Tuesday, February 12, 2008

IL CONTRASTO TRA CONTRADA E IL QUESTORE IMMORDINO E IL BLITZ DEL 5 MAGGIO 1980


1. De Questore Vincenzo

1.1. La storia di Vincenzo Immordino

Come nella migliore tradizione di questo processo, anche i rapporti tra Bruno Contrada ed il questore Vincenzo Immordino hanno rappresentato una sorta di pietra filosofale inversa, utile a trasformare non il piombo in oro ma a produrre il fenomeno esattamente contrario. Trasformare, cioè, l'oro rappresentato dal lavoro corretto ed onesto di un funzionario di polizia integerrimo come Bruno Contrada nel piombo del sospetto, della diffidenza e dei veleni. Vedremo, fra breve, come, in base a quanto emerso dal processo, i rapporti tra Contrada e Immordino furono sì alquanto tesi, ma non più di quanto ciò possa regolarmente accadere in qualsiasi ufficio o in qualsiasi consesso umano: nulla di nuovo sotto il Sole, nè, del resto, si può pensare di mettere sotto accusa il ministro perchè ha avuto dei contrasti sul lavoro con il capo del governo. Ne parleremo fra poco. Adesso occorre delineare la figura di Vincenzo Immordino, partendo, però, da un assunto fondamentale: la cultura del sospetto non ci appartiene. Non ripaghiamo Immordino con la stessa moneta con la quale è stato abbondantemente quanto ingiustamente saldato Bruno Contrada. Ma è giusto riportare quanto è emerso dal processo, tenendo sempre presente, e lo ribadiamo a chiare lettere, che si tratta di vicende sulle quali non è stata fatta chiarezza sufficiente e che citiamo solo ed esclusivamente per dovere di cronaca.

Nel corso del processo, infatti, la difesa di Bruno Contrada ha sostenuto che quel Vincenzo Immordino, fu Pietro, la cui firma è stata trovata in calce ad un documento, risalente agli anni '50 e relativo ad una società nella quale figuravano alcuni nomi piuttosto equivoci, sarebbe proprio il futuro questore di Palermo.

Il nome di Vincenzo Immordino, figlio di Pietro, appare anche in una relazione, a firma Vincent J. Scamporino, catalogata come Report No. JP-974 ed indirizzata ad Earl Brennan, un funzionario del governo statunitense che si occupava delle vicende italiane nei primi, caldissimi periodi del secondo dopoguerra. In questa relazione si racconta dell'esplosione di alcune bombe durante un comizio comunista tenutosi nell'ottobre 1944 nel paese siciliano di Villalba, dove Immordino era nato. Ne riportiamo un estratto:

"Si sparse a Villalba la notizia che sarebbe stato tenuto in questo Comune un grande comizio comunista, il successo del quale avrebbe avuto larga ripercussione nei comuni viciniori. Nessun particolare allarme destò la notizia, per quanto fosse risaputo che il giorno innanzi il signor Michele Pantaleone, esponente del locale movimento social-comunista, si fosse allontanato da Villalba, diretto a Caltanissetta, per preparare il comizio in parola. All’indomani, difatti, verso le ore 14, mentre la popolazione era, data l’ora, nelle proprie case, si sentirono echeggiare a gran fanfara le note di Bandiera Rossa e grida inconsiderate da parte di un gruppo di almeno quaranta persone che su di un camion arrivarono alla piazza del paese. (...) A questo punto è opportuno far notare che nella mattina dello stesso giorno tutto il paese fu trovato imbrattato da numerose scritte ed emblemi di falce e martello, cosa questa che sorprese ed indignò gran parte della popolazione, anche per il fatto che fino a quel giorno nessuna cantonata del paese portava segni od iscrizioni di questo o di quel partito.
Ne scaturì un primo increscioso incidente: il locale maresciallo ed il brigadiere dei Carabinieri furono affrontati dall’avvocato Vincenzo Immordino di Pietro, già capo manipolo della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale ed istruttore dei premilitari di Villalba, figlio del locale direttore didattico, fondatore del fascio di Villalba, segretario politico del Partito Nazionale Fascista per ben 13 anni, Centurione della Milizia e Sciarpa Littorio, il quale, con fare altezzoso, protestò perché un paio di ragazzi cancellavano le scritte stesse con latte di calce. Nel frattempo trovavasi a passare il sindaco, avvocato Beniamino Farina, il quale, pregato dallo stesso maresciallo di avvicinarsi, fu da questi invitato ad esprimere il suo pensiero sulla opportunità di intervenire o meno. Il sindaco, allo scopo di non sottilizzare intorno ad un episodio di nessuna entità, ebbe testualmente a dire: 'Che vuole che noi si faccia! Due imbecilli hanno imbrattati i muri e due imbecilli cancellano le scritte'. Al che l’Immordino reagì esclamando: 'Il più grande imbecille è lei!'. Si ebbe per tutta risposta un sonoro ceffone dall’avvocato Farina. L’incidente però fu subito dopo composto.
Nel pomeriggio, stante questo precedente e per l’insolito avvenimento dell’arrivo del camion, sul quale aveva trovato posto, come dianzi è detto, una rumorosa fanfara, una discreta folla si riversò nella piazza, ove, fra gli altri, trovavasi il cavalier Calogero Vizzini. Questi s’indugiava cordialmente, come è nelle sue abitudini, con i vari cittadini e specialmente con i democratici cristiani, un po’ più allarmati, si intende, per la gazzarra che andavasi preparando perché veniva a turbare la pace del loro paese, sempre tranquillissimo, e pregò per la circostanza tutti i presenti di restare calmissimi e di mettersi in disparte presso la loro sede, dalla quale, del resto, avrebbero potuto comodamente assistere al comizio dei comunisti già definiti da essi stessi e dalla voce pubblica i 'Volontari della morte'. Incominciarono, così, ad arrivare nella piazza i comizianti, satolli del pasto consumato, ed alcuni di questi, riconosciuto il cavalier Vizzini, lo salutarono e gli si avvicinarono.
Dopo lo scambio di cortesi convenevoli, il cavalier Vizzini, non smentendo la tradizionale ospitalità villalbese, offrì a ciascuno dei presenti ed agli altri, che nel frattempo gli si erano avvicinati, delle sigarette ed una tazza di caffè nel più vicino bar. Si fecero così le ore 17 circa.
In questo momento arrivarono, con un gruppo di forestieri, i comunisti del luogo, il signor Michele Pantaleone e l’oratore ufficiale, il dottor Li Causi.
Questi mandarono un villalbese a domandare al cavalier Vizzini se corrispondesse a verità quanto era stato loro sussurrato, cioè che, essendo tutta la popolazione completamente ostile alla loro propaganda, il comizio sarebbe stato disturbato da una solenne fischiata. Il cavalier Vizzini rispose tranquillizzandoli nella maniera più assoluta al riguardo e li rassicurò ancora nel senso che avrebbero potuto tenere tranquillamente il loro comizio senza essere disturbati da chicchessia. Inoltre ad un gruppo di comunisti nisseni, venuti a Villalba con lo stesso camion, ritenne opportuno consigliare di non fare alcuna allusione intorno a persone e questioni di Villalba, anche per rispetto alla ospitalità che veniva loro offerta.
Cominciò così il comizio. I democratici cristiani si raccolsero presso il loro circolo in un lato della piazza, i comunisti forestieri e quelli di Villalba, non più di cinquanta o sessanta persone al massimo, nell’altro lato e precisamente innanzi ai locali del Banco di Sicilia. Il rimanente della piazza, anzi gran parte della piazza stessa, rimase del tutto deserta.
Parlò per primo il capo della locale sezione social-comunista, Michele Pantaleone, già capo settore di Villalba del Partito Nazionale Fascista, seguito da un altro oratore forestiero e prese infine la parola il dottor Li Causi. Questi parlò di sopraffazioni e di liberazione, aggiungendo: 'Non vi fate lusingare da un affittuario (a chi intendeva riferirsi?) che vi promette una salma di ottimo terreno per avervi con lui.' A questo punto il cavalier Vizzini, senza l’intenzione di provocare un tafferuglio ma solo allo scopo di precisare, ebbe ad esclamare: 'Quello che asserite è falso!' ed avrebbe desiderato continuare per dire che, se oppressori vi erano stati a Villalba, e il popolo tutto non lo avrebbe mai dimenticato, essi erano precisamente quei fascisti che oggi si presentavano al suo cospetto in veste di comunisti, tutti in rango serrato attorno all’oratore, e che avrebbe potuto documentare la sua asserzione in quanto proprio quei signori erano stati i fautori della divisione del feudo Miccichè, erano proprio essi che si erano presi i terreni migliori, erano proprio essi che avevano dato ai contadini i terreni peggiori e che per venti anni di regime fascista avevano ignobilmente sfruttato i poveri lavoratori di Villalba, facendo ad essi pagare il doppio del canone che precedentemente veniva corrisposto in misura più equa e più onesta. Vi erano infatti accanto all’oratore i seguenti individui:

