Tuesday, May 15, 2007

20 SEMPLICI DOMANDE SUL PROCESSO CONTRADA



1. Domanda numero uno

Per quale motivo un funzionario integerrimo, la cui carriera gronda di elogi, encomi, onorificenze ed attestati a livello sia nazionale che internazionale, nonchè di note di merito e punteggi sempre al massimo livello, avrebbe dovuto improvvisamente vendersi al nemico?
Il motivo legato alla paura è stato tassativamente escluso da centinaia di recise testimonianze di colleghi che hanno lavorato a stretto contatto con Contrada e lo hanno visto all'opera nell'arco di TUTTA la sua lunga carriera. Sottolineiamo con enfasi l'aggettivo TUTTA per rispondere all'obiezione, mossa dalla pubblica accusa a fronte delle suddette testimonianze a favore dell'imputato, secondo la quale Contrada avrebbe svolto il suo lavoro correttamente fino ad un certo punto e sarebbe passato al nemico soltanto verso la fine degli anni '70. E le operazioni antimafia da lui condotte come capo della Criminalpol della Sicilia Occidentale (1976-1982) e poi come numero tre del SISDE lungo tutto il decennio 1982-1992 dove le mettiamo?
Forse, allora, Contrada si sarebbe potuto far corrompere col denaro. Ma dove sono questi soldi? L'ex-capo della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo ha sempre abitato in una normalissima casa alla periferia di Palermo, compatibilissima col suo reddito e con quello della moglie, insegnante di lettere, ha sempre acquistato autovetture di media grandezza, ha finito di pagare la casa al mare estinguendo il mutuo quando già si trovava in regime di carcerazione preventiva nella prima metà degli anni '90. La delirante dichiarazione pubblicata dalla rivista I Siciliani nel 1985 (dopo la morte di Pippo Fava), secondo la quale Contrada aveva dei possedimenti in Uruguay, non ha trovato alcun riscontro. Contrada non ha mai avuto neppure possedimenti in Sardegna, come qualcuno aveva ipotizzato. Anche la tesi (extrema ratio in tal senso della pubblica accusa) sostenuta dal pentito Salvatore Cancemi, secondo la quale Contrada avrebbe perso al gioco il guadagno della sua corruzione, è stata efficacemente destituita di ogni fondamento dalla testimonianza di centinaia di persone, colleghi e amici dell'imputato, che hanno giurato che Contrada ha sempre odiato il gioco d'azzardo e non si è mai seduto al tavolo verde.

Lo stesso Contrada ha dichiarato di aver imparato a giocare a scopone soltanto nel carcere militare di Forte Boccea a Roma. Un napoletano verace come lui, oltre a saper cantare, avrebbe dovuto essere un buon giocatore quanto meno di scopone o di tressette. Ma non importa. Non in questo momento, almento. Probabilmente, in futuro, anche il fatto di non sapere quando si può "rompere il sette" o tirare una carta bassa anzichè una alta potrebbe diventare una nuova clamorosa accusa ai suoi danni...

Su questa domanda capitale, vale a dire perchè Contrada avrebbe deciso di tradire quello Stato che aveva sempre fedelmente servito, se ne innesta una seconda. Pòsto che dal processo non è di fatto emerso nulla che potesse inchiodare l'ex-capo della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo (e che Contrada è stato condannato soltanto sulla base di indizi e sospetti enunciati per la maggior parte da dichiarazioni di 'pentiti' che spesso hanno richiamato frasi dette da persone morte che non possono smentire nè confermare, dichiarazioni non hanno ricevuto un solo riscontro oggettivo ma solo la vaga conferma di altri 'pentiti' le cui dichiarazioni a loro volta non sono risultate suffragate da riscontri oggettivi), la domanda che urge è la seguente: chi ha voluto la rovina di Bruno Contrada?
Le risposte possibili appaiono due. La prima la poniamo a sua volta in forma di domanda. E' plausibile sospettare che "pentiti" come Gaspare Mutolo, più volte denunciato ed arrestato da Contrada, o Rosario Spatola e Pino Marchese, a loro volta ripetutamente oggetto di indagini e denunce da parte dello stesso Contrada, non abbiano esitato ad affondare il colpo quando, novelle Salomè, si sono visti presentare la testa di Contrada su un piatto d'argento?
Sarebbe la prima volta che chi patisce un grosso debito con la giustizia tenta in tutti i modi di trasformare parte di questo debito in credito?
La seconda risposta la lasciamo alle parole di Dimitri Buffa e di Lino Jannuzzi.

1.

Scrive Dimitri Buffa nel suo blog su Internet il 2 gennaio 2008:

"La gente oggi si chiede: perché mai i pentiti avrebbero dovuto volere incastrare Bruno Contrada? Esattamente come nel 1983, cioè 25 anni fa, quando ancora neanche esisteva la legge sui collaboratori di giustizia, si chiedeva: chi mai avrà interesse a volere sbattere in galera Enzo Tortora?
Ebbene se il caso Tortora fu voluto da un gruppo di magistrati, che ha poi fatto carriera nella rispettiva casta, esclusivamente per motivi di richiamo mediatico per un’inchiesta, quella sulla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, che fu la prima delle maxi-indagini all’italiana (quasi duecento omonimi scarcerati nei primi tre mesi), anche se non si escludono sordidi interessi politici visto che all’epoca il caso Tortora eclissò quello dell'assessore democristiano della regione Campania Ciro Cirillo e delle trattative tra stato camorra e brigatisti, la tragedia che è toccata in sorte a Bruno Contrada affonda le proprie radici nel peggio del peggio di quelle sleali concorrenze che da anni caratterizzano i rapporti tra colleghi nel grande universo dei pezzi grossi delle forze dell’ordine.
In quella sorta di olimpiade dell’indagine iniziata con l’istituzione dei tanti corpi speciali quali GICO (il Gruppo Investigativo sulla Criminalità Organizzata della Guardia di Finanza, nda), SCO (il Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato, nda), DIA (la Direzione Investigativa Antimafia, braccio operativo della DNA, la Direzione Nazionale Antimafia, voluta da Giovanni Falcone, che si articola nelle varie DDA, ossia le Direzioni Distrettuali Antimafia esistenti presso ogni Procura della Repubblica, nda), che già si affiancavano almeno a tre armi, la Polizia di Stato, l'Arma dei Carabinieri e la Guardia di Finanza, per non parlare dei servizi di intelligence, due, SISDE (Servizio Investigativo per la Sicurezza DEmocratica, ossia il cosiddetto servizio segreto civile, nda) e SISMI (Servizio Investigativo per la Sicurezza MIlitare, ossia il cosiddetto servizio segreto militare, nda) istituzionali, e decine, quelli di Marina, Aereonautica, Esercito, da sempre di fatto esistenti. All’epoca, per fortuna, non esistevano ancora gli spioni privati come quelli ingaggiati e lautamente pagati da Telecom, ma bastavano e avanzavano quelli sopra citati.
Contrada era un ostacolo da rimuovere per vincere l’appalto della gestione dei pentiti di mafia, iniziata male già nel 1984 dopo il varo della legge apposita e dopo i "proto-pentimenti" di Totuccio Contorno, Antonino Calderone e don Masino Buscetta.
Erano gli anni dei professionisti dell’Antimafia (definizione di Leonardo Sciascia, nda) e dei sociologi alla Pino Arlacchi che costruivano le proprie immeritate fortune con i libri basati sui verbali dei pentiti che avevano in parte convinto a pentirsi.
Una girandola mediatico-giudiziaria auto-referente in cui Contrada era un grosso ostacolo: perché l’uomo che all’epoca del proprio arresto, la vigilia di Natale del 1992, era a capo della struttura del SISDE che si occupava di criminalità organizzata, era abituato a indagare da solo, come aveva fatto per decenni, quando i professionisti dell’antimafia politica e giudiziaria erano in tutte altre faccende affaccendati, senza l’ausilio del pentito “pret- a-porter” di turno.
Anzi, per dirla tutta, Contrada era quello che aveva sbattuto per primo in galera i pentiti quando erano ancora ben lungi dal proprio pentimento. E’ stato così per Gaspare Mutolo, che poi diverrà il suo implacabile accusatore, è stato così per Salvatore Cancemi, è stato così per decine di altri criminali che oggi lo stato paga come top manager in cambio solo di accuse dimostratesi false, come quelle a Giulio Andreotti, Corrado Carnevale e tanti altri nemici politici dei professionisti dell’antimafia. Nemici che però si sono salvati. Al contrario di Contrada.
In pratica, per decenni questi pentiti ci hanno venduto dei bidoni, accusando quasi esclusivamente chi era già in carcere, e però prestandosi alle teorie del "terzo livello" che tanto piacevano alla gestione della procura di Palermo che fu di Gian Carlo Caselli. Poi, con il procuratore Pietro Grasso, le cose sarebbero cambiate e anche i risultati attuali lo confermano. Nell’epoca precedente infatti era stato catturato solo Totò Riina, ma di quell’operazione tutto il merito va a un uomo, il generale dei Carabinieri Mario Mori, che rischia ancora oggi di fare la fine di Contrada o del suo collega Ignazio D’Antone, altro abate Faria dimenticato in un carcere militare dove è stato sepolto sulla parola degli stessi pentiti che hanno trasformato Contrada nel nuovo Enzo Tortora.
Buscetta accuserà Contrada di collusione con la mafia solo nel 1984. Senza essere creduto. Poi negli anni ’90, dopo l’inizio della rivoluzione delle toghe, rosse e non, Contrada verrà arrestato e insieme a lui anche Ignazio D’Antone. Improvvisamente due super-poliziotti super-decorati vengono dipinti e creduti come traditori dello stato. E qualcuno approfitterà di questo stato di cose per fare carriera al posto loro.
Ma questa è un’altra storia. E passa dai misteri del “corvo di Palermo”, che sarà stato sicuramente un pessimo volatile, ma che gracchiando ha raccontato tante verità cu cui si è voluto chiudere gli occhi preferendo non indagare per carità di patria.
Totuccio Contorno ebbe, come è noto, licenza di uccidere e di vendicarsi
"mafiando" (il triste neologismo coniato in un'intervista dal boss Michele Greco, nda). Qualche anno più tardi ci avrebe provato il suo collega Baldassarre Di Maggio ma qualcuno pensò bene, quella volta, di fermare l’operazione prima che fosse troppo tardi".

2.

Scrive Lino Jannuzzi:

"Un singolare destino accomuna i due poliziotti, Bruno Contrada e Gianni De Gennaro. Un destino crudele e beffardo. Crudele per Contrada, la vittima, beffardo per De Gennaro, il carnefice. La carriera di Gianni De Gennaro è cominciata la vigilia di Natale del 1992, quando ha fatto arrestare il suo collega Bruno Contrada, e termina oggi, proprio quando le porte del carcere militare di Santa Maria Capua Vetere si sono chiuse, forse per sempre, dopo 15 anni di processi, alle spalle di Contrada: 'Avevo pronta la pistola con il colpo in canna' - mi ha detto Contrada, seduto sulla branda della cella - 'poi ho guardato la fotografia di mio figlio con la divisa della Polizia e non mi sono sparato. Morirò qui dentro, è come fossi già morto'. Il 'morto' Contrada ha afferrato il vivo De Gennaro e l'ha consumato: la loro storia è cominciata insieme, e insieme finisce.

