "si aggiunge la particolare imputazione 'concorso esterno in associazione mafiosa' (reato creato dalla giurisprudenza anziché dal legislatore), senza alcuna contestazione di reato fine (nessuno contesta al dottore Contrada un favoreggiamento personale o reale, o un interesse privato in atti di ufficio, una corruzione, un’omissione di atti di ufficio, un abuso in atti di ufficio), non vi è chi non veda che il dubbio diventa enorme, gigantesco, insopportabile come non mai". La critica al reato di concorso esterno in associazione mafiosa affligge il diritto penale italiano ormai da anni. Un reato giudicato da più parti privo di sostanza effettiva. Una vera e propria empty box, una scatola vuota buona per essere riempita di volta in volta all'occorrenza, come alcuni vecchi manuali di diritto tributario giudicavano il concetto di "capacità contributiva". Ma nel caso di Bruno Contrada ciò che è servito a riempire questa scatola vuota ed inerte sono, come scrivono ancora i legali nella memoria, "accuse talmente labili, così prive di riscontro oggettivo, che non hanno consentito neppure alla Pubblica Accusa di avanzare una reale contestazione per un reato specifico (corruzione, favoreggiamento etc.). Se io fossi accusato dell'omicidio di Tizio, in sede di revisione potrei avanzare la prova del mio alibi oppure portare la prova che Tizio non è morto (chi non ricorda il caso Gallo? Ne abbiamo parlato poc'anzi, nda), ma se sono destinatario di accuse fumogene ed evanescenti, erroneamente valorizzate da alcuni giudici e non da altri, con l'ausilio di teorie fantasmagoriche (leggasi convergenza del molteplice) come faccio a dimostrare la mia innocenza? (...) Il povero Contrada non può invocare neppure l'intervento della Corte Costituzionale, per il semplice fatto che il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non esiste nel nostro ordinamento, quindi non si può dichiarare incostituzionale una norma che non c'è. Neppure il Parlamento può intervenire, perchè non si può fare una legge per abrogare una norma che non esiste. Solo chi lo ha creato lo può distruggere: i giudici lo hanno creato e i giudici lo devono distruggere!". Gli avvocati citano, a conforto di questa linea di interpretazione, quanto deciso dalla Corte Costituzionale a proposito dell'ormai abrogato articolo 603 del codice penale, che prevedeva il reato di plagio: "Guardate cosa scriveve la Consulta a proposito e diteci se non è riferibile pari pari al concorso esterno in associazione mafiosa: 'l'esame dettagliato delle varie e contrastanti interpretazioni nella dottrina e nella giurisprudenza mostra chiaramente l'imprecisione e l'indeterminatezza della norma, l'impossibilità di attribuire ad essa un contenuto oggettivo, coerente e razionale e pertanto l'assoluta arbitrarietà della sua concreta applicazione'. Giustamente l'art. 603 del codice penale è stato paragonato ad una mina vagante nel nostro ordinamento, potendo essere applicato a qualsiasi fatto che 'implichi', mancando qualsiasi sicuro parametro per accertarne l'intensità. Non è finita. La Consulta dice ancora che la norma 'in quanto contrasta con il principio di tassatività della fattispecie, contenuto nella riserva assoluta di legge in materia penale, consacrato nell'art. 25 della Costituzione, deve pertanto ritenersi costituzionalmente illegittima. Ragionamento che calza a pennello col reato di concorso esterno in associazione mafiosa".
L'ultima freccia nell'arco dei legali è il raffronto con il processo Andreotti e con il processo Carnevale. Birritteri aveva parlato al proposito di una "evidente diversità di contesto fattuale, geografico ed anche temporale" ed aveva aggiunto che "la parziale identità dei collaboratori di giustizia escussi nei tre giudizi riguardanti Andreotti, Carnevale e Contrada non può creare alcuna inconciliabilità tra i giudicati diversi essendo i fatti materiali su cui si è formato il libero convincimento dei giudici". Ribattono i legali nella memoria difensiva: "Ma queste sono doti divinatorie che non coincidono con i fatti e con le imputazioni: i processi Andreotti, Carnevale e Contrada avevano la stessa imputazione (concorso esterno in associazione mafiosa), il territorio è lo stesso (Palermo), i periodi identici (dagli anni '80 in poi), quindi è l'esatto contrario di quello che deduce il PG perchè invece è identico proprio il contesto fattuale, geografico e anche temporale".