Calogero Vaccarella, fascista della prima ora, fondatore del fascio di Villalba, ex-segretario politico e primo podestà fascista del paese;

Pietro Immordino, già innanzi citato, altro fondatore del fascio di Villalba, segretario politico per la bellezza di tredici anni, centurione della milizia, sciarpa littorio, già arrestato dal Comando Alleato all’arrivo in Villalba delle truppe di liberazione e rilasciato a seguito di generosa intercessione del cavaliere Calogero Vizzini che, per la sua dirittura politica, fu dal popolo tutto acclamato sindaco della libertà e dagli Alleati convalidato sindaco di Villalba;

Michele Pantaleone, fascista attivo ed intransigente, già capo settore del Partito Nazionale Fascista;

Giuseppe Vasta di Salvatore, milite fascista, volontario di Spagna, combattente contro il comunismo;

Giovanni Pellegrino, fascista della prima ora e facente parte della polizia segreta della Federazione dei Fasci di Combattimento, arrestato dagli Alleati al loro arrivo in Villalba e liberato, come l’Immordino, per generosa intercessione del cavalier Vizzini;

Calogero Ferrara, della gioventù italiana del littorio;

Vincenzo Immordino, figlio di quel Pietro innanzi citato, capo manipolo della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale ed istruttore dei premilitari di Villalba. Questi, unitamente al padre, all’approssimarsi degli Alleati a Villalba, fuggì dirigendosi verso Valledolmo, ove chiese ospitalità presso una famiglia di villalbesi ivi residenti. Disse il padre ch’era loro intendimento di congiungersi con le truppe tedesche in ritirata per rifugiarsi in continente. Ne furono dissuasi finchè non venne arrestato il Pietro Immordino.

Giuseppe Giglio fu Filippo, istruttore dei giovani fascisti di Villalba;

Domenico Riggi, aberratissimo fascista, oggi comunista, in una proprietà del quale è stata rinvenuta, durante una perquisizione ordinata a seguito degli incidenti verificatisi, una cassetta di bombe a mano.

Tutti i sopra elencati hanno detenuto sfrontatamente per venti lunghissimi anni il potere a Villalba, ed oggi, ironia della vita, formano da soli, compatti, il gruppo social-comunista di questo paese!

Ed ora continuiamo. Non avvenne, però, quello che era in un cuore generoso e nel pensiero del cavalier Vizzini, perché i comunisti, indubbiamente quelli del luogo, temendo di venire smascherati dalle sue dichiarazioni, si voltarono come un solo uomo verso la voce che veniva dalla piazza e cominciarono a sparare pazzamente. A questi spari seguì lo scoppio di una bomba a mano che provocò un generale fuggi fuggi. Fino a questo punto, l’oratore rimase con presenza di spirito dritto sul tavolo dov’era salito per il concione, mentre il cavalier Vizzini, rivolto verso i comunisti, gridava levando le braccia: 'Calma, calma!'. Seguì lo scoppio di un’altra bomba a pochi passi dal punto dove trovavasi il cavalier Vizzini, il quale si riparò dietro il camion che riportò, come si vide poi, danneggiamenti al radiatore. Dopo qualche istante la piazza rimase quasi deserta.
Spuntò un appuntato dei Carabinieri, al quale il cavalier Vizzini rivolse sùbito l'invito di chiamare il maresciallo per renderlo edotto di quanto era avvenuto sullo stesso luogo, ove si era svolto un così grave ed increscioso incidente. Avrebbe, difatti, potuto rilevarsi, e chiaramente, con le tracce ivi esistenti, da che parte ebbe inizio la battaglia, da qual lato erano state lanciate le bombe, quale il piano di una così diabolica ed infernale azione così minutamente preparata ed organizzata da un gruppo di scalmanati e di criminali. Il maresciallo non credette opportuno intervenire, si ha ragione di ritenere, l’appuntato non fece più ritorno e frattanto il cavalier Vizzini, sollecitato dal conducente dell’autocarro, si adoperò a fornire a questi quanto gli fu richiesto per potere rimettere in moto l’automezzo in parola. I Carabinieri poi sopraggiunti rimossero i pezzi degli strumenti abbandonati, rinvennero una bomba inesplosa ed una cinghietta di bomba e, per suggerimento dello stesso cavalier Vizzini, trasportarono ogni cosa in caserma.
Ciò fatto, questi si allontanò dalla piazza, l’autocarro partì e la gazzarra insensata rimase in pasto ai più deplorevoli apprezzamenti della buona gente di Villalba, atterrita, che ha sempre vissuto in perfetta sanità di costumi, in tutti i tempi e malgrado inenarrabili sofferenze.

Tanto per la verità dei fatti."

La fonte di questa relazione è la copia non firmata, stampata, clandestinamente pubblicata e distribuita in tremila copie in tutta la Sicilia dallo stesso Calogero Vizzini, capo dell’alta mafia nella zona di Caltanissetta, che presenta la sua posizione nel notorio incidente di Villalba, dove una riunione della sezione locale del Partito Comunista fu segnale per una rissa armata fra partecipanti comunisti ed elementi separatisti. Vizzini, oltre ad essere un capomafia, era anche un esponente di spicco del gruppo separatista, guidato dalla mafia e di ispirazione filo-americana, conosciuto come Fronte Democratico d’Ordine Siciliano. Una completa traduzione del documento firmato da Vizzini fu inoltrata alle autorità statunitensi col Report JSP-965.