Era già stato scritto, come in un racconto di Borges. 'Caino, sia maledetto Caino', aveva urlato Adriana, la moglie di Contrada, nella stanza dell'ospedale di Palermo dove avevano trasportato d'urgenza il marito, svenuto nell'aula del tribunale quando il PM aveva introdotto l'ennesimo 'pentito' che lo accusava di intelligenza con la mafia. Bruno Contrada aveva riaperto gli occhi nella sala di rianimazione, aveva gridato 'Vogliono annientarmi!', aveva implorato che lo lasciassero morire, aveva tentato di impadronirsi della pistola del carabiniere di guardia, aveva strappato dalle mani dell'infermiere la siringa infilandosela nel collo... E' stato in quel momento che la donna piccola e minuta ha preso a urlare: 'Caino, maledetto Caino, è Caino che me lo ha ammazzato...'.
'Caino' - ha spiegato Adriana Del Vecchio, insegnante di lettere e latino in pensione, ai giornalisti che, richiamati dalle urla, le si affollavano intorno - 'è un collega di mio marito, è lui che ha voluto che Bruno finisse in carcere. E'qualcuno che ha capito che la Sicilia e la mafia potevano essere usate come trampolino di lancio per fare carriera. Ma non ha trovato il campo libero perché davanti a lui, molto più avanti per anzianità e nei ruoli, c'era Bruno Contrada. Doveva eliminarlo, è lui l'autore della congiura, è lui che ha arruolato e ha imbeccato i ‘pentiti' che lo accusano...'. La maledizione di Adriana ha accompagnato Gianni De Gennaro, come l'ombra di Banco, per tutti questi lunghi 15 anni della sua brillante carriera e l'ha atteso, paziente e inesorabile, sulla soglia del carcere militare di Santa Maria Capua Vetere.
Bruno Contrada è stato il più famoso poliziotto di Palermo, la memoria storica della lotta alla mafia, uno spietato cacciatore di mafiosi, quando non c'erano ancora i 'pentiti' e le intercettazioni ambientali, quando bisognava sporcarsi le mani con i 'confidenti', rischiando ogni giorno la vita e l'onore: ogni giorno si poteva venire uccisi dalla mafia assieme al confidente, o venire disonorati dall'antimafia con l'accusa di essere il confidente del confidente. Gianni De Gennaro ha fatto fuori Contrada quando questi era già passato al SISDE e aveva preparato, per incarico del governo, il progetto di trasformare il servizio segreto civile in una direzione antimafia. De Gennaro, allora dirigente della Squadra Mobile, aveva un altro progetto, caro a Luciano Violante, ai giustizialisti del PCI e ai magistrati professionisti dell'antimafia, quello di organizzare la DIA, una direzione antimafia svincolata dai servizi, dalla stessa direzione generale della Polizia e dal governo: quella che presto Francesco Cossiga avrebbe definito, chiedendone la soppressione, 'la nostra polizia politica, la nostra OVRA, la nostra GESTAPO, il nostro KGB', lo strumento più efficace per liquidare gli avversari con l'uso e l'abuso dei 'pentiti' e dei processi politici. Liquidato Contrada e il suo progetto, De Gennaro creò la DIA, ne assunse il controllo e inventò la 'fabbrica dei pentiti', divenne il 'Signore dei pentiti'. De Gennaro è stato l'artefice vero della macelleria politica in nome dell'antimafia, più di Luciano Violante".

Un duro atto di accusa, quello di Jannuzzi. Una voce forte, che segue la pista tracciata dalle parole della stessa moglie di Contrada, pronunciate fuori da quella stanza dell'Ospedale Civico di Palermo che ha rischiato di essere la camera ardente del marito. Seguendo la precisa ricostruzione di Jannuzzi e i fatti su cui questa si basa, viene fuori che il primo 'pentito' su cui "De Gennaro mette le mani" (come scrive Jannuzzi) è Tommaso Buscetta. E' il 1984. Contrada è ancora in piena attività ed è proprio lui che stana Buscetta in Brasile, lo contatta attraverso un suo collaboratore, il capo della Squadra Mobile di Palermo Ignazio D'Antone, in seguito passato anche lui al SISDE, e si appresta a recarsi di persona di là dall'oceano per prelevarlo e portarlo in Italia. De Gennaro lo precede: "De Gennaro" - prosegue Jannuzzi - "prima ancora di consegnargli Buscetta, metterà in guardia Falcone: 'non fidarti di Contrada' - gli dice - 'Buscetta mi ha confidato che Contrada a Palermo è in combutta con Cosa Nostra, in particolare è il confidente del boss Rosario Riccobono'. In realtà, nel corso dei lunghi e riservatissimi interrogatori, Buscetta dirà e farà verbalizzare a Falcone e firmerà il contrario: è Rosario Riccobono il confidente di Contrada e non viceversa, la mafia lo sa o lo sospetta, al punto che nell'ambiente parlano di Riccobono come dello 'sbirro' (e presto lo uccideranno)".

Sarà, infatti, solo molti anni dopo, e dopo l'assassinio di Falcone, che Buscetta, ripescato da De Gennaro negli Stati Uniti, dove Falcone l'aveva spedito dopo il maxiprocesso, ed interrogato dagli “eredi” di Falcone che indagano su Contrada, cambierà radicalmente versione: è Contrada, dirà, che fa il confidente di Riccobono, lo informa delle indagini su di lui e lo avverte in anticipo delle retate predisposte per catturarlo (per verificare ciò basta confrontare i due verbali di interrogatori, firmati da Buscetta a otto anni di distanza). "E' solo un gioco di parole" - scrive ancora Jannuzzi - "uno scambio di ruoli tra il boss e il poliziotto, il soggetto che diventa complemento oggetto e viceversa: ma basterà a fare di Contrada un rinnegato". Richiesto di spiegare perché ha letteralmente ribaltato le sue dichiarazioni, e ha detto a Caselli esattamente il contrario di ciò che aveva detto a Falcone, Buscetta risponde: “Quel verbale del 1984 fu una imposizione di Falcone. Io non volevo farlo, fu lui a costringermi. Il dottor Falcone, che mi aveva sempre interrogato da solo e scriveva personalmente il verbale, quel giorno mi propose di fare assistere all'interrogatorio il commissario Ninni Cassarà. Io rifiutai dicendo che non mi fidavo della Polizia di Palermo, poiché c'erano corruzione e legami con Cosa Nostra: Falcone allora mi chiese di fare i nomi e io di nome in nome arrivai pure a Contrada. Falcone insistette che bisognava verbalizzare. C'era grande tensione e il verbale venne così, era nato male...”. A questo punto gli domandano perché, una volta che era stato costretto a parlarne, non aveva detto a Falcone, relativamente a Bruno Contrada, tutto quello che dirà, otto anni dopo, a Caselli. E Buscetta si giustifica così: “Effettivamente Falcone, che io stimavo, non approfondì l'argomento. C'è stata forse una manchevolezza da parte sua. Si vede che, se manca qualcosa, fu Falcone che non fece le domande...”. Insomma, se Buscetta, allora, non accusò Contrada a Falcone, fu perché il quiz era sbagliato. Non fu il concorrente a sbagliare la domanda finale: fu il presentatore a non porgliela. Falcone, novello Mike Bongiorno, non fece a don Masino la domanda giusta. Otto anni dopo, la domanda giusta gliel'ha fatta Caselli e Buscetta gli ha finalmente risposto a tono, inguaiando Contrada. Davvero mirabile.
"Ignazio D'Antone"
- continua Jannuzzi - "sarà a sua volta punito per essersi permesso di contattare Buscetta in Brasile prima di De Gennaro. Accusato a sua volta di intelligenza con la mafia, processato e condannato in via definitiva ancor prima di Contrada, è già da tempo rinchiuso nel carcere militare dove l'ha appena raggiunto Contrada". Non è un caso che la caduta di Contrada e di D'Antone sia stata pressocchè contemporanea. Due leoni della vecchia guardia della Polizia di Palermo finiti nella polvere. E, con loro, vengono sbattuti nella medesima polvere, anche se in maniera diversa, tutti i loro ex-colleghi, superiori e dipendenti che ne hanno preso le difese. Al contrario di quanto accaduto a Contrada e D'Antone, il carcere di questi ultimi non è fatto di anguste celle e di sbarre. E' fatto di oblio. Non credendo alle loro parole, i giudici hanno mostrato, nella sostanza, una scarsa fiducia in loro. Li hanno ipso facto additati all'opinione pubblica come degli incapaci che non si sono mai accorti di coltivarsi due serpi in seno. E' un fatto grave. Da un lato dovremmo accettare di essere stati tutelati per anni da forze dell'ordine che, in una certa misura, erano formate da corrotti, oppure, dall'altro lato e nella migliore delle ipotesi, dovremmo pensare che la nostra sicurezza è stata affidata a gente non in grado di guardare al di là della punta del proprio naso.
Ma non finisce qui. Ignazio D'Antone viene coinvolto persino nell'oscura vicenda dell'attentato subìto da Falcone nella sua casa dell'Addaura, vicino Palermo, nel 1989. Si insinua che D'Antone, o chi per lui, abbia fatto sparire le prove che l'attentato poteva essere mortale: e l'ombra perversa di questa cappa che sta calando su D'Antone si proietta automaticamente su Contrada, che dello stesso D'Antone è stato il mentore. E' un tentativo di coinvolgere Contrada in qualcosa di ben più grave delle semplici tresche con i confidenti, tentativo che fa il paio con una sinistra escalation che presto raggiunge il livello Charlie: il settimanale L'Espresso comincia a diffondere le voci su un presunto ruolo di Contrada nella fuga dell'imprenditore bresciano Oliviero Tognoli, coinvolto nella pizza connection, e ben presto si fa strada l'accusa, forse, più terribile di tutte, secondo la quale Contrada sarebbe stato presente sulla scena dell'attentato di Via D'Amelio che costò la vita a Paolo Borsellino e alla sua scorta. Tutte accuse rivelatesi false in sede processuale. Ma il meccanismo della calunnia, come lo stesso Contrada avrà a dire in un'intervista televisiva rilasciata nel gennaio 2008, dopo il suo rientro in carcere, era stato messo in moto e, anche contro ogni smentita successiva, avrebbe sortito i suoi tristi e atroci effetti.
"Contrada come il servizio segreto deviato dalla massoneria" - scrive ancora Jannuzzi, fornendo la sua chiave di lettura dell'intera, tentacolare vicenda - "un sistema deviato che, per conto di Giulio Andreotti, lascia ammazzare Falcone e Borsellino e con le stragi distrugge la prima Repubblica, per far posto a Marcello Dell'Utri e a Silvio Berlusconi. Il processo Contrada doveva essere la prova generale del processo Andreotti, un processo ad Andreotti non per associazione mafiosa, come fu, ma per strage e complotto contro la Repubblica". Uno scenario di fantapolitica? Forse. Ma, purtroppo, atrocemente suggestivo. Al di là dei dettagli, che la Storia potrà confermare o smentire, resta il fatto che Bruno Contrada è stato coinvolto in qualcosa di enorme che va addirittura al di là di quanto i suoi carnefici, veri o presunti, possano aver ordito.
E la pallina di neve diventò valanga.

Lo stesso Contrada ne appare consapevole. Già in carcere da alcuni mesi, dirà a Gianluigi Nuzzi, inviato di Panorama: "Il 'pentito' Giuseppe Marchese è quello che parla della mia presunta soffiata a Riina. Ma cambia versione: prima dice che Riina aveva lasciato il suo nascondiglio, la villa di Borgo Molara, perchè temeva agguati nella guerra di mafia, poi cambia versione e dice che fui io ad avvisare Riina. C'era un suggeritore. Marchese era gestito dalla DIA. La mia storia è tutta così. Come nel caso di Marino Mannoia. (...) Questi sono i pentiti. Spesso portatori di menzogne. Spesso manovrati". Quando il giornalista gli chiede se lui accusa la DIA perchè furono proprio gli uomini di Gianni De Gennaro a raccogliere le prove contro di lui, Contrada risponde: "No, dico solo che la DIA era agli inizi della sua formaziona, andando a sovrapporsi con il SISDE dove io lavoravo. La DIA nacque proprio nel momento in cui il SISDE, tramite il sottoscritto, stava attivando un processo di riconversione delle funzioni, all'epoca quasi esclusive, di antiterrorismo politico in funzioni di anticriminalità organizzata. Su sollecitazione del governo, si avviò un programma di riconversione parziale. Io, essendo l'unico alto in grado con esperienza di lotta alla mafia, dovevo costituire dei nuclei anticrimine nei centri SISDE del Sud Italia: Palermo, Catania, Bari, Napoli, Reggio Calabria. Avevo costituito anche un gruppo di lavoro per la cattura di Bernardo Provenzano... Insomma, questa riorganizzazione andava a coincidere con la nascita della DIA, che aveva proprio le stesse funzioni specifiche. (...) Con Gianni De Gennaro non ci fu alcuna questione personale. Con lui ebbi pochissimi rapporti di lavoro quando ero a Palermo e lui a Roma, entrambi a capo delle rispettive Squadre Mobili. Ma non è stata una lotta di persone quanto di organismi. Con De Gennaro io non ho mai avuto nulla da ridire, nè lui ha mai detto niente contro di me". Al giornalista, che sottolinea come i collaboratori di giustizia siano stati fondamentali nella lotta alla mafia, Contrada risponde sicuro: "Infatti non è un problema di pentiti, ma di chi ne ha manovrati in qualche occasione. E poi, per dirla tutta, le prime dichiarazioni di un pentito di mafia le ho raccolte proprio io nel lontano 1973. Erano quelle di Leonardo Vitale, che venne poi ucciso nel 1984".