E' l'ennesimo
scontro dialettico di questo processo. Potremmo sintetizzarli tutti, dal primo all'ultimo grado di giudizio, nella seguente maniera: le ragioni tecniche (rectius tecnicistiche) e troppo spesso vaghe dell'accusa contro le ragioni logiche e certamente più umane della difesa. Ma anche il lato tecnico spesso non sembra venir curato dall'accusa in maniera convincente. Come può, ad esempio, Birritteri affermare che il processo pendente contro i due "pentiti" Calogero Pulci e Giuseppe Giuca (di cui parliamo in altra parte di questo libro), accusati di calunnia continuata ed aggravata nei confronti di Bruno Contrada, non prova nulla? "Cioè, la dimostrazione evidente del rischio (chiamiamolo eufemisticamente così) del 'pentitificio' sarebbe un fattore neutro?" - si chiedono ancora i legali nella memoria difensiva - "Certo, valutato singolarmente potrebbe apparire neutro, ma insieme a tutte le altre circostanze (vedasi quanto argomentato dalla Corte d'Appello che ha assolto Contrada il 4 maggio 2001) rappresenta oggettivamente un plus".

Ma la difesa è pronta anche a portare le famose "nuove prove" che vengono richieste come elemento fondamentale per ottenere la revisione di un processo. Queste nuove prove sarebbero costituite dalle testimonianze richieste all'ex-presidente della Repubblica Francesco Cossiga e ai poliziotti Francesco Belcamino e Francesco Cardillo, testimonianze che, come scrivono i legali nella memoria, "ai sensi dell'art. 630 lettera C del codice di procedura penale e della sentenza della Corte di Cassazione n. 12472 del 22 febbraio 2002, non hanno formato oggetto del precedentemente accertamento nell'àmbito del giudizio conclusosi con la sentenza irrevocabile".
Il 25 febbraio 2008 la I Sezione Penale della Corte d'Appello di Caltanissetta rigetta la richiesta di revisione, ritenendo "insussistente l'ipotizzata inconciliabilità" tra la condanna a Bruno Contrada e le assoluzioni per analogo reato di Giulio Andreotti e Corrado Carnevale. Per i giudici nisseni è tutt'altro che provata la "completa, totale e generale non credibilità dei collaboratori di giustizia nel procedimento a Contrada" ipotizzata dal ricorrente. I giudici spiegano di "non ritenere idonea a superare il vaglio dell'ammissibilità" la nuova documentazione presentata dalla difesa e di avere rigettato la richiesta di nuove testimonianze perchè queste non sarebbero "idonee a svalutare l'ampio, complesso e concordante quadro probatorio valorizzato dalla pronuncia della Corte d'Appello di Palermo".
L'avvocato Lipera presenta immediatamente ricorso in Cassazione sostenendo
che quella dei giudici nisseni è "un'ordinanza che non spiega, non esterna i percorsi logico-giuridici attraverso cui giunge alle proprie conclusioni, ma riporta delle verità assolute e lapidarie. In buona sostanza, avremmo voluto sapere il perchè dell'inammissibilità dell'istanza di revisione piuttosto che una riproposizione della sentenza di condanna emessa dalla Corte d'Appello di Palermo, ma forse era desiderare troppo".
E' il nodo fondamentale dell'intera, tragicomica vicenda giudiziaria di Bruno Contrada. Una sentenza di condanna in primo grado, contro la quale si staglia decisa una sentenza d'assoluzione nel primo giudizio d'appello. Ma tutti i giudici chiamati a pronunciarsi in seguito non hanno fatto altro che riproporre in maniera apodittica, acritica e quasi pregiudiziale la sentenza di condanna, pretermettendo, anzi lasciando cadere in un dimenticatoio che assume le proporzioni dell'abisso, la sentenza di assoluzione.
Come abbiamo visto prima, in questo stesso capitolo, il 7 ottobre 2008 la V sezione penale della Corte di Cassazione nega in ultima istanza la revisione del processo a Bruno Contrada.



SALVO GIORGIO