La militanza politica di Vincenzo Immordino è stata provata anche durante il processo Contrada. L'ispettore generale capo del Ministero degli Interni Guido Zecca, di cui parleremo fra breve, ha ricordato, nell'udienza del 28 ottobre 1994, che Immordino era comunista e che si sarebbe scoperta, in seguito, anche la sua appartenenza alla Loggia P2.


1.2. Il commissario Giuseppe Peri

Vincenzo Immordino fu questore di Trapani negli anni '70, gli anni nei quali, nel capoluogo lilibeo, operava anche il commissario Giuseppe Peri, un investigatore di cui non si sentirà più parlare in futuro ma che in quegli anni delicati giocò un ruolo importante per le sue intuizioni e per la sua intraprendenza. Peri ebbe a indagare su vicende terribili, per le quali ipotizzò un legame tra la mafia ed il terrorismo nero. Fu questa la sua idea per quanto riguarda la sciagura aerea di Montagnalonga, vicino Punta Raisi, nel 1972, nella quale persero la vita 108 passeggeri e 7 membri dell'equipaggio. Tutti avevano scartato l'ipotesi dell'attentato, propendendo per un errore dei piloti, ma Peri si dimostrò convinto fin dall'inizio che l'aereo era stato fatto esplodere: secondo il commissario, la bomba avrebbe dovuto entrare in azione soltanto sul suolo dell'aeroporto di Punta Raisi, ma l'aereo, com'è noto, aveva dovuto ritardare l'atterraggio per cedere il passo ad un altro aereo che aveva avuto la precedenza dalla torre di controllo. L'ordigno sarebbe dunque esploso in quota e per questo motivo, secondo Peri, avrebbe provocato anche la morte dell'attentatore. Peri formula quest'ipotesi in un rapporto inviato al giudice istruttore di Catania Sebastiano Cacciatore, titolare delle indagini, ma questo rapporto non fu mai neppure inserito nel fascicolo dell'inchiesta.
Peri intravide legami tra mafia ed eversione nera anche nell'omicidio dei due carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo, avvenuto la notte del 26 gennaio 1976 ad Alcamo Marina, in provincia di Trapani, e persino nel sequestro di Luigi Corleo, suocero di Ignazio Salvo. Peri faceva scaturire gran parte della sua convinzione dal fatto che era stato provato che in quegli anni, a Trapani, operavano degli estremisti: nella primavera del 1974, infatti, alle pendici di Erice, era stato scoperto un campo di addestramento paramilitare.
Per queste idee così particolari e, in un certo senso, scomode e pericolose, Peri fu giudicato da tutti un visionario e fu trasferito a Palermo, relegato, però, in un ufficio di secondo piano e senza alcun incarico investigativo. E' lo stesso Marcello Immordino, figlio del questore, a spezzare una lancia in favore di Peri: "Credo che la sua intuizione fosse giusta" - sostiene - "Trapani era in quegli anni il crocevia di traffici illeciti. C'erano personaggi mafiosi potenti. C'erano logge massoniche. C'erano servizi segreti deviati. La mafia locale poteva contare su importanti collegamenti con gli Stati Uniti, dove erano presenti tante comunità di emigranti di origine trapanese. Giuseppe Peri, però, non è riuscito ad andare oltre la sua intuizione e a raccogliere prove a supporto della sua tesi. Credo che il suo errore sia stato quello di isolarsi. Lavorava da solo. Non parlava con i superiori, non si consultava con nessuno. Se avesse lavorato in sinergia con altri, forse sarebbe riuscito a concretizzare tutti i suoi sforzi e a trovare le necessarie prove. Anche se, comunque, non credo che sia stata tutta colpa di Giuseppe Peri. Erano anni difficili. La situazione politica e sociale era perennemente instabile. Non c'era alcuna collaborazione tra gli investigatori".
Ma torniamo alla figura del questore Immordino. Da diretto superiore del commissario Peri, Immordino non avallò mai la teoria di quest'ultimo sui legami tra mafia ed eversione di estrema destra. Il 17 dicembre 1974, durante un'audizione dinanzi alla Commissione Parlamentare Antimafia, Immordino escluse, anzi, recisamente la possibilità di legami tra mafia e terroristi neofascisti. "Nulle è dato riscontrare, in provincia di Trapani, in ordine ad un collegamento fra ambienti mafiosi e trame nere", dichiarò senza mezzi termini Immordino.

Nel 1976 Immordino diventa questore di Reggio Calabria e conosce Giuseppe Impallomeni, ivi giunto qualche settimana prima. Immordino lascia la Questura del capoluogo calabrese alla fine del 1979 per diventare questore di Palermo.

E a questo punto ha inizio la vicenda che andiamo a trattare.


2. L'ACCUSA


2.1. Le origini del contrasto fra Vincenzo Immordino e Bruno Contrada

Dopo l'omicidio del capo della Squadra Mobile di Palermo Boris Giuliano, avvenuto il 21 luglio 1979, l'intera Questura di Palermo, e in primis, il questore Giovanni Epifanio caldeggiano la nomina di Bruno Contrada, all'epoca capo della Criminalpol della Sicilia Occidentale, a capo provvisorio della Mobile. Grazie alla sua esperienza, alla sua competenza e all'innegabile carisma, Contrada è ritenuto l'unico in grado di risollevare le sorti dell'ufficio, così duramente e direttamente colpito. L'allora Capo della Polizia, Giovanni Rinaldo Coronas, ha ricordato nell'udienza del 21 marzo 1995:

CORONAS - "Dopo l'assassinio di Boris Giuliano, capo della Squadra Mobile di Palermo, ucciso il 21 luglio 1979, fu il questore di Palermo, Giovanni Epifanio, a caldeggiare il nome di Contrada come capo della Squadra Mobile ad interim, perchè Contrada era un ottimo funzionario. Io conoscevo il valore sia dell'uomo che del funzionario Contrada, e per questo, nella mia qualità di capo della Polizia, lo invitai personalmente ad accettare e lui accettò con lo spirito di servizio che aveva sempre dimostrato."

Contrada viene praticamente acclamato a furor di popolo nuovo capo della Squadra Mobile e non fa in tempo a varcare nuovamente la soglia del suo vecchio ufficio che si mette sulle tracce degli assassini di Giuliano.
Il 6 dicembre 1979 al questore Epifanio succede Vincenzo Immordino. L'1 febbraio 1980 Contrada torna alla Criminalpol palermitana lasciando il posto di dirigente della Squadra Mobile a Giuseppe Impallomeni.
E' l'inizio di un periodo convulso. Immordino e Impallomeni cominciano a riorganizzare la Squadra Mobile secondo la loro logica, come avevano già fatto quando entrambi prestavano servizio presso la Questura di Reggio Calabria: il che dimostra che la loro personale riforma luterana della Mobile non fu dettata da sfiducia nei confronti di Contrada o di altri funzionari, ma faceva parte di un modus operandi, opinabile o meno che fosse, che aveva contraddistinto già in precedenza il loro operato di funzionari di polizia.