2. Domanda numero due

Questa domanda è bicefala, come la fiamma di Ulisse e Diomede.

1.

Partiamo, dunque, da "lo maggior corno de la fiamma antica".

Per quale motivo un giudice, anche contro ogni evidenza, ha dato ragione a dei "pentiti" (criminali, estorsori, sfruttatori, assassini) le cui dichiarazioni non hanno trovato riscontri oggettivi, e non a degli uomini dello Stato di comprovata lealtà le cui dichiarazioni, al contrario di quelle dei pentiti, sono state assolutamente convergenti e comprovate da fatti certi ed oggettivi, quali le decine e decine di rapporti di denuncia firmati da Contrada in qualità di dirigente di Polizia Giudiziaria, gli arresti da lui effettuati, le operazioni di polizia condotte con successo e gli encomi ufficiali costantemente ricevuti per il suo operato?
Non ci si rende conto che, in tal senso, dar ragione ai primi (i "pentiti") e torto ai secondi (gli uomini dello Stato) significa dover ammettere che questi ultimi sono stati a loro volta dei doppiogiochisti, o, volendo essere buoni, in possesso delle stesse diottrie di Omero e della stessa capacità auditiva di Beethoven dopo i trent'anni, nonchè della medesima competenza di Bokassa in tema di alta cucina? Insomma, dalle sentenze dei giudici sul caso Contrada, sembra che le vere "talpe" siano state loro: non nel senso di essere stati infiltrati nelle istituzioni per conto di mafiosi e tagliagole vari, ma nel senso che la loro capacità visiva (nonchè la loro perspicacia) sarebbero stati pari allo zero di Kelvin a tal punto da non accorgersi della serpe che si coltivavano in seno.

Il PM Ingroia ha adombrato, in requisitoria, che lui si attendeva questa difesa a ranghi serrati di Contrada da parte di dipendenti, colleghi e superiori, e ciò per una serie di motivi, che analizziamo partitamente:

a) solidarietà di casta. Cosa che, invece, all'interno di una congrega come Cosa Nostra, dalla quale i "pentiti" provengono, non è assolutamente ipotizzabile... Nessuno, in altre parole, ha pensato all'ipotesi che i "pentiti" avrebbero potuto solidarizzare fra loro per farsi giustizia di uno dei loro più ostinati e caparbi nemici come Bruno Contrada.
In buona sostanza, se è vero, come argomenta l'accusa, che i colleghi avrebbero difeso l'imputato per amicizia, perchè gli accusatori non avrebbero potuto accusarlo per odio o per vendetta? Ai fini della corretta valutazione del disinteresse del testimone nel rendere le sue dichiarazioni, è giusto e legittimo criticare i difensori per il loro presunto interesse solidale e apprezzare gli accusatori senza tener conto di un loro presunto interesse antagonista a quello dell'imputato? Interesse contrario che non sarebbe stato soltanto quello della vendetta contro un poliziotto che aveva loro reso la vita difficile per decenni, ma, secondo quanto scrivono gli avvocati Sbacchi e Milio nell'atto di impugnazione in appello della sentenza di primo grado, avrebbe potuto essere anche un "interesse ad aumentare il loro spessore" di "pentiti" (con i relativi benefici previsti dalla legge) in relazione alla loro "capacità accusatoria" ovvero un "interesse a screditare lo Stato" - scrivono ancora i legali - "nel caso in cui (come chiaramente detto per Gaspare Mutolo in questa sentenza) il pentimento non sia nato da una purificazione interna ma sia stato prodotto dai rigori dell'articolo 416 bis";

b) molti colleghi di Contrada, secondo il PM, non potevano essere a conoscenza degli oscuri e subdoli giochi di Contrada perchè "lavoravano lontano da Palermo". Ragionando a contrario su quest'assunto, dovremmo allora concludere che i "pentiti", invece, vivendo e operando a Palermo, sono stati ritenuti in grado di essere a conoscenza in maniera approfondita dei suddetti giochi. Rebus sic stantibus, l'accusa dimostra di non considerare altro che un manipolo di topolini ciechi tantissimi integerrimi funzionari dello Stato che hanno sempre svolto il loro dovere;

c) molti colleghi di Contrada, sempre secondo il PM, non potevano essere a conoscenza della presunta doppia vita di Contrada perchè "ricoprivano ruoli più marginali" o perchè "erano talmente in alto, ai vertici istituzionali, da non poter avere contezza di tutto ciò che accadeva lontano da loro". La seconda argomentazione coincide praticamente con quella trattata nel punto precedente. Concentrandoci sulla prima, invece, possiamo concludere che quest'impianto accusatorio mostra di disconoscere quello che, al contrario, fatti, atti e testimonianze dimostrano essere uno dei capisaldi del lavoro di quella che veniva considerata la "Squadra Mobile più dinamica d'Italia", quella diretta da Bruno Contrada prima e dal suo successore Boris Giuliano poi: ossia la stretta collaborazione di tutti, dal questore all'autista, nonchè quello che Contrada in primis riteneva un punto imprescindibile, vale a dire la cooperazione con le altre forze dell'ordine;

d) altri colleghi di Contrada, invece, secondo il PM sarebbero caduti candidamente nella trappola di inganni preparata dall'imputato. Poveri ingenui. E poveri noi cittadini che per anni siamo stati tutelati da una massa di inetti, incauti e pavidi ignavi;

e) altri ancora, fra i colleghi dell'imputato, gli avrebbero tenuto bordone in quanto soggiogati da una sorta di timore reverenziale o da chissà cos'altro. Anche coloro che hanno dato la vita per lo Stato e che, in base a fatti concreti e non ad illazioni, è stato dimostrato come fossero legati a Contrada da rapporti di amicizia, stima e collaborazione? E gli altri? Svariate decine di poliziotti, carabinieri, finanzieri, alti funzionari e dirigenti che hanno eretto il loro scudo a difesa di Bruno Contrada sarebbero stati da quest'ultimo tenuti tutti in una sorta di ipnotico stato di soggezione? Ci si dimentica, inoltre, di un particolare importante che fa parte dell'enorme mole di informazioni sottaciuta o appena accennata dalla stampa nel corso del processo. La maggior parte dei testimoni della difesa si è presentata ed offerta spontaneamente per difendere Bruno Contrada. Altro che timore reverenziale o soggiogamenti di vario genere...

Dunque, secondo Ingroia, Contrada sarebbe stato talmente machiavellico da buggerare (non uso volutamente un altro termine, certo più greve e crasso) tutti coloro che lavoravano con lui e anche i suoi superiori: le decine e decine di questori, prefetti, generali e alti ufficiali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, direttori del SISDE, Alti Commissari Antimafia, magistrati e, soprattutto, i sottufficiali e gli agenti, che sono quelli che più di altri hanno rischiato in conflitti a fuoco con i criminali, hanno proceduto a massacranti ed ininterrotti appostamenti, hanno trascurato la loro vita personale (il tutto per uno stipendio da Paese sottosviluppato), ringraziano sentitamente per essere stati considerati, se non proprio collusi con coloro contro cui combattevano, quanto meno, nell'ipotesi migliore, una mandria di incompetenti, una nidiata di conigli, per giunta ciechi e sordi...
Perchè è impossibile che un funzionario così in vista come Contrada (dirigente, e non semplice agente, di polizia), per decenni in continuo e stretto contatto con collaboratori diretti (funzionari, sottufficiali e agenti di polizia) ed indiretti (ufficiali e sottufficiali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza) nonchè con magistrati inquirenti e superiori gerarchici quali prefetti e questori, abbia potuto al contempo coltivare stretti rapporti con Cosa Nostra, ovvero con quei nemici che quotidianamente combatteva al fianco dei sopraelencati collaboratori, senza che questi ultimi si accorgessero di nulla.
E poi, se non erano titolati a difendere Contrada coloro che lo conoscevano bene per aver lavorato con lui e per averlo frequentato anche al di là del lavoro, chi avrebbe dovuto testimoniare in suo favore? Il signor Rossi che non ne aveva mai sentito parlare? Ben poco, invece, del Contrada poliziotto e del Contrada uomo conoscevano i suoi accusatori...

Ma l'impostazione dell'accusa è stata accolta dal collegio giudicante di primo grado che, alle pagine 1724 e 1725 delle motivazioni della sentenza, scrive: "le plurime, eterogenee, gravi e concordanti emergenze processuali e la raggiunta prova certa della colpevolezza dell'imputato non sono state in alcun modo incrinate nella loro valenza dimostrativa della fondatezza dell'impianto accusatorio nè dalle testimonianze addotte dalla difesa nè dalle tesi sostenute a sua discolpa dall'imputato. Molte delle deposizioni richieste dalla difesa si sono rivelate, infatti, inattendibili perchè provenienti da indagati o imputati di reato connesso, personalmente interessati a smentire le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Altre sono risultate palesemente mendaci e molte non indifferenti in quanto viziate dagli stabili rapporti di amicizia o di pregressa collaborazione intrattenuti con l'imputato, altre ancora sono apparse del tutto irrilevanti perchè fondate su generici attestati di stima, incapaci di confutare in modo specifico i temi di prova oggetto del processo (...) L'interrogativo inquietante che la difesa sottopone ai signori Giudici dell'Appello è se possa coscientemente dirsi che assicuri una parità di trattamento alle testimonianze una sentenza che, come questa impugnata, dato l'assunto e visti i risultati, privilegi in toto e a priori le propalazioni dei testi dell'accusa, negando valore e significato alle testimonianze acquisite in favore dell'imputato, non solo, come si è vitsto, quando c'è l'appiglio legale dell'imputazione di reato connesso, ma sempre e comunque, col ricorso alle motivazioni più disparate. E, per completezza di discorso, se possa essere considerato un 'rendere conto criticamente e razionalmente della formazione del proprio convincimento' (ai sensi degli artt. 192, comma 1, e 546, lettera e, del Codice di Procedura Penale) una sentenza criticamente e razionalmente articolata all'esaltazione di qualsiasi pur minimo, insignificante, non dimostrato e dichiaratamente tendenzioso elemento di accusa, e al contemporaneo oscuramento di ogni barlume capace di far luce sull'innocenza assoluta dell'imputato e sulla falsità delle propalazioni dei cosiddetti collaboranti".
Ci siano consentite alcune osservazioni:

a) circa le dichiarazioni favorevoli all'imputato provenienti da imputati di reato connesso, a parte il fatto che si è trattato di una parte invero esigua, bisogna chiedersi una cosa, come fanno gli avvocati Sbacchi e Milio nell'atto di impugnazione in appello della sentenza di condanna di primo grado: "a parte ogni altra considerazione sullo scetticismo che può ingenerare una norma che preveda la non utilizzabilità delle testimonianze rese dagli imputati di reato connesso nel caso dovessero essere favorevoli all'imputato, mentre le accredita nel caso dovessero confermare e corroborare l'impianto accusatorio, si ritiene legittimo chiedersi pe quale motivo, nell'udienza del 19 aprile 1994, il Tribunale abbia ammesso l'esame di tutti i testi imputati di reato connesso, mentre avrebbe potuto già a priori escludere i testi imputati di reato connesso richiesti nella lista testimoniale della Difesa, dal momento che già si sapeva della non utilizzabilità delle loro dichiarazioni favorevoli all'imputato". In altre parole, l'imputato di reato connesso e "pentito" Rosario Spatola è credibile quando afferma di aver visto Contrada a cena col boss Riccobono in una inesistente saletta riservata del ristorante Il Delfino di Sferracavallo, mentre gli imputati di reato connesso Rosario e Federico Caro, non "pentiti", non sono credibili quando smentiscono la suddetta accusa di Spatola;