Lo dimostra la testimonianza resa in tal senso, nell'udienza del 27 gennaio 1995, da Francesco Sirleo, dirigente superiore della Polizia di Stato che, nel 1976, ossia quando Immordino divenne questore di Reggio Calabria, era vicecapo della Squadra Mobile del capoluogo calabrese:

SIRLEO - "Immordino aveva il vezzo di interessare sempre organi diversi e non sempre competenti per le cose. Frazionava sempre le indagini. Ciò non creava armonia fra i vari settori e ci furono attriti. Appena arrivò a Reggio Calabria Immordino manifestò sùbito l'intenzione di sostituire il capo della Squadra Mobile Celona con Impallomeni, ma il procuratore della Repubblica reggino non era d'accordo e non voleva. Così Immordino creò una sorta di Squadra Mobile 'esterna' con a capo Impallomeni per occuparsi delle zone di Palmi e Locri, mentre la Squadra Mobile diretta da Celona rimaneva ad occuparsi del territorio della città di Reggio. Poi, dopo circa un anno, tale Squadra Mobile 'esterna' fu abolita e Impallomeni andò a dirigere un Distretto di Polizia a Gioia Tauro."

Giunto a Palermo, Immordino tenta di replicare il copione già rappresentato in terra calabra, contando anche stavolta sulla partecipazione di Impallomeni. La prima cosa che fa è sopprimere la Sezione Antimafia e la Sezione Catturandi: quest'ultima diventa una semplice squadra e viene affidata al commissario Renato Gentile. Il 12 aprile 1980 avviene la famosa perquisizione condotta dalla squadra comandata da Gentile nella casa del boss Totò Inzerillo (ne parliamo nel capitolo L'irruzione del commissario Gentile). Seguono i malumori e gli equivoci di cui diamo conto nel capitolo appena citato.

Nella Questura di Palermo l'atmosfera diventa sempre più irrespirabile. Gran parte della Squadra Mobile di Palermo non gradisce il rimescolamento delle carte attuato da Immordino e Impallomeni e si stringe intorno a Bruno Contrada, che rappresenta la continuità della tradizione dell'ufficio, nonchè l'inseparabile alter ego dello scomparso e mai dimenticato Boris Giuliano. La personalità e l'esperienza di Bruno Contrada, indiscusso eroe agli occhi dei suoi uomini, si scontrano con i metodi e con il carattere di Impallomeni, rappresentando così il disagio di un intero ufficio. La descrizione più efficace di quell'atmosfera irrespirabile e del personaggio di Impallomeni la fornisce, nell'udienza del 24 gennaio 1995, l'allora capo della Sezione Investigativa della Squadra Mobile di Palermo Guglielmo Incalza:

INCALZA - "C'erano contrasti con Impallomeni che culminavano anche con parolacce ed epiteti. Lui lavorava in maniera arraffazzonata, del tipo 'miettici a chiddu, miettici a chistu nei rapporti' ('mettici quello, mettici questo nei rapporti', nda). E a me tutto questo non piaceva."

Non piace neppure a tantissimi suoi colleghi. Lo stesso Incalza, Antonio De Luca e Vittorio Vasquez (vicecapo della Squadra Mobile), tre nomi che, insieme a Contrada e Giuliano, avevano fatto la storia della Squadra Mobile di Palermo, chiedono il trasferimento. In particolare, Vasquez va a raggiungere Contrada alla Criminalpol palermitana, mentre De Luca viene nominato vicecapo della Mobile al suo posto. Ricorda lo stesso De Luca nell'udienza del 28 ottobre 1994:

DE LUCA - "Con l'avvento di Immordino, quella che lui definiva la 'vecchia polizia giudiziaria', cioè noi, fu messa da parte. Immordino voleva dimostrare di aver fatto piazza pulita perchè, secondo lui, dopo la morte di Giuliano la Squadra Mobile di Palermo non valeva più niente. E infatti Immordino ci sottrasse il blitz del 5 maggio 1980 e una seconda operazione, a fine maggio del 1980, contro il gruppo Sollena. (...) Impallomeni non godeva della nostra stima e della nostra fiducia, era una figura non cristallina che non potevamo tollerare come successore di un eroe onesto e adamantino come Boris Giuliano. In molti volevamo lasciare la Squadra Mobile per protesta e ne parlammo con Contrada, che ci consigliò di stare tranquilli perchè, tanto, il 30 maggio 1980 Immordino sarebbe andato in pensione. Io chiesi comunque il trasferimento prima del mese di maggio, ma il dottore Pachino, capo di gabinetto di Immordino, mi disse di attendere. (...) Tornando ad Impallomeni, lui stesso mi disse che di mafia non capiva niente e mi diede carta bianca, dunque molti meriti in realtà erano miei."

Persino Francesco Federico, uno dei funzionari sui quali Immordino si appoggiava, ammette, nell'udienza del 24 gennaio 1995:

FEDERICO - "Con Impallomeni avevamo modi diversi di intendere le indagini. C'erano liti continue e divergenze sull'attività investigativa. Bruno Contrada invece era apprezzato da tutti, non c'è mai stato nessun sospetto su di lui da parte di nessuno: in tutta la mia attività, sia alla Squadra Mobile che come dirigente di vari Commissariati a Palermo, mai Bruno Contrada mi disse di favorire in alcun modo questo o quel latitante."

L'ispettore Salvatore Nalbone si pone sulla stessa linea. Nell'udienza del 20 gennaio 1995 dichiara:

NALBONE - "Bruno Contrada era un grande. Il suo successore Impallomeni non era in gamba come lui."

Ricorda, ancora, Ottavio Fiorita, all'epoca ispettore in servizio presso la Sezione Catturandi della Mobile palermitana, nell'udienza del 31 gennaio 1995:

FIORITA - "Vasquez, De Luca ed Incalza chiesero il trasferimento perchè non volevano lavorare con Impallomeni. Lo ritenevano un incapace. Ma nessuno di noi gradiva Impallomeni. Aveva un carattere scontroso, modi di fare scortesi e non era preparato. Non aveva vissuto alla Squadra Mobile con gli altri. Non lo vedevamo di buon occhio."

Ma Impallomeni è spalleggiato dal questore Immordino.


2.2. Il blitz del 5 maggio 1980

E' nel suddetto clima di disorientamento e di veleni che matura il presunto "mistero" del blitz del 5 maggio 1980.
Mistero? Giallo? Intrigo? Niente di tutto questo. Semplicemente, come è emerso dal processo e come vedrebbe chiunque non volesse per forza di cose pervenire ad una determinata conclusione contro ogni evidenza, una storia che, come tutte le altre che hanno formato l'improbabile contenuto del vaso di Pandora che è stato il processo medesimo, avrebbe potuto essere accettata e spiegata per quello che era, senza star lì a dissipare tempo e denaro dei contribuenti per cercare di vedere lo spettro di Yorick anche dove non c'era e non poteva esserci. Anzi, magari qualcuno avesse deciso di prendere in mano il teschio dello sfortunato monarca danese per accarezzarlo e farsi venire qualche dubbio in senso contrario...