b) secondo i giudici molte dichiarazioni favorevoli all'imputato sarebbero mendaci. Perchè? E perchè non potrebbero essere mendaci dichiarazioni accusatorie provenienti da "pentiti" come Gaspare Mutolo che in precedenza avevano scontato anni di galera per merito di Bruno Contrada? Se tanto mi dà tanto, che bisogno avrei di difendermi in un processo dove, già in partenza, chi mi accusa può essere credibile mentre chi mi difende viene considerato, senza troppe specificazioni, mendace?
Inoltre, i casi sono due, come diceva il buon vecchio Armando Curcio: se i vari capi della Polizia, direttori del SISDE, gli Alti Commissari Antimafia, i Prefetti, i Questori e così via hanno detto la verità, Bruno Contrada è palesemente innocente; se hanno mentito, oltre ad essere rei di falsa testimonianza, potrebbero essere rei di qualcosa di peggio. Ma nessuno li ha mai inquisiti.
"In questo processo" - scrivono gli avvocati Sbacchi e Milio nell'atto di impugnazione in appello della sentenza di primo grado - "si sono scontrate due parole e due credibilità: quella di un pugno di criminali mafiosi che si dichiarano 'pentiti' e quella dei più alti funzionari dello Stato che non hanno nulla di cui vergognarsi e pentirsi, se non del fatto di aver servito fedelmente lo Stato... Quello Stato che l'impugnata sentenza riduce a brandelli. Se il libero convincimento dei giudici si fosse basato su fatti e riscontri incontestabili, nulla da obiettare. Dinanzi alla prova provata non c'è ragion di Stato che tenga. Ma qui si sono viste solo parole contro parole, credibilità precostituita e regalata contro credibilità guadagnata e negata. Ma c'è di più. Mentre dietro le parole di accusa di quel pugno di 'pentiti' non c'è lo straccio di un fatto che il dibattimento abbia avuto modo di accertare e, pertanto, le accuse son rimaste vuote parole, da questa parte, dal lato di Contrada e delle centinaia di testimonianze a suo favore, dietro le parole ci sono i fatti. E ci sia consentito di gridarlo a piena voce, sono impegno, rischi, pericoli, morti, omicidi, stragi... Sono tragici fatti di sangue causati nella gran parte dagli stessi che ora, pur qualificandosi 'pentiti di mafia', hanno l'opportunità di continuare ad essere vincitori. Vinto è lo Stato con quanti lo rappresentano e lo difendono!";

c) il Tribunale considera "generici attestati di stima" altre dichiarazioni favorevoli all'imputato. Sono forse generici attestati di stima le precise e circostanziate testimonianze di un esercito di poliziotti e carabinieri che hanno ricordato i dettagli di tante operazioni concluse con successo sotto la direzione di Bruno Contrada? E provate inconfutabilmente da atti e rapporti di polizia giudiziaria firmati dallo stesso Contrada? Sono forse generici attestati di stima le lacrime versate da più di un collega di Contrada di fronte alla tragica sorte di quest'ultimo? Sono forse generici attestati di stima i tre "NO!" violentemente gridati, a rischio di vilipendio della Corte, dal generale dei Carabinieri Subranni alla domanda se avesse mai avuto notizia di collusioni di Contrada con la mafia? O la veemente reazione, anch'essa a rischio di vilipendio della Corte, dell'ex-ispettore di Polizia Corrado Catalano, messo a confronto con le vaghe accuse del commissario Gentile? O le accorate parole della vedova del commissario Beppe Montana, che ricorda l'aiuto, morale, materiale ed economico, fornitole da Contrada dopo l'omicidio del marito? O le intense parole di Rita Bartoli, vedova del procuratore della Repubblica di Palermo Gaetano Costa, assassinato dalla mafia? O le altrettanto vibranti parole della vedova di Boris Giuliano, pregne di emozione a loro volta nel dipingere con tratto sicuro il più che fraterno rapporto fra il marito e Bruno Contrada? O l'appassionata difesa di Contrada portata avanti dal Capo della Polizia Vincenzo Parisi poco prima di morire o dal questore Epifanio? O ancora le parole di fuoco di tanti colleghi che, con occhi di bragia hanno difeso a oltranza l'imputato?
Non sono generiche, invece, secondo il collegio giudicante, le accuse del "pentito" Gaspare Mutolo, che parla di regalìe che non esistono, del "pentito" Francesco Marino Mannoia, che cambia versione così come il "pentito" Giuseppe Marchese, del "pentito" Pietro Scavuzzo, che parla di anfore, uffici, arazzi, pipe, signore cinquantacinquenni che fanno il caffè e cittadini svizzeri che non esistono, del "pentito" Rosario Spatola, che parla di una fantomatica saletta riservata in un ristorante, o della parrucchiera che parla di presunti sfoghi durante uno shampoo...

2.

Seconda parte della domanda.

Se è già incredibile che i giudici possano aver dato incondizionatamente retta, senza alcun riscontro oggettivo, a dei "pentiti" assassini di professione e in possesso di una miriade di buoni motivi per volersi vendicare di quel Bruno Contrada che aveva reso loro la vita difficile per tanti anni, ancor più stupefacente appare il fatto che ci si possa esser fidati di figure di "pentiti" come quella di Rosario Spatola quale emerge dal racconto del poliziotto Antonio De Luca, il quale, nell'udienza del 28 ottobre 1994, racconta:

DE LUCA - "Nel febbraio 1989 torno, insieme ad Ignazio D'Antone, all'Alto Commissariato Antimafia diretto da Domenico Sica. Io, che ero già stato all'Alto Commissariato Antimafia diretto da Riccardo Boccia dal 1985 al 1987, mi occupo del settore mafia e D'Antone del settore camorra. (...) Agli inizi del 1990, il giudice Borsellino, allora procuratore della Repubblica di Marsala, chiese a Sica di potersi occupare del 'pentito' Rosario Spatola e di proteggerlo, viste le minacce di morte che Spatola aveva ricevuto e dopo l'attentato cui lo stesso era scampato il 5 dicembre 1989. Sica mi girò la cosa e mi disse di farmi una chiacchierata con Spatola per vedere se potevo trarre informazioni utili. Mi occupo della cosa con il maresciallo dei Carabinieri Ciavattini, oggi al SISMI, e Spatola comincia a fornirci notizie sul traffico di stupefacenti a Bologna e a Milano. Parla per cinque o sei giorni e noi ne ricaviamo ventisette pagine di verbale. Io informai di tutto Borsellino, ma mi resi conto che sui fatti e sulle cose di Palermo sapeva solo cose generiche. Un giorno Ciavattini mi riferì di una forte crisi di astinenza da cocaina che Spatola aveva accusato e mi disse che lo stesso Spatola aveva chiesto a noi di procurargli la cocaina di cui aveva bisogno. Io, allora, andai da Sica e gli dissi senza mezzi termini: 'Spatola non ci serve più'. Fui io, dunque, ad interrompere la collaborazione di Spatola, non fu certo Spatola a decidere di non collaborare più."

La testimonianza di De Luca è importante per due motivi:

1) sottolinea che Spatola non conosceva poi così bene i fatti palermitani (dei quali avrebbe parlato qualche tempo dopo accusando Bruno Contrada) e inficia l'attendibilità del "pentito", che era affetto da crisi di astinenza da cocaina. Il fatto di essere arrivato a chiedere agli stessi funzionari dell'Alto Commissariato di procurargli la polvere bianca può o no far sospettare che Spatola avrebbe potuto anche esser determinato a barattare qualunque tipo di informazione con una dose di quella droga di cui aveva disperatamente bisogno?

2) La testimonianza di De Luca definisce, inoltre, con chiarezza e una buona volta, che non fu Spatola a decidere di non collaborare più perchè si sarebbe spaventato vedendo entrare nell'ufficio dell'Alto Commissariato Antimafia Ignazio D'Antone, ma fu lo stesso De Luca a non voler avere più a che fare con un "pentito" che aveva, a parer suo, esaurito le sue informazioni e che poteva rivelarsi inattendibile perchè in preda a crisi di astinenza da cocaina.


3. Domanda numero tre

Un sorriso, delle condoglianze, un consiglio dato ad un funzionario più giovane, dei biglietti per uno spettacolo di cabaret, un'anfora antica che non è mai stata trovata, un antiquario svizzero che non è mai stato identificato, un ufficio con arazzi e pipe appese alle pareti che in realtà non ci sono mai state, una parrucchiera che parla di mafia durante uno shampoo, inesistenti proprietà fondiarie in Uruguay di cui nessuno ha mai sentito parlare.
Sembrano gli elementi del soggetto di un film a metà fra la parodia di un giallo e una commedia di Woody Allen o di Mel Brooks.

E ancora:

  • una "soffiata" su un'operazione di polizia che in realtà non era mai stata organizzata;
  • una cena in una saletta riservata di un ristorante che tutti conoscono e che tutti sanno non esser mai stato dotato di alcuna saletta riservata;
  • patenti rilasciate per intervento di altri (che lo hanno ammesso esplicitamente);
  • porti d'armi mai riottenuti da un boss;
  • il rilascio di un mafioso (sottoposto a fermo di polizia) non per propria volontà ma col parere favorevole del magistrato che guidava l'inchiesta;
  • presunte diffidenze da parte di altri poliziotti o di magistrati, diffidenze smentite da tutti i colleghi e, soprattutto, da atti ben precisi e di natura non obbligatoria bensì discrezionale, come gli encomi che due magistrati hanno liberamente proposto proprio per colui di cui, secondo l'accusa, avrebbero dovuto diffidare;
  • un mafioso che, secondo l'accusa, regala un appartamento a colui che, invece, in realtà, lo aveva appena fatto finire in galera insieme ai suoi cinque fratelli. Un appartamento che, in realtà, era stato costruito da un altro, era di proprietà di altri e da altri era stato affittato;
  • un'automobile di cui non si è mai saputo nulla e che non è mai stata trovata, se non nella memoria di un "pentito".

Proseguendo, ecco interventi di "pentiti" che in questo processo sono stati creduti ma in altri processi non hanno portato alla condanna dell'imputato. Interventi quasi sempre basati sulle dichiarazioni di altri (che sono morti e non possono avallare nè contraddire quanto detto dal "pentito") e confermati non da riscontri "oggettivi" ma soltanto dalle parole "convergenti" di altri "pentiti" (mentre, in altri casi trattati in questo processo, la "convergenza" delle dichiarazioni di più esponenti delle Istituzioni è apparsa non avere lo stesso peso).

E, infine, impressioni, sensazioni, pensieri, stati emotivi, moti dell'animo. Come possono i giudici aver dato credito a dichiarazioni basate su semplici impressioni e opinioni?
Dichiarazioni del tenore di quella rilasciata dal pentito Gioacchino Pennino, il "medico della mafia", che, con aria di estrema vaghezza, riferì che, quando nel 1979 fu interrogato da Contrada in relazione all'omicidio del segretario provinciale della DC palermitana Michele Reina, ebbe "l'impressione che Contrada volesse depistare le indagini". Pennino non è nuovo a dichiarazioni evanescenti. Come risulta da un verbale del 2002 della Commissione Parlamentare Antimafia presieduta da Roberto Centaro, Pennino aveva dichiarato di aver appreso da due fonti che il mandante delle stragi del 1993 (le bombe di via dei Georgofili a Firenze e di via Palestro a Milano) era niente meno che Silvio Berlusconi: le due fonti si rivelarono in seguito essere il dottor Giuseppe Ciaccio e Pinuzzo Marsala, entrambi, manco a dirlo, deceduti.
Dichiarazioni come quella di Laura Iacovoni Cassarà, vedova del commissario Ninni Cassarà, ucciso dalla mafia il 6 agosto 1985: la vedova Cassarà parlò in aula di una presunta diffidenza del marito nei confronti di Contrada ma, richiesta dal PM di essere più precisa, indicò sommariamente un'operazione di polizia (che era già stata trattata nel corso del processo e il cui andamento era stato già chiarito) e poi aggiunse di "non ricordare particolari episodi".
Come può un'accusa reggersi su una semplice "impressione"?
Per non parlare del "sorriso". Non si tratta della pubblicità di un dentifricio o della foto della pin up di turno, ma dell'estensione dei muscoli labiali di Oliviero Tognoli, un imprenditore entrato nel processo Contrada proprio grazie alla sua capacità di sorridere. Ne parleremo nel capitolo dedicato alla vicenda. Per ora vi basti sapere che Bruno Contrada è stato condannato a 10 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa anche grazie al fatto che Tognoli, in un determinato momento, sorrise anzichè, magari, restar serio o digrignare i denti in una smorfia di chissà quale altro significato...