Il famoso blitz del 5 maggio 1980 costituisce l'esito di indagini sul gruppo mafioso Spatola- Inzerillo-Gambino-Di Maggio, sui collegamenti fra mafia siciliana e mafia statunitense e sullo stesso Michele Sindona. Indagini che erano state intraprese e condotte da Bruno Contrada e da Vittorio Vasquez. Ad un certo punto, il questore Immordino decide di creare un gruppo di lavoro a parte, diviso in tre sottogruppi, ognuno per una tranche dell'inchiesta. Immordino aveva dato disposizione che tutto avvenisse all'insaputa di Contrada e dei suoi più fidati collaboratori, ma per un motivo che nulla ha a che fare (come vedremo fra breve) con sospetti o diffidenze di alcun genere. Si trattò soltanto di un normalissimo contrasto d'ufficio, come ne accadono a centinaia ogni giorno in ogni parte del mondo, che è stato in seguito ingigantito per costruire addosso a Contrada quell'abito di amico dei mafiosi che l'accusa gli ha cucito addosso. Un cappotto di Gogol dalle misure sbagliate. Una patente che Contrada, vittima dell'ingiustizia e del clamore sociale come il Rosario Chiàrchiaro di pirandelliana memoria, non ha mai fatto nulla per meritare e che, al contrario dell'immortale personaggio creato dal grande Girgentano, ha sempre, giustamente ed in maniera sacrosanta, rifiutato.
A rammentare tutto con precisione è ancora Francesco Federico, uno dei funzionari che fu chiamato da Immordino a far parte del gruppo parallelo d'indagine:

FEDERICO - "Io da solo costituivo uno dei tre sottogruppi. Poi fui chiamato da Immordino insieme a Emanuele e a Salerno. Eravamo come i carbonari, Immordino ci impose segretezza e riservatezza massima con tutti i colleghi della vecchia Squadra Mobile ma non ci spiegò perchè. Immordino mi diede quindici giorni di tempo per riferire. Dopo quindici giorni io gli dissi che non avevamo ancora finito, il rapporto era carente, non avevamo prove certe a carico di tutti gli indagati: puntualizzai che avremmo rischiato una brutta figura con l'autorità giudiziaria se avessimo effettuato arresti che poi non avrebbero potuto essere convalidati proprio per la mancanza di prove certe. Io ho sempre ritenuto di dover fare un arresto soltanto quando avessi avuto tutti gli elementi certi: infatti, in otto anni di Squadra Mobile, non ho mai 'subìto' la scarcerazione di un criminale da me fatto arrestare. Dissi a Immordino che sarebbe stato meglio informare di tutto il giudice istruttore Paolo Borsellino e il questore mi disse di proseguire nelle indagini per fornire a Borsellino un materiale più completo. (...) Ma Immordino tradì quest'impegno e finì con l'ordinare gli arresti che voleva senza consultare Borsellino. E così io mi rifiutai di firmare il rapporto. Avevo preso con Immordino l'impegno di firmare il mio rapporto soltanto se fosse stato mandato al giudice Borsellino, e così non fu. (...) Su tutta questa vicenda ho fatto una relazione al dottor Guido Zecca (l'ispettore ministeriale che verrà inviato da Roma per far luce su queste tensioni interne alla Squadra Mobile di Palermo, v. infra il paragrafo dedicato alla difesa, nda). In questa relazione spiegai a Zecca perchè alla fine non volli firmare il rapporto. Ossia non perchè non fossi d'accordo con il contenuto ma perchè non concordavo sull'uso che ne volevano fare: io temevo che Impallomeni manovrasse questo rapporto dopo che io glielo avessi presentato. Non mi fidavo di Impallomeni."

Ai ricordi di Federico si affiancano anche quelli di Guglielmo Incalza, all'epoca, come abbiamo visto, dirigente della Sezione Investigativa della Squadra Mobile. Nella medesima udienza del 24 gennaio 1995 Incalza ricorda:

INCALZA - "Nel quadro delle indagini su Spatola-Inzerillo-Gambino-Di Maggio io indagai su due utenze telefoniche, una facente capo al commerciante Rosario Inzerillo, l'altra facente capo a Vittorio Mangano. Alla fine di aprile del 1980 avevo fatto un rapporto in cui denunziai 24 persone, ma Impallomeni mi aveva fatto una gran fretta. Io credevo che il mio rapporto fosse autonomo, invece poi scoprii che era stato collegato a mia insaputa ad un'inchiesta più ampia. Solo pochi giorni dopo il blitz del 5 maggio 1980 seppi che Immordino aveva costituito un gruppo di lavoro a parte, un gruppo che non fece altro che sfruttare il precedente lavoro condotto da Contrada, da me e da altri."

Il blitz consiste dunque in una vasta operazione diretta in particolare contro il gruppo mafioso facente capo alle famiglie Spatola, Inzerillo, Di Maggio e Gambino. E', in pratica, la risposta delle forze dell'ordine all'omicidio del capitano dei Carabinieri Emanuele Basile, avvenuto a Monreale due giorni prima, il 3 maggio. Ancora Federico ricorda:

FEDERICO - "Il 5 maggio 1980 fummo convocati alla caserma Lungaro. (...) Per il blitz Immordino aveva fatto venire dalla Questura di Reggio Calabria il dottor Celona, un suo uomo di fiducia (al solito...). Quella sera io, per gravi questioni familiari, avevo bisogno di essere reperibile dalla mia famiglia e chiesi a Celona di persuadere Immordino e Impallomeni affinchè mi permettessero di telefonare a casa, nonostante fossimo ormai in stato di allerta per il blitz imminente. In più chiesi a Celona (e a De Luca) di convincere Immordino e Impallomeni a non far scattare l'operazione perchè, come ho già detto, consideravo quegli arresti prematuri per mancanza di prove certe. Per tutta risposta ricevetti una minaccia: se me ne fossi andato, mi avrebbero fatto sparare addosso dal corpo di guardia. Al che io risposi che, in tal caso, avrei sparato io per primo addosso a Impallomeni."

La tensione è altissima. Non solo alla caserma Lungaro, intendo. Anche in aula, mentre Federico ricorda i dettagli di quella convulsa notte. Sta venendo fuori un lato della faccenda che l'accusa non conosceva. Le figure di Immordino e di Impallomeni, considerati fino a quel momento Rolando e Rinaldo contro il "moro" Contrada, stanno subendo dei duri colpi. Prosegue Federico:

FEDERICO - "Visto che Immordino e Impallomeni non volevano sentire ragioni, consegnai loro il mio rapporto non firmato perchè se ne assumessero loro la paternità e la responsabilità. Ancora ne pago le conseguenze: ho subìto inchieste per questo motivo. Non solo. Per evitare che il rapporto fosse in seguito manomesso, inserii nell'ultimo rigo due periodi sui fatti di quella notte alla Lungaro e feci un disegnino, una specie di geroglifico. Non ho saputo più nulla. Non so se il mio rapporto, dove denunciavo Filippo Marchese insieme ad altre diciotto persone, sfociò poi nel rapporto dei 55."