4. Domanda numero quattro

Come mai non ci si rende conto che il cosiddetto principio della "convergenza del molteplice", sancito dalla Corte di Cassazione, è assurdo e pericoloso? In base a questo principio, perchè possa fungere da prova, basta che una dichiarazione sia confermata non necessariamente da un riscontro esterno ed oggettivo ma da altre dichiarazioni convergenti fornite da altri testi che costituiscano un riscontro che diventa dunque "interno" (non si va, cioè, al di là del contenuto della prima dichiarazione) e "soggettivo". Accogliere questo principio significa che chiunque potrebbe convincere due o più testimoni, pentiti o meno che siano, a rilasciare le medesime dichiarazioni, determinando in tal modo l'esito del processo. Inoltre, chi ci garantisce che alcuni fra gli stessi "pentiti", rendendosi conto di avere in mano un'arma formidabile, non possano concordare fra loro in qualche modo versioni accusatorie uniformi? O che non possano effettuare dei depistaggi o delle accuse false?

Citiamo sei argomenti a sostegno della pericolosa ipotesi di depistaggio.

1.

Argomento numero uno. Quella che è passata alla storia come la "sentenza Pellegriti". Nel corso della storia sono sempre state molte le Piche di greca memoria, ossia le donne che si strappavano i capelli e si percuotevano l' "almo petto" di omerica memoria durante le esequie di personaggi più o meno famosi. Delle Piche più moderne non sono mancate, e non mancano neppure adesso, in tutte le cerimonie e le commemorazioni dedicate a due veri eroi dell'antimafia, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Due personaggi degni di essere collocati davvero in un posto d'onore e di spicco non solo nella storia siciliana ma nella storia dell'umanità. Due simboli di indiscusso valore. Due personaggi cui, però, nel corso della loro vita e della loro indefessa opera di giustizia, molti che si sarebbero trasformati in future Piche non hanno lesinato critiche e appunti spesso feroci e sicuramente, per usare un eufemismo, ingenerosi; e le critiche non sono mancate, peraltro, neanche dopo la loro tragica morte, se pensiamo che a Palermo c'è stato anche chi ha osato lamentarsi del fatto che l'aeroporto di Punta Raisi sia stato intitolato a loro. Alcuni di quelli che Leonardo Sciascia ha efficacemente definito i "professionisti dell'antimafia" hanno selvaggiamente censurato la denuncia per calunnia che il giudice istruttore Giovanni Falcone spiccò contro il pentito Giuseppe Pellegriti, che gli aveva fatto il nome di Salvo Lima. Eppure il concetto è semplice, basta applicare correttamente le norme di procedura penale e non lasciarsi avviluppare da quella che, con una delle forzature linguistiche fin troppo tipiche del linguaggio burocratico italico, è stata definita "legislazione emergenziale". Tu, sedicente "pentito", mi fai un nome? Bene. Hai le prove? Bene. Non le hai? Io ti denuncio per calunnia. Persino un bambino si renderebbe conto che Falcone non voleva proteggere Lima, ma aveva semplicemente capito che, aprendo ad un "pentito" un credito indefinito, avrebbe scatenato quel groviglio di serpenti e quell'apeiron anassimandreo che, dopo qualche anno, si sarebbe rivelato essere buona parte dell'impianto processuale costruito sulle accuse dei "pentiti" e sulla "convergenza del molteplice". E questo perchè Falcone era abituato a guardare ben al di là del suo naso.

2.

Argomento numero due. Il 24 settembre 1996, poco tempo dopo l'inizio della collaborazione di Giovanni Brusca, arrestato nel maggio precedente, Gianni De Gennaro, all'epoca capo della Criminalpol Centrale e responsabile del Servizio Centrale di Protezione e del coordinamento degli investigatori che operavano sotto la guida della magistratura inquirente, come viene ricordato nella relazione della seduta del 22 marzo 2000 della Commissione Parlamentare Antimafia presieduta dal senatore socialdemocratico Ottaviano Del Turco, "rappresentò alle agenzie di stampa che nelle dichiarazioni di Brusca potevano essere stati inseriti elementi depistanti". Sempre nella relazione sulla sopracitata seduta della Commissione Parlamentare Antimafia, si legge che l'allora ministro degli Interni (e futuro presidente della Repubblica) Giorgio Napolitano, del Partito Democratico della Sinistra (PDS), "affermò che da parte sua non vi era stata alcuna dissociazione o censura del comportamento del funzionario". Nel caso di Contrada, nessuno ha pensato che i "pentiti" che lo hanno accusato, nonostante le loro dichiarazioni non siano state suffragate da elementi certi (tanto che il sostituto procuratore generale, rappresentante della pubblica accusa, parlò, durante il primo processo di appello, soltanto di "fumus"), abbiano potuto e voluto "depistare"? Magari per vendicarsi di un poliziotto come Bruno Contrada, che più volte aveva perseguito, denunciato e arrestato molti di loro, come vedremo fra poco, nella domanda numero sei.

3.

Argomento numero tre. A fornircelo sono Enrico Bellavia e Salvo Palazzolo, nell'introduzione del loro libro "Mistero di Stato". "Dieci anni dopo, i mafiosi che hanno deciso ed eseguito gli eccidi del 1992 sono in galera." - scrivono i due giornalisti di "Repubblica" - "Non sono loro i beneficiari di quella stagione di sangue e orrore. Se è ormai certo e indubitabile che Cosa Nostra si occupò delle stragi di Palermo e poi di Roma, Firenze e Milano, nel 1993, è abbastanza evidente che Riina, vero artefice della scelta stragista, non ha incassato un solo dividendo da tutta l'impresa. Eppure, quella che sembrava una scelta suicida, che avrebbe portato l'organizzazione mafiosa al tracollo, si è rivelata ugualmente fruttuosa. Dalle ceneri della stagione di sangue e orrore, una nuova mafia, più forte e silente, più abile e più subdola, si è fatta avanti. Detta legge negli affari, si è seduta a tavole più comodamente di prima, prospera nell'ombra e recluta adepti insospettabili. Non uccide, non spara, ma ingrassa. E' la mafia di Bernardo Provenzano. Non Riina, dunque, ma l'organizzazione ha guadagnato molto da quelle stragi. Ha scommesso su un passaggio obbligato, meditando di ricavarne profitto sulla lunga distanza. E in questo tempo di rimozione si è sfiorata persino l'abolizione dell'ergastolo, si torna a parlare con insistenza di una soluziona quasi politica per quegli anni. La chiave per la svolta è in una parola, 'dissociazione'. E' più di un progetto, viaggia in sotterranea, incontra molti favori e poggia pure su un paio di proposte di legge depositate al Parlamento. Il senso è pressappoco questo: 'Dichiari di essere mafioso, ammetti le tue colpe, quelle che la giustizia ti ha già attribuito, e solo quelle. In cambio avrai misure più blande per la detenzione e la possibilità di scalare dagli anni della pena gli sconti previsti dalle leggi premiali'. Ciò che non è detto, ed è la parte più cospicua del contratto, riguarda i patrimoni. 'Conservi i soldi e quel che è stato è stato. Ma noi potremo dire di averti battuto'. Chi avrà la voglia e il tempo di arrivare in fondo al libro, vedrà aleggiare questa cambiale in bianco ad ogni capitolo (questo vale anche per il libro che state leggendo in questo momento, non me ne vogliano Bellavia e Palazzolo se prendo in prestito la loro affermazione, nda). Solo chi meditava di giungere alla presa del potere poteva negoziarla".

4.

Argomento numero quattro. Il 20 gennaio 2000, su richiesta di Bruno Contrada, viene acquisita agli atti del primo processo d'appello a suo carico la videocassetta con la registrazione del programma televisivo Porta a porta, condotto da Bruno Vespa, nel quale Giovanni Mutolo racconta che suo fratello, il "pentito" Gaspare Mutolo, nel maggio del 1994 si sarebbe incontrato con l'altro "pentito" Tommaso Buscetta per concordare con lui le dichiarazioni contro Giulio Andreotti. Il presidente della Seconda Sezione della Corte d'Appello, Gioacchino Agnello, nomina un consulente, Maurizio Sammarco, col compito di verificare la genuinità e l'assenza di manomissioni nella videocassetta. La difesa di Contrada ritiene "interessante" la data del presunto incontro tra i due "pentiti", ossia quel maggio del 1994 che coincide approssimativamente con le deposizioni degli stessi Buscetta e Mutolo nel processo di primo grado a carico dell'ex-capo della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo.

5.

Argomento numero cinque. Il 16 ottobre 1996 il "pentito" Rosario Spatola, uno degli accusatori di Contrada, presenta un esposto al Parlamento in cui sostiene, tra l'altro, che alcuni suoi colleghi "pentiti" abbiano tentato di concordare con altri le versioni da fornire ai giudici, e facendo, in particolare, il nome di Gaspare Mutolo, il quale, durante il processo Contrada, secondo Spatola, si sarebbe incontrato con altri "pentiti" per concordare le accuse da sostenere contro l'ex-capo della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo. Quest'accusa di Spatola è praticamente caduta nel vuoto, anzi gli ha fruttato un'incriminazione per calunnia. Ne parleremo nella domanda numero 16.

6.

Giuseppe Giuca e Calogero Pulci, due mafiosi originari di Sommatino, in provincia di Caltanissetta, finiscono sotto processo a Catania per calunnia nei confronti di Bruno Contrada. Ammettono entrambi di aver detto delle menzogne sul conto dell'ex-capo della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo. Calogero Pulci verrà arrestato per altri motivi il 16 luglio 2007. Nei comunicati dell'ANSA e in alcuni telegiornali Pulci viene definito "un importante teste nei processi di mafia e nel processo sulla strage di Capaci"

Sei argomenti per arrivare ad un'unica, ovvia conclusione. Cioè che il principio della "convergenza del molteplice" non rappresenta uno strumento infallibile. Appare di tutta evidenza che tale principio non può essere un'arbitraria estensione del principio secondo cui quae singula non probant simul unita probant (ciò che non viene dimostrato da una singola prova viene dimostrato da più prove insieme). Ciò perchè è vero che, in generale, più prove concordanti possono formare un convincimento, ma devono essere prove certe e non indizi. E in più, non usando la giusta cautela, si potrebbe arrivare alla paradossale conclusione secondo cui due o più prove inattendibili (o non con certezza attendibili, e quindi non valutabili), se considerate congiuntamente potrebbero giustificare la condanna di un individuo: laddove la valutazione globale delle prove fungerebbe da sanatoria dell'inattendibilità delle singole prove.
Sarebbe meglio seguire la lezione degli antichi e basarsi, invece, sull'elemento ben più certo del "riscontro esterno" o "oggettivo" (se Aulo Agerio accusa Numerio Negidio di aver rubato ed occultato un tesoro, o si ritrova almeno un sesterzio oppure, a livello processuale, l'accusa non può reggere: l'habeas corpus ad subiciendum, di cui parlò per primo il Parlamento inglese già nel 1679...).


5. Domanda numero cinque

AVVOCATO SBACCHI - "Ma del dottor Contrada, di diretto, che cosa le consta? Direttamente, intendo, quello che consta a lei."

MUTOLO - "A me niente."

PRESIDENTE INGARGIOLA - "Lei che cosa sa del dottor Contrada? Che cosa sa personalmente del dottor Contrada? Direttamente che cosa sa?"

MUTOLO - "Io so del Cancemi Salvatore che ha fatto degli omicidi..."

PRESIDENTE INGARGIOLA - "No, parliamo... Lasci stare il Cancemi... Parliamo di Contrada."

MUTOLO - "Del dottore Contrada io l'ho detto quello che so. E' quello che mi ha riferito il Riccobono Rosario."

Così il "pentito" Gaspare Mutolo si esprimeva, nel suo italiano stentato, nell'udienza del 7 giugno 1994, ribadendo di non saper nulla e, dunque, di non poter dire nulla sul conto di Bruno Contrada per cognizione diretta e personale: tutto ciò che ha detto sul conto dell'ex-capo della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo, Mutolo lo ha saputo da altre persone. Morte. Come Rosario Riccobono, strangolato dai "corleonesi" nel 1982.
Ma Mutolo non è il solo relatore delle anime dei morti. Giuseppe Marchese avrebbe ricevuto la presunta "soffiata" di Contrada per Riina da suo zio Filippo Marchese, anch'egli ingoiato dalla guerra di mafia dei primi anni '80. Tommaso Buscetta avrebbe saputo da Stefano Bontade che Rosario Riccobono era amico di Bruno Contrada: Bontade era già morto quando, il 18 settembre 1984, don Masino fece una prima volta questa asserzione al sostituto procuratore della Repubblica di Palermo Vincenzo Geraci (da queste dichiarazioni di Buscetta sortì un'inchiesta archiviata con ordinanza del 7 marzo 1985 dal consigliere istruttore Antonino Caponnetto), e, ovviamente, non era resuscitato quando Buscetta ripetè la stessa cosa nel 1992.

Come non ritenere strano che le accuse dei pentiti si basano tutte sulla stessa falsariga del "sentito dire da altri" (la cosiddetta testimonianza de relato) e che questi "altri" erano sempre persone che all'epoca delle testimonianze erano già morte e non potevano dunque confermare o smentire quanto dichiarato dai pentiti? E lo stesso dicasi per la presunta "diffidenza" nei confronti di Contrada che alcuni testimoni, non rientranti nell'eletta cerchia dei "pentiti", hanno messo in bocca, nell'ordine, a Boris Giuliano, Giovanni Falcone, Ninni Cassarà, Giuseppe Montana e Vincenzo Immordino: anche questi cinque morti da tempo.
Le uniche volte che gli accusatori hanno chiamato in causa persone vive e vegete, queste ultime li hanno smentiti clamorosamente. E' il caso, fra gli altri, di Rosario Caro nei confronti di Rosario Spatola, dell'avvocato Cristoforo Fileccia nei confronti di Gaspare Mutolo, dei tre compagni di cella Vincenzo Spadaro, Cosimo Vernengo e Pietro Scarpisi nei confronti di Gaetano Costa (quest'ultimo solo accidentalmente omonimo del procuratore della Repubblica di Palermo ucciso il 6 agosto 1980), del prefetto Angelo Finocchiaro, che ha ribadito di essersi sempre fidato ciecamente di Bruno Contrada. Quando hanno avuto la possibilità di parlare, in quanto ancora vivi, coloro che sono stati chiamati in causa dal gruppo di accusatori hanno sempre fornito una versione diametralmente opposta. I morti, ovviamente, non sono dotati della stessa capacità di parlare e di farsi ascoltare.
Un processo dove hanno parlato i defunti. Mancava soltanto il medium...


6. Domanda numero sei

Come mai non ci si rende conto che molti dei pentiti che hanno parlato, oltre al fatto di essere dei conclamati delinquenti e dunque persone di acclarata inaffidabilità, protagonisti speso di faide all'interno della loro stessa cosca mafiosa, avevano delle forti motivazioni per vendicarsi di un funzionario di Polizia come Bruno Contrada, che più volte li aveva denunciati ed arrestati? E' il caso di Gaspare Mutolo, ad esempio, del quale abbiamo visto come lo stesso cognato, Vincenzo De Caro, a sua volta pentito, abbia detto a chiare lettere che "ce l'aveva a morte con Contrada" e per questo motivo, nel 1979, il boss Rosario Riccobono (proprio il presunto "amico" di Contrada...) aveva pensato di organizzare l'omicidio di Contrada facendo ricadere la colpa sullo stesso Mutolo. Giova, in tal senso, anche ricordare che Mutolo, dopo essere stato arrestato da Contrada per l'omicidio dell'agente della Squadra Mobile Gaetano Cappiello, si vide rompere in testa dallo stesso Contrada un quadretto con la foto dell'agente ucciso.

Non è l'unico caso in cui i "pentiti" avrebbero validi motivi per compiere, usando dichiarazioni in sede processuale e non caricatori e grilletti, le loro vendette personali.
E' utile ricordare che Gaspare Mutolo, grande accusatore di Contrada, ha accusato di collusione con la mafia anche Domenico Signorino, sostituto procuratore della Repubblica di Palermo che è stato PM al primo maxiprocesso contro le cosche nel 1986 ma che era stato anche PM nel processo del 1976 che portò Mutolo (denunciato da Contrada) in galera. Mutolo ha poi accusato di intrattenere rapporti con Cosa Nostra anche i giudici Aiello, D'Antone, Barreca e Mollica, ossia i giudici che lo condannarono in Corte d'Assise ed in Corte d'Assise d'Appello, nonchè l'ex-presidente della Corte d'Appello di Palermo Carmelo Conti.
Giulio Andreotti, inquisito con la medesima accusa formulata a Contrada, ossia concorso esterno in associazione mafiosa (poi mutata in associazione mafiosa) e giudicato in primo grado dalla stessa V sezione penale del Tribunale di Palermo (anche in questo caso Francesco Ingargiola è il presidente e Salvatore Barresi uno dei due giudici a latere: come secondo
giudice a latere in questo caso c'è Antonio Balsamo invece di Donatella Puleo), così commenta, il 27 marzo 1993, la richiesta di autorizzazione a procedere nei suoi confronti, inviata quello stesso giorno al Senato dalla Procura di Palermo: "Accusare me di mafia è paradossale. Come governo, e anche in prima persona, ho adottato contro i mafiosi duri provvedimenti e proposto leggi severissime ed efficaci. Dovevo attendermi la loro vendetta e, in un certo senso, è meglio così che con la lupara".
Dello stesso tono le dichiarazioni dell' "aspirante pentito" Giuseppe Lipari che, nel marzo del 2003, in pieno processo d'appello a carico di Andreotti, scagiona il senatore a vita e dichiara: "Andreotti era contro Cosa nostra, per questo è stato punito con un complotto". Lipari viene ritenuto "inattendibile" dalla Procura Generale, rappresentante della pubblica accusa in appello.


7. Domanda numero sette

Bruno Contrada ha guidato, diretto, coordinato e realizzato una vastissima ed articolata attività investigativa ai danni della cosca di Rosario Riccobono. I relativi rapporti di denuncia e gli altri atti di polizia giudiziaria in materia sono stati acquisiti agli atti del processo: li elencheremo e li analizzeremo nei dettagli in un successivo capitolo. In quella sede, riporteremo anche quello che qui ci preme, in prima istanza, sottolineare, e cioè come i giudici di primo grado hanno considerato l'attività d'indagine di Contrada contro Riccobono, che tipo di valenza hanno ad essa attribuito, come sono riusciti a spiegarla in una maniera che, francamente, lascia quanto meno perplessi. A questo proposito, a pagina 745 delle motivazioni della sentenza di condanna di primo grado, si legge, infatti:
"D'altra parte, deve considerarsi che, per il ruolo di grande prestigio ricoperto, il dottore Contrada, all'epoca dirigente della Squadra Mobile, non solo non poteva rischiare di ingenerare sospetti presso i suoi superiori e i propri collaboratori, ma doveva mantenere un'immagine di funzionario impegnato nella lotta ai mafiosi anche per conservare un ruolo di centralità che gli consentisse di rimanere al centro del flusso delle informazioni 'importanti'. Certo, è impensabile che un dirigente di tale livello potesse omettere rapporti di denuncia per favorire i mafiosi, tanto più se necessitati da spunti investigativi e da operazioni condotte personalmente da altri funzionari, perchè un tale atteggiamento avrebbe immediatamente svelato il proprio doppio ruolo; ciò che l'organizzazione criminale poteva pretendere era, piuttosto, una 'copertura' delle latitanze dei personaggi più importanti... il passaggio di notizie funzionali a limitare i danni".
Riporteremo ancora una volta, più in là, queste parole. Rifaremo nuovamente le considerazioni che stiamo per fare adesso. Ma c'è qualcosa da sottolineare immediatamente. Traslando quanto abbiamo appena letto dall'àmbito giuridico a quello della logica, ci sembra di capire quanto segue: Bruno Contrada avrebbe agito radicalmente e instancabilmente contro i mafiosi per meglio favorire i mafiosi stessi. Sembra strano. E se il redigere quei rapporti di denuncia non lo scagiona dall'accusa di amicizie pericolose, nell'ipotesi in cui quei rapporti non fossero mai stati scritti, o non fossero venuti alla luce come prova difensiva, di cosa sarebbe stato accusato? Di far parte direttamente della cosca di Riccobono?
Sono semplici domande. Non ce ne voglia chi la pensa diversamente da noi. Domande. Dubbi. Il dubbio è fonte di conoscenza. E un dubbio si affaccia alla mente. Se una sentenza può contenere le affermazioni sopra riportate, dovremmo concludere, a rigor di termini, che difendersi in una sede processuale dimostrando di aver fatto il proprio dovere può non essere esiziale.


8. Domanda numero otto

Per quale motivo i giudici non si sono insospettiti di fronte al cambiamento di versione operato nella fase istruttoria del processo Contrada dal "pentito" Giuseppe Marchese?
A Marchese è servito un mese. Un solo mese, dal 2 ottobre al 4 novembre 1992, per modificare quanto aveva dichiarato sulla fuga di Totò Riina dal suo covo di Borgo Molara e coinvolgere in questa vicenda Bruno Contrada. Come mai il 2 ottobre la memoria del "pentito" non aveva funzionato? Non si scordano facilmente particolari come l'aiuto ricevuto dai vertici della Polizia. A meno che questi aiuti non ci siano mai stati e, improvvisamente, qualcuno abbia deciso che, invece, "dovevano" esserci stati.
Altra piccola domanda nella domanda. Come mai, tanto per cambiare, Marchese, dopo il suo repentino cambiamento di versione, non è stato denunciato per falsa testimonianza?


9. Domanda numero nove

Perchè i giudici non hanno nemmeno inarcato un sopracciglio quando si è scoperto l'occultamento dei primi due verbali di interrogatorio in cui il pentito Francesco Marino Mannoia dichiarava di non sapere nulla su eventuali rapporti di Contrada con Cosa Nostra? Il 2 aprile 1993 il procuratore capo della Repubblica di Caltanissetta Giovanni Tinebra, insieme ai due sostituti Carmelo Petralia e Ilda Boccassini (che indagavano sulle stragi Falcone e Borsellino) volarono negli Stati Uniti, dove Mannoia era detenuto, e, incidentalmente, chiesero a Mannoia se sapeva qualcosa su Contrada. Il giorno dopo, 3 aprile 1993, a recarsi negli Stati Uniti per interrogare Mannoia furono invece i magistrati inquirenti palermitani (che indagavano sull'omicidio di Salvo Lima). Mannoia dichiarò testualmente in entrambi i casi, come risulta dai due verbali: "Non ricordo di aver mai conosciuto il dottor Bruno Contrada… né ricordo di aver mai sentito parlare dello stesso come persona legata o comunque vicina a Cosa Nostra. Ricordo solo di aver sentito nominare il dottore Contrada come componente dell’apparato della Polizia che lavorava a Palermo". I due verbali vennero fuori in due occasioni diverse: quello del 3 aprile 1993, con le dichiarazioni rese ai magistrati palermitani, emerse soltanto grazie ad una domanda fatta al "pentito" dall'avvocato Pietro Milio (su suggerimento dello stesso Contrada) nell'udienza del 29 novembre 1994; il verbale del 2 aprile 1993, con le dichiarazioni rese ai magistrati nisseni, sbucò, invece, dai cassetti del Palazzo di Giustizia di Caltanissetta, stranamente soltanto dopo la sentenza di primo grado e solo perchè (a quanto pare) fu trovato per caso da un avvocato. Dopo aver dichiarato così esplicitamente di non sapere nulla di Contrada, Mannoia cambiò improvvisamente versione e il 27 gennaio 1994 confermò nella sostanza le dichiarazioni del suo collega "pentito" Gaspare Mutolo ed accusò Contrada...
Richiestagli una spiegazione sul perchè la pubblica accusa avesse tenuto nascosto il verbale d'interrogatorio di Mannoia del 3 aprile 1993, dove il pentito affermava di non sapere nulla sul conto di Contrada, il PM Antonino Ingroia ha risposto: "In dibattimento portiamo solo quello che è conducente all'accusa". Ma l'art. 358 del codice di procedura penale, per inciso, non recita testualmente: "Il pubblico ministero compie ogni attività necessaria ai fini indicati nell'art. 326 e svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini"?


10. Domanda numero dieci

Perchè nessuno si è stupito delle contraddizioni emergenti in maniera palese dal raffronto fra i vari racconti fatti dai "pentiti"? Queste sì, le contraddizioni intendo, avrebbero dovuto formare oggetto di una "convergenza del molteplice" in senso contrario: se più affermazioni dello stesso senso portano, secondo la legge, ad un avallo della tesi in discussione, allora anche più contraddizioni (che, scusate il bisticcio, sono la negazione di un'affermazione) devono portare ad un rigetto della tesi proposta. Confrontando i vari tasselli del perverso mosaico disegnato contro Bruno Contrada, le tessere fra loro non si incastrano. Ma chi è rimasto incastrato senza un motivo certo è stato Contrada.
Un esempio per tutti. Tommaso Buscetta, il 18 settembre 1984,
dichiara al sostituto procuratore della Repubblica di Palermo Vincenzo Geraci che il suo "collega" Stefano Bontade (ovviamente già morto) gli aveva detto che il boss Rosario Riccobono (anch'egli morto) era amico di Bruno Contrada: come spiegato in altra parte di questo libro, la susseguente inchiesta giudiziaria accerta l'instancabile e quasi "feroce" attività persecutoria di Contrada contro Riccobono e i suoi uomini (provata da decine di rapporti di denuncia) e si conclude perciò con l'archiviazione (ordinanza del 7 marzo 1985 a firma del consigliere istruttore Antonino Caponnetto, notificata a Contrada con un biglietto di rinnovata stima firmato dallo stesso Caponnetto, biglietto che è stato acquisito agli atti del processo Contrada). Il 25 novembre 1992 Buscetta reitera la stessa accusa, aggiungendo però che il presunto rapporto tra Contrada e Riccobono era malvisto dagli altri capimafia. Ma gli altri due "pentiti" Gaspare Mutolo e Giuseppe Marchese non avevano detto che Contrada era amico anche di altri boss? E se questi altri boss, come sostiene Buscetta, non vedevano di buon occhio che Riccobono fosse amico del poliziotto Contrada, potevano, logicamente, essere loro stessi amici di quel poliziotto?


11. Domanda numero undici

Contrada è stato accusato di essere amico del boss di Partanna Mondello Rosario Riccobono. Il giudice Francesco Ingargiola, presidente della V sezione penale del Tribunale di Palermo, lo ha condannato per questo a 10 anni di carcere. Ma Bruno Contrada ha condotto innumerevoli indagini e firmato decine di rapporti giudiziari di denuncia contro Riccobono e gli uomini della sua cosca. Proprio sulla base di questi rapporti, nel 1977 Riccobono (contumace in quanto latitante) e molti suoi sgherri furono giudicati dalla Corte d'Assise di Palermo. Il 23 aprile 1977 il presidente Agrifoglio li assolse: suo giudice a latere, e in quanto tale estensore della sentenza, era proprio Francesco Ingargiola.
Il ragionamento che si impone è il seguente: come può Ingargiola condannare Contrada (che denunciò Riccobono e i suoi) per essere amico di quello stesso Riccobono che lui (Ingargiola) assolse? Se dovessimo procedere secondo la cultura del sospetto che inquina l'Italia fin dalle viscere, cosa dovremmo pensare? Che, se quel Contrada che denunciò Riccobono era lo stesso Contrada che l'accusa vuole a tutti i costi inquadrare come amico del boss, allora che rapporti dovrebbe avere col medesimo boss il giudice che lo assolse? Dovrebbe esserne come minimo il fratello...

Le parole dello stesso Bruno Contrada sull'argomento (tratte da una sua intervista rilasciata a Dimitri Buffa per La Padania) denunciano in maniera ancor più icastica l'assurdità del tutto:

"Per quanto mi riguarda, il peggiore oltraggio che ho dovuto subire dalla magistratura di Palermo è stato il fatto di venire giudicato da una corte che in primo grado aveva un presidente, Francesco Ingargiola, il quale mi ha condannato per la mia presunta amicizia con alcuni mafiosi (tra cui il famoso Saro Riccobono, morto nel 1982) per i quali, nel 1977, lo stesso Ingargiola scrisse una sentenza di assoluzione non riconoscendoli mafiosi e vanificando anni di indagini compiute da me insieme al compianto Boris Giuliano per portarli in manette davanti a una corte. Ora io mi chiedo: che era successo in quegli anni per fare in modo che le persone assolte da Ingargiola diventassero i sicuri mafiosi con cui io intrattenevo rapporti? E diventassero anche la prova vivente contro di me in una sentenza estesa dallo stesso Ingargiola?"


12. Domanda numero dodici

Il "pentito" Gaspare Mutolo sostiene che Contrada "era a disposizione dei capi più importanti di Cosa Nostra, tra i quali Inzerillo, Michele Greco, Riina" e aggiunge che li avrebbe incontrati personalmente. In altre parole, Mutolo sostiene che, mentre i boss mafiosi si ammazzavano tra loro nella più impressionante guerra di mafia che abbia mai insanguinato Palermo, uno dei volti istituzionali più in vista della città, Bruno Contrada, avrebbe incontrato ora l'uno ora l'altro capomafia in luoghi pubblici o privati. Ma nessuno, poliziotto o meno, avrebbe potuto fare una cosa del genere in quel clima di guerra senza quartiere, perchè farla avrebbe significato sicuramente farsi ammazzare, in quanto le famiglie mafiose in lotta si cercavano l'un l'altra per attirarsi in tranelli e agguati e per uccidersi. Come sarebbe stato possibile che Contrada, per anni conosciutissimo dirigente di Polizia Giudiziaria e "superpoliziotto" esposto nella lotta alla mafia, una volta passato al nemico (come sostiene l'accusa) fosse riuscito a barcamenarsi non solo fra Stato e mafia, ma fra schieramenti ferocemente contrapposti all'interno della mafia stessa, per di più in un momento così folle e cruento come la seconda guerra di mafia dei primi anni '80, senza mai essere individuato, scoperto, colpito da una parte o dall'altra? Contrada avrebbe davvero potuto aiutare, nello stesso momento così caotico e rifuggente da ogni logica, capimafia così insanabilmente contrapposti come Stefano Bontade e Totò Riina, o avere rapporti contestuali sia con Riccobono ed Inzerillo da un lato e con la famiglia Marchese (che quei Riccobono e Inzerillo andava progressivamente eliminando dalla faccia della terra insieme ad altri raccomandabili soggetti) dall'altro, senza che una pallottola vagante degli uni o degli altri, accortisi dei favori contemporaneamente resi da Contrada ai loro nemici, raggiungesse questo poliziotto così sprovveduto e disorientato da non rendersi conto di arrampicarsi su muri totalmente lisci? In altre parole: Riina è nemico di Riccobono e Bontade e li fa uccidere spietatamente entrambi; secondo l'accusa Contrada, mentre serviva lo Stato e faceva arrestare mafiosi di varia schiatta, estrazione e cosca, sia dalla parte dei cosiddetti "mafiosi perdenti" sia dalla parte dei "vincenti", colpendo così entrambi gli schieramenti, è stato al contempo amico e favoreggiatore sia dei "perdenti" Riccobono e Bontade, sia del "vincente" Riina. E mentre, in quella feroce stagione di piombo, altri cadevano a decine, sul fronte della mafia e dell'antimafia, lui è stato l'unico ad uscire indenne da quel fuoco incrociato di proiettili, "incaprettamenti" e "lupare bianche" e a farla franca.
Siamo seri. Nemmeno Superman...


13. Domanda numero tredici

Il giudice Salvatore Scaduti, presidente della I sezione penale della Corte d'Appello di Palermo, ha pronunciato la sentenza di condanna con cui si è concluso il secondo processo d'appello. In realtà, si sarebbe dovuto astenere. Non tanto perché è il cognato di Ignazio De Francisci, vale a dire quel magistrato che pubblicamente affermò che finché Contrada fosse stato libero vi sarebbero state le stragi, quanto perché ha giudicato Bruno Contrada due volte, peraltro allo stesso modo, stante l’incompatibilità. L'1 ottobre 1993, infatti, Scaduti presiedeva il Tribunale del Riesame che rigettò la richiesta di scarcerazione di Contrada (in carcere già da quasi un anno) sposando acriticamente la decisione del GIP Sergio La Commare, basata esclusivamente sui pentiti, e continuando a ravvisare inesistenti pericoli di fuga dell’imputato. Per il codice il doppio giudizio del medesimo giudice nell'àmbito di un unico procedimento rappresenta un chiaro caso di incompatibilità. Scaduti si sarebbe dovuto astenere a prescindere dall’eventuale ricusazione - che pure non c’è stata - da parte degli avvocati Milio e Sbacchi. Questo anche per dare un senso alla raccomandazione dell'allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi sui magistrati che devono essere, e apparire, imparziali. La Corte Costituzionale, con sentenza 131 del 24 aprile 1996, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 34 comma 2 del codice di procedura penale nella parte in cui non prevede l'impossibilità di partecipare al giudizio da parte del componente del Tribunale del Riesame che si sia pronunciato su un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti del medesimo imputato. Com’è stato possibile, allora, che Scaduti abbia praticamente giudicato Contrada per due volte, in barba a quanto stabilito dalla Corte Costituzionale?


14. Domanda numero quattordici

La volubilità dell'animo umano è un dato assodato fin dai primordi della vita su questo pianeta. Essa è stata spesso fonte di comportamenti contraddittori, e penso che tutti, prima o poi, ci siamo imbattuti in situazioni del genere o ne siamo stati addirittura protagonisti. Ma quando le contraddizioni riguardano la sfera di un processo penale, certamente sorge qualche problema in più, soprattutto se la dicotomia si ammanta di una bella toga da PM o da giudice e del relativo "tocco". Tante sono le contraddizioni del processo Contrada che hanno ucciso la logica e il buon senso più di mille sciabole. Evidenziamone altre due (le ennesime).

1.
Alla fine del primo processo d'appello, il procuratore generale (rappresentante della pubblica accusa in appello) fa, nella sua requisitoria, due importantissime affermazioni:

"Bruno Contrada è stato il miglior poliziotto che Palermo abbia mai avuto".

"Le prove raccolte sulla sua colpevolezza sono solo a livello di
fumus".

Due affermazioni nette, precise. Chiunque penserebbe che siano propedeutiche ad una richiesta di assoluzione. E invece, in una improbabilissima "armonia degli opposti" (ci perdoni il saggio Eraclito per averlo coinvolto in qualcosa che con tutto ha a che fare tranne che con la saggezza e la filosofia), lo stesso procuratore generale termina la sua requisitoria chiedendo la conferma della condanna a 10 anni di carcere inflitta all'imputato in primo grado.
Perchè?
L'enigma della Sfinge è un giochino da ragazzi al confronto.

2.
Il primo processo d'appello si concluse, comunque, con l'assoluzione di Contrada. Segno che il collegio giudicante aveva dato peso alle due affermazioni del procuratore generale sopra riportate in corsivo. La Procura di Palermo presentò ricorso in Cassazione. Alla fine del primo ricorso in Cassazione, il procuratore generale (rappresentante della pubblica accusa davanti alla Corte Suprema), pur delineando leggere ombre e sospetti, tracciò un bilancio assolutamente positivo e altamente qualificante della trentennale attività di Bruno Contrada contro la mafia e la criminalità in genere, e chiese la conferma in via definitiva della sentenza di assoluzione emanata dalla Corte d'Appello.
In mezz'ora di camera di consiglio, la Corte di Cassazione rigettò la richiesta del procuratore generale, annullò la sentenza di assoluzione in appello e dispose un nuovo giudizio di rinvio davanti al giudice di merito...


15. Domanda numero quindici

Perchè qualcuno ha sentito l'esigenza di parlare di una fantomatica presenza di Bruno Contrada in via Mariano D'Amelio sùbito dopo l'esplosione della FIAT 126 che uccise il giudice Borsellino e gli uomini della sua scorta? Perchè ha aggiunto, addirittura, che Contrada fu identificato da una volante della Polizia e si spinse fino ad intimidire i due agenti perchè non rivelassero di averlo visto lì in quel momento? Perchè , soprattutto, il regista Giuseppe Ferrara ha sentito il dovere di inserire questo falso episodio, con la medesima dovizia di particolari inventati di sana pianta, in un film, "Giovanni Falcone", da lui dedicato a Falcone e Borsellino, venendo costretto dalla querela degli avvocati di Contrada a togliere il nome dello stesso Contrada (nel film chiamato semplicemente "il dottore") ma utilizzando un attore truccato e vestito in modo tale da somigliare inequivocabilmente a Bruno Contrada? In quel film Ferrara usa un altro ignobile trucco scenico: Falcone sogna la Morte, con tanto di mantello nero e falce, e, qualche giorno dopo, descrivendo una fantomatica visita di Contrada a Falcone (allora Direttore degli Affari Penali al Ministero di Grazia e Giustizia), il regista tenta di descrivere il disagio di Falcone miscelando sapientemente il volto della Nera Signora con la Falce, che Falcone aveva sognato, con il volto dell'attore che interpreta Bruno Contrada. Ma nemmeno in una telenovela... Per inciso, il tribunale di Roma ha condannato Giuseppe Ferrara, stabilendo che il suo era solo fango diffamatorio, e lo ha condannato a pagare una provvisionale di risarcimento di 200 milioni: Giuseppe Ferrara si è dichiarato disposto a pagarne solo cinquanta. Avrebbe dovuto dichiararsi disposto ad ammettere di aver girato il suo film sulla base di quanto scritto sull'atto di accusa a Bruno Contrada, e non (come dovrebbe essere nella normalità dei casi) sulla base di una verità storica, assodata ed accertata.
Una verità che è risultata essere ben diversa. Non è vero, infatti, che Contrada si trovava in via D'Amelio già pochi minuti dopo l'attentato (addirittura 80 secondi dopo, come ha detto qualcuno!). Certo, a meno che non avesse posseduto i poteri di teletrasporto di Lockjaw, il cane degli Inumani, o di Nightcrawler degli X-Men... Poichè, infatti, Bruno Contrada, in quel tragico momento, si trovava in alto mare, in barca, insieme al suo amico e commerciante di abbigliamento Gianni Valentino, al collega funzionario del SISDE Lorenzo Narracci, insieme ad altre undici persone, tra i quali il capitano dei Carabinieri Paolo Zanaroli, e tutti costoro lo hanno confermato in udienza. Stranamente, due ufficiali dei carabinieri, il capitano Umberto Sinico e il capitano Del Sole, avevano dichiarato che una "fonte segreta" aveva loro rivelato che Contrada era stato fermato ed identificato in via D'Amelio dalla prima volante della Polizia giunta sul luogo della strage: non trovandosi la relazione di servizio degli agenti della volante in merito (non si potè trovare perchè non è mai esistita!), l'accusa (e Sinico e Del Sole) non trovarono nulla di meglio che insinuare che, certo, "la relazione di servizio era sùbito scomparsa dalla Questura di Palermo" e "gli uomini della volante erano stati minacciati e intimiditi da Contrada". Contrada denuncia, allora, i due ufficiali alla Procura di Caltanissetta e costoro sono costretti a rivelare il nome della loro fonte segreta, ossia il funzionario della Squadra Mobile di Palermo Alberto Diligami. Diligami cade letteralmente dalle nuvole e dichiara testualmente che "i due carabinieri devono essere usciti fuori di cervello!". A questo punto, lo stesso Diligami viene, ovviamente, processato per false dichiarazioni al pubblico ministero, ma viene assolto con formula piena. Sinico e Del Sole sono stati promossi e spediti al SISDE con il grado di colonnello...

Leggiamo quanto dichiarato da Contrada in udienza: "Girò la voce di due ufficiali dei carabinieri che avevano riferito a un PM che io ero stato visto in via D'Amelio, immediatamente dopo l'esplosione della bomba, ed ero stato identificato da una volante della polizia. Bene. Io, quel 19 luglio 1992, a quell'ora, non ero in via D'Amelio. Non ero neppure sulla terraferma, perché mi trovavo in alto mare, sulla barca di un amico, con altre 11 persone (compresi un collega del SISDE e due ufficiali dell'Arma dei Carabinieri) che l'hanno confermato in questo processo!". Anni dopo, in un'intervista a Gian Marco Chiocci de "Il Giornale", Contrada ribadirà: "Questa bugia è durata anni ed è passata anche nel film di Giuseppe Ferrara con un attore mio sosia. Fu un tentativo di coinvolgere i Servizi Segreti, parlando di depistaggi inesistenti, tirando in ballo l'unica persona che si sapeva appartenere al Sisde, cioè io. Ci hanno provato anche con Mori e Ultimo. E adesso ci risiamo...".

Ricordiamo, a questo proposito, che il generale Mario Mori, all'epoca capo del ROS, Raggruppamento Operativo Speciale dei Carabinieri, ed il capitano "Ultimo", al secolo Sergio De Caprio, altro ufficiale del ROS, che coordinarono ed eseguirono l'operazione che portò all'arresto di Totò Riina a Palermo il 15 gennaio 1993, sono finiti sotto processo nel 1997 per il "mistero" della mancata perquisizione immediata della casa di Riina in via Bernini, vicino al luogo dove avvenne l'arresto. Mori (frattanto nominato direttore del SISDE) e "Ultimo" (nel frattempo divenuto tenente colonnello e passato ufficialmente in forza ai NAS, ovvero i Nuclei Anti-Sofisticazione dell'Arma dei Carabinieri) vennero poi assolti, il 20 febbraio 2006, perchè "il fatto non costituisce reato" e sarebbe stato ascrivibile ad una semplice "incomprensione tra Carabinieri e Procura di Palermo". I giudici aprirono un fascicolo giudiziario per falsa testimonianza verso i due "pentiti" che avevano accusato i due ufficiali dei Carabinieri: uno di questi "pentiti" era Giovanni Brusca, uno degli autori della strage di Capaci, arrestato nel 1995. Giusy Vitale, altra "pentita", appartenente alla cosca di Partinico e sorella di Vito Vitale, detto "Fardazza", aveva raccontato: "Seppi da mio fratello che dentro la casa di Riina c'erano documenti che, se trovati, avrebbero fatto saltare in aria lo Stato", e, a precisa domanda, aveva risposto: "Se le forze dell'ordine ne fossero venute in possesso sarebbe successo il finimondo".

E qui arriviamo alla tredicesima domanda, che in realtà è una congerie di inquietanti interrogativi che delineano un quadro preoccupante. Rectius, agghiacciante.


16. Domanda numero sedici

Perchè la Procura di Palermo, con atto che, qualunque fosse l'intenzione dei PM, risultò oggettivamente intimidatorio, minacciò di incriminare per falsa testimonianza molti di coloro che accorsero a difendere Contrada in primo grado con le loro dichiarazioni (e tra questi proprio il già citato colonnello Mori)?
Perchè, al contrario, a fronte di accuse manifestamente infondate (quali quella relativa all'appartamento di via Guido Jung, 12 a Palermo, tanto per citarne una delle tante), i "pentiti" non sono stati denunciati per falsa testimonianza, anzi sono stati "salvati" nelle motivazioni della sentenza di condanna in primo grado con artifici dialettici quali "il pentito non avrà detto il vero ma il suo racconto è verosimile perchè vide comunque il dottore Contrada salire in quel palazzo di via Jung"?

Perchè ad un pentito come Rosario Spatola si è dato credito assoluto (contro ogni evidenza) quando farneticò di aver visto Contrada a cena col boss Riccobono al Delfino di Sferracavallo (in una "saletta riservata" che lì non è mai esistita) e, caduta quell'accusa, nessuno ha denunciato Spatola per falsa testimonianza o calunnia, mentre poi lo si è incriminato per calunnia quando ha denunciato il fatto che, durante il processo Contrada, il "pentito" Gaspare Mutolo si incontrasse con altri pentiti per concordare le accuse da sostenere in tribunale contro l'ex-capo della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo?
Il 16 ottobre 1996 Rosario Spatola presenta un esposto al Parlamento, affermando di essere a conoscenza di fatti gravissimi che provano come ci sia stata, e ci sia anche in quel momento, una
gestione arbitraria dei collaboratori di giustizia, alcuni dei quali continuano a godere dello status di collaboratore nonostante non prestino piena e disinteressata collaborazione, tentino di concordare con altri le versioni da dare ai processi, tengano nascoste ai magistrati delle notizie di reato che li riguardano o evitino di accusare determinati soggetti per poter sfruttare a proprio vantaggio la situazione di impunità di cui si trovano a beneficiare. Ma di "queste" accuse del "pentito" Spatola non si è tenuto conto più di tanto, tendendo, al contrario, a screditarlo perchè, in realtà, il suo intento sarebbe stato quello di delegittimare i "pentiti"...



17. Domanda numero diciassette


La celerità non è mai stata una dote dello stanco ed inefficiente stato italiano. In quasi nessun caso, e men che meno nel caso Contrada. Forse, più che di mancanza di celerità, bisognerebbe parlare di mancanza di tempestività: questione di sfumature. Ma i fatti sono questi.

1.
Il 23 marzo 1993 il "pentito" Rosario Spatola, interrogato negli uffici della Criminalpol centrale a Roma, afferma di avere visto, nel 1980, Contrada a cena con il boss Riccobono in una saletta riservata del noto ristorante Il Delfino di Sferracavallo, alle porte di Palermo. Al primo sopralluogo ci si accorge che il ristorante è ad ambiente unico e la saletta riservata non esiste: esiste, però, una vetrata in una zona leggermente sopraelevata della stanza e Spatola, riferendosi proprio a quello spazio, corregge l'espressione in "zona meno visibile" del locale. Peccato che dietro quella vetrata ci sia l'ingresso dei bagni del locale: il conosciutissimo poliziotto Contrada si sarebbe, dunque, incontrato con il conosciutissimo capomafia Riccobono proprio davanti all'ingresso dei bagni, dove chiunque avrebbe potuto vederli (al Delfino si mangia bene e si beve bene e abbondantemente: scapperà pure a qualcuno di far la pipì durante la cena...). Ma, al di là del paradossale proscenio del fantomatico incontro, c'è un altro piccolo particolare: planimetrie alla mano, la vetrata risulta essere stata aggiunta soltanto dopo il 1984.
La domanda è questa: perchè Antonino Pedone, proprietario del Delfino, non è stato sentito immediatamente dai magistrati in fase istruttoria? Avrebbe potuto smentire sùbito Spatola, come ha fatto in seguito, durante il dibattimento processuale.

2.
L'accusa di Gaspare Mutolo relativa ad un'Alfa Romeo comprata da Contrada nel 1981 per una sua presunta amante con soldi che gli sarebbero stati regalati dal boss Riccobono poteva cadere immediatamente, quando ci si è accorti non solo che il "pentito" non era