Anche Guglielmo Incalza ricorda l'atmosfera tesissima di quella notte, partendo addirittura dalla mattina:

INCALZA - "La mattina di quella domenica, 5 maggio 1980, ero andato in ufficio come spesso capitava. Impallomeni mi disse di tornare nel pomeriggio e io così feci, insieme ad altri colleghi. Attendemmo tutti invano la fine di un colloquio tra Immordino ed Impallomeni. Io tornai a casa ma fui prelevato poche ore dopo per andare alla caserma Lungaro, dove c'era agitazione. Volevo telefonare a casa per avvertire che non sarei tornato, ma non mi fu consentito. Ci diedero delle buste con dei nomi di gente da arrestare. Fino a quel momento io non sapevo cosa dovevamo fare. Tra quei nomi ne riconobbi alcuni inseriti nel mio rapporto."

Il blitz scatta. Gli arresti vengono effettuati. Le prove non sono sufficienti, proprio come aveva previsto Francesco Federico. Quel che resta sono i veleni. Che arriveranno dritti dritti ad ammorbare l'aria del processo Contrada a distanza di una decina d'anni.


2.3. La lettera del questore Immordino al Capo della Polizia Coronas

L'11 maggio 1980, sei giorni dopo il blitz, Immordino prende l'iniziativa di scrivere al Capo della Polizia Giovanni Rinaldo Coronas per lamentarsi di Contrada. Non sulla base di fatti, ma di semplici opinioni e supposizioni; e soltanto perchè, in definitiva, Contrada rappresenta, in seno alla Questura palermitana, quella vera e propria istituzione vivente che non solo rischia di mettere in ombra la figura dello stesso Immordino, ma che, di fatto, costituisce un ostacolo alla "riforma" inopinatamente partorita dallo stesso Questore. Queste sono le ragioni, emerse dall'approfondimento processuale, per le quali Immordino non legò mai davvero con Contrada: nessuna diffidenza basata su sospetti di collusione con la mafia, nessuna accusa specifica, nessun fatto. Tant'è vero che, come scrivono gli avvocati Sbacchi e Milio nell'atto di impugnazione della sentenza di primo grado, "è certo che Immordino, in sede di indagini a carico del dottore Contrada (in esito alle propalazioni di Tommaso Buscetta), malgrado nemico dichiarato dell'odierno appellante (ossia lo stesso Contrada, nda), non ebbe a muovere accuse di collusioni nei confronti del medesimo". In altre parole, quello che i pubblici ministeri hanno voluto vedere come un vero e proprio atto di accusa di Immordino nei confronti di Contrada, altro non fu che una bega d'ufficio amplificata dalle tragiche ed inusuali circostanze del momento, ossia dall'ovvia ed inevitabile atmosfera di confusione e smarrimento conseguente all'omicidio di Boris Giuliano e dal peculiare atteggiamento di Immordino, da sempre esplicito, ancorchè non sempre provvido, "riformatore" degli uffici che dirigeva. Siamo di fronte all'ennesima amplificazione in senso accusatorio, e quasi scandalistico, di un fatto altrimenti normale in qualsiasi routine d'ufficio: l'ennesimo rigonfiamento di questo processo.
Nella lettera al Capo della Polizia Immordino riferisce di un "logorio fisico e psicologico" e di uno "stato di tensione e di legittima paura" che avrebbero costretto Contrada a "scegliere la via di una sostanziale inattività sui grossi e piccoli affari criminali, quasi a lasciare decantare da sole certe situazioni micidiali". A sostegno di questo atteggiamento improntato a paura ed immobilismo, i pubblici ministeri Ingroia e Morvillo hanno portato la testimonianza del commissario Renato Gentile: ma quanto vaghe e pretestuose siano state le sue parole lo dimostriamo nel capitolo dedicato alla vicenda e intitolato, appunto, L'irruzione del commissario Gentile.
In realtà la paura c'era (sfidiamo chiunque a non averne in situazioni da tregenda come quella che si era creata a Palermo alla fine degli anni '70), ma l'immobilismo certamente no. E lo dimostrano le indagini svolte da Bruno Contrada e dai suoi uomini, che porteranno al famoso rapporto del 7 febbraio 1981 che inchioda i responsabili dell'omicidio di Boris Giuliano e decine di altri mafiosi: sulla base di quel rapporto il giudice istruttore Paolo Borsellino spiccherà 15 mandati di cattura.
Paura certamente, immobilismo mai, dunque. Ma è chiaro che la morte di Giuliano aveva profondamente scosso tutti, e principalmente proprio l'amico fraterno, lo stretto collaboratore, il "gemello" Bruno Contrada. Lasciamo che siano proprio le sue parole a descrivere il momento. Nell'udienza del 12 luglio 1994 Contrada ricorda:

CONTRADA - "Il questore Immordino scrisse nel rapporto al Ministero dell'Interno che io avevo subìto un deterioramente psico-fisico per la morte di Giuliano. E' stato molto tenue, perchè io ero distrutto quando fu ucciso Giuliano: distrutto sul piano fisico, sul piano psicologico, sul piano volitivo. Dovetti veramente far ricorso a tutte le mie forze per continuare ad andare avanti, perchè Boris Giuliano era mio fratello."

E' lo stesso Contrada a non disconoscere, anzi ad ammettere e a dipingere con tratto netto e preciso, l'esistenza di un clima di confusione, di sbandamento e di timore susseguente all'assassinio di Boris Giuliano. E chi potrebbe negarlo? Ma è un reato subire un crollo emotivo e psicologico dopo un fatto talmente tragico come la morte di una persona che consideri più di un fratello? E' davvero così strano ed inquietante palesare una reazione umanissima e inevitabile dopo aver subìto un colpo tanto duro? Può tramutarsi in accusa un moto dell'animo? Tanto più che, dopo lo choc iniziale, Contrada si rimise al lavoro, come confermato da tutti coloro che lo affiancavano in quel periodo. Valga su tutte la testimonianza dell'ispettore Salvatore Nalbone nell'udienza del 20 gennaio 1995:

NALBONE - "Bruno Contrada era un grande poliziotto. Quando tornò a dirigere la Squadra Mobile dopo la morte di Giuliano, risollevò il morale a tutti. Altro che rallentamento!"

Con Contrada, dunque, la Squadra Mobile, così duramente sferzata dalla morte di Boris Giuliano, torna al lavoro. E i frutti di questo lavoro si vedranno nel già citato rapporto redatto e firmato dallo stesso Contrada il 7 febbraio 1981. Un rapporto, come abbiamo detto, acquisito agli atti del processo ma praticamente disconosciuto in ogni occasione dai giudici. Ogni accusa, quantunque pretestuosa, deve trovare un fondamento: ogni prova a discarico nasce soltanto da ignoranza della realtà o, nel peggiore dei casi, dal tentativo di favorire ad arte un vecchio collega. Non importa che Contrada abbia dato un impulso decisivo alle indagini sulla morte di Giuliano: il questore Immordino (ovviamente morto all'epoca del processo e non presente, dunque, per poter dire come sono andate veramente le cose) non può aver sbagliato, non può aver agito come ha fatto soltanto per un fatto personale o perchè era abituato a comportarsi in quel modo. Di Bruno Contrada si doveva, e si deve, diffidare: è quasi un precetto cogente. E al diavolo atti e rapporti che, invece, non essendo "morti" ma ben vivi e presenti nel processo col loro inchiostro indelebile, provano in maniera certa ed inconfutabile che Contrada e i suoi uomini fecero fino in fondo il loro dovere.
Come ricorda ancora Antonio De Luca nella già citata udienza del 28 ottobre 1994, rintuzzando le illazioni avanzate da Marcello Immordino, figlio di Vincenzo:

DE LUCA - "Marcello Immordino ha riferito che Contrada, dopo la morte di Giuliano, disse: 'stiamo calmi che qui ci ammazzano tutti'. Sì, lo ha detto, ma per prudenza, perchè dovevamo capire da dove proveniva la mano che uccise Giuliano. Sicuramente l'omicidio era stato deciso da grossi boss, da più menti, e non da cani sciolti. Immordino figlio non ha capito niente, tant'è vero che ci furono, dopo la morte di Giuliano, indagini a tappeto e successi ottenuti dalla vecchia guardia della Squadra Mobile di Palermo, ossia Contrada, io, Vasquez, D'Antone e così via. Non certo da Immordino padre o da Impallomeni."


2.4. L'ispezione ministeriale condotta da Guido Zecca

Il 30 maggio 1980 Vincenzo Immordino cessa dalla carica di questore di Palermo, va in pensione e viene sostituito da Giuseppe Nicolicchia. Il nuovo questore mostra un'indole diversa dal predecessore e rivaluta la vecchia guardia, come racconta Tonino De Luca ancora nell'udienza del 28 ottobre 1994:

DE LUCA - "L'1 giugno Giuseppe Nicolicchia si insedia ufficialmente a capo della Questura di Palermo e mi dice: 'due mesi e sarai tu il nuovo capo della Squadra Mobile'. Anzichè far capo ad Impallomeni, rimasto dirigente della Mobile, Nicolicchia faceva infatti capo a me e a Bruno Contrada perchè Impallomeni non conosceva bene come noi la realtà di Palermo."

La promessa di Nicolicchia non si tramuterà in realtà e De Luca non diventerà mai capo della Squadra Mobile come avrebbe desiderato ardentemente: nel 1981 chiederà e otterrà il trasferimento a Milano, dove vivrà, dal punto di vista professionale, un periodo interlocutorio. E' lui stesso a raccontarlo nell'udienza sopracitata:

DE LUCA - "Alla Questura di Milano facevo cose di poca importanza: mi occupavo di furti, denunzie contro ignoti e così via. Finchè passai alla Criminalpol di Milano per intervento di Falcone, che segnalò il mio nome a Bruno Siclari, allora procuratore aggiunto della Repubblica di Milano, che si era imbattuto in inchieste di mafia e cercava collaboratori esperti nel settore. Ma fu determinante anche l'intervento di Contrada, che allora dirigeva la Criminalpol di Palermo. Fu Contrada a parlare bene di me al Capo della Polizia Coronas. E fu così che ebbi l'occasione di tornare a fare cose che mi piacevano e per le quali avevo fatto esperienza a Palermo. Fu grazie a Falcone e a Contrada che io mi rilanciai professionalmente."

Ma se il commissario De Luca riesce a ritrovare la dimensione che più gli si confà, gli echi dei sommovimenti e delle turbolenze della Questura di Palermo varcano ben presto Scilla e Cariddi e giungono a Roma. Il Capo della Polizia Giovanni Rinaldo Coronas decide di vederci chiaro e nel giugno del 1981 invia a Palermo l'Ispettore Generale Capo del Ministero dell'Interno, Guido Zecca. Ma non soltanto per svolgere una normale attività ispettiva, bensì per avere notizie più dettagliate sull'operato del questore Immordino e, soprattutto, per un motivo specifico che lo stesso Coronas ha ricordato nell'udienza del 21 marzo 1995:

CORONAS - "Decisi di mandare l'ispettore Guido Zecca a Palermo perchè chiarisse perchè e come il capo della Mobile Impallomeni aveva cancellato il nome di Michele Sindona dal proprio rapporto di denuncia".

Bruno Contrada stilò una relazione indirizzata all'ispettore generale capo Zecca. La relazione è stata acquisita agli atti del processo.



3. LA DIFESA


Il blitz del 5 maggio 1980 non è una manifestazione di diffidenza nei confronti di Bruno Contrada. E' soltanto un'operazione di polizia condotta nella pedissequa osservanza dello stile della premiata ditta Immordino-Impallomeni. Ovvero vedere dei Tolomeo dappertutto e rivoluzionare le cose in maniera che definire copernicana sarebbe soltanto riduttivo. Ricordate le parole del vicecapo della Squadra Mobile di Reggio Calabria Francesco Sirleo? "Immordino aveva il vezzo di interessare sempre organi diversi e non sempre competenti per le cose. Frazionava sempre le indagini. Ciò non creava armonia fra i vari settori e ci furono attriti". O ancora "A Reggio Calabria Immordino creò una sorta di Squadra Mobile 'esterna' con a capo Impallomeni per occuparsi delle zone di Palmi e Locri, mentre la Squadra Mobile diretta da Celona rimaneva ad occuparsi del territorio della città di Reggio". E questo fu quello che fece anche il 5 maggio 1980. Per una questione legata al suo personale DNA professionale, non certo per sfiducia o sospetti nei confronti di Bruno Contrada. Sospetti che, del resto, in quella famosa lettera al Capo della Polizia Coronas, Immordino avrebbe potuto esternare. Ma non lo fece. Nè in quell'occasione nè in altre. Nè ad altri colleghi. Ricorda, infatti, il prefetto Guido Zecca, nell'udienza del 28 ottobre 1994:

ZECCA - "Furono tutti concordi nel dirmi che il dottor Contrada era un ottimo funzionario e nessuno assolutamente fece, avanzò delle ipotesi di sospetti sul suo conto."

Nessuno. Dunque, neppure Immordino. Come dimostra la successiva dichiarazione di Zecca:

AVVOCATO SBACCHI - "Il dottor Immordino accusò Contrada, fece cenno ad eventuali attività illecite del dottore Contrada, tipo collusioni o fatti di questo genere? Se Contrada era colluso, aveva rapporti con mafiosi, esponenti mafiosi?"

ZECCA - "Attività illecite di Contrada? Per carità, assolutamente, mai!"

Non solo Immordino non si lamentò mai di Contrada, ma tessè addirittura le sue lodi. E' ancora Zecca a ricordarlo:

ZECCA - "Il dottor Contrada non era un colluso, per carità! Addirittura il questore Immordino mi elogiò personalmente Contrada. (...) E lo stesso Immordino, alla fine dell'appunto inviato al Capo della Polizia l'11 maggio 1980, aveva già elogiato Contrada una prima volta."

E,
nell'udienza del 21 marzo 1995, il prefetto Coronas, che nel 1980 era Capo della Polizia, dopo aver elogiato Contrada con grande enfasi ("Bruno Contrada è stato sempre il massimo, anzi più del massimo come qualifiche di servizio per un funzionario di grande esperienza. La valutazione di Contrada al Ministero degli Interni era il massimo, ossia 100, più 5 punti di menzione speciale e di lode massima. Totale: 105. Un punteggio che quasi nessuno era mai riuscito a raggiungere. TUTTI stimavano il dottor Bruno Contrada. Tutti, dentro e fuori dalla Polizia") ha dichiarato:

CORONAS - "Non ho mai avuto sospetti su rapporti di Contrada con la mafia. Nè io nè altri. Neppure il questore Immordino mi disse nulla in tal senso. Nessuno mai lo ha fatto."

L'operazione del 5 maggio 1980, come abbiamo detto prima, scaturisce direttamente dalle indagini di Bruno Contrada e di Vittorio Vasquez, indagini di cui il questore Immordino si era soltanto appropriato. E lo aveva fatto perchè aveva fretta. Rammenta Guido Zecca, sempre nell'udienza del 28 ottobre 1994:

ZECCA - "Il dottor Contrada non se la sentiva di firmare una denunzia che non riteneva ancora completa, ma Immordino premeva, premeva... Contrada fece notare a Immordino che molti informatori della Polizia erano stati fatti fuori e dunque dovevano esserci delle fughe di notizie dalla Squadra Mobile, e Contrada stesso era preoccupato per la sua incolumità."

Questa strana fretta di Immordino viene spiegata meglio da Tonino De Luca, sempre nell'udienza del 28 ottobre 1994:

DE LUCA - "Immordino voleva soltanto fare colpo, come diceva lui, 'arrestando una cinquantina di mafiosi'. Per questo cominciò a premere per sveltire le indagini. Addirittura io, una mattina, trovai il mio ufficio letteralmente ripulito dai fascicoli su Spatola e dai fascicoli relativi a diversi omicidi di cui mi stavo occupando: tutto questo materiale era stato portato a mia insaputa a Immordino. Io allora rassicurai il questore che le indagini su Spatola andavano avanti, ma Immordino non volle sentire ragioni e assegnò le indagini medesime ad altri funzionari, certamente inesperti, togliendole a me. La stessa cosa fece con Contrada e Vasquez. Insomma, Immordino fece di tutto per sottrarre le indagini su Spatola a noi vecchi funzionari della Mobile e metterci da parte. Perchè? L'ho già detto. Soltanto perchè voleva fare colpo, ma non perchè sospettasse che io, Contrada, D'Antone o Vasquez fossimo collusi con la mafia."

E' ancora
Zecca a spiegare i veri motivi per cui Immordino volle tenere Contrada e i suoi uomini più fidati all'oscuro dell'operazione:

ZECCA - "Immordino aveva dato direttive perchè tutto avvenisse all'insaputa di Contrada soltanto perchè, secondo Immordino, Contrada ritardava a presentare le sue conclusioni adducendo la presenza di lacune nelle sue indagini, ma non c'erano altri motivi o sospetti."


Ecco il vero motivo per cui Contrada vestì i panni, per lui inusuali, di Quinto Fabio Massimo. Ecco spiegato perchè temporeggiava. Non certo per difendere dei mafiosi, ma solo perchè riteneva che un po' di tempo in più avrebbe consentito di approfondire ulteriormente le indagini ed entrare in possesso di un maggior numero di elementi. Immordino, al contrario, si era calato nel ruolo della gatta frettolosa. E i gattini ciechi che Contrada e i suoi temevano nascessero da un intempestivo blitz erano già, in realtà, venuti alla luce con la misteriosa morte di alcuni informatori della Polizia, fatto che aveva ingenerato in Contrada il sospetto che ci fossero state strane fughe di notizie dalla Questura. Era ovvio che Contrada volesse usare i classici piedi di piombo: anche per evitare che quello stesso piombo, già abbondantemente usato da Cosa Nostra contro rappresentanti delle istituzioni, andasse ancora una volta a segno e garantisse altri punti a favore della mafia. Motivi plausibili, considerando soprattutto la situazione di estrema tensione di quel tristissimo periodo. Motivi che non possono nascondere, se non davanti ad occhi che si ammantino di sguardi pretestuosi, nessun secondo fine.
Nell'àmbito di quella attività investigativa, Contrada aveva indagato anche sul coinvolgimento di Michele Sindona con la mafia e non aveva lesinato sforzi e impegno. E' stato accusato di aver cancellato il nome di Sindona dal suo rapporto di denuncia, ma ciò non è vero: perchè avrebbe dovuto farlo? Non è stato mai minimamente fatto cenno ad alcun legame fra Contrada e Sindona, non si è mai trovata prova alcuna di fatti che potessero far pensare ad un atteggiamento "morbido" dello stesso Contrada nei confronti del banchiere, nè si sono comprovati legami fra Contrada ed altri soggetti che potessero avere un reale interesse a coprire Sindona. Ciò che accadde realmente emerge, come abbiamo visto, dalle già ricordate parole
del prefetto Coronas, che in udienza ha precisato il motivo che lo spinse ad inviare Guido Zecca a Palermo: chiarire per quale motivo il capo della Squadra Mobile Giuseppe Impallomeni, e non certo Bruno Contrada, aveva cancellato il nome di Sindona dal proprio rapporto di denuncia.
E che nel rapporto di Contrada il nome di Sindona apparisse in bella evidenza è confermato anche dall'allora dirigente della Sezione Investigativa della Squadra Mobile di Palermo, Guglielmo Incalza, nella già citata udienza del 24 gennaio 1995:

INCALZA - "Seppi che nel rapporto di Contrada il nome di Sindona c'era."

C'è bisogno di ripeterlo ancora? Non fu Contrada ma Impallomeni ad eliminare il nome di Sindona dal proprio rapporto. Un Impallomeni col quale Contrada aveva avuto dei contrasti e del quale non condivideva determinate linee d'azione. Tra cui proprio quella di cui stiamo parlando. E, poichè non aderiva alle strategie di Impallomeni, avallate invece dal questore Immordino, Contrada fu messo da parte. Con sommo rincrescimento suo, ma anche di tutti coloro che lo conoscevano e lo stimavano. Valga per tutte la reazione di Girolamo Di Giovanni, allora prefetto di Palermo, ricordata ancora da Guido Zecca nell'udienza del 28 ottobre 1994:

ZECCA -
"Il prefetto Girolamo Di Giovanni elogiò Contrada e si lamentò che fosse stato messo da parte per quell'operazione del 5 maggio 1980."



Francesco Borgese, vicequestore vicario di Palermo - udienza del 5 settembre 1994;
Vittorio Vasquez, dirigente della Sezione Investigativa della Squadra Mobile di Palermo - udienza del 10 gennaio 1995;
Carmelo Emanuele - udienza del 23 giugno 1995;
Ferdinando Pachino - udienza del 5 ottobre 1994;
dalle quali emergono i comportamenti di Immordino, le ragioni di contrasto tra Immordino e Contrada e il corretto agire di Contrada.




SALVO GIORGIO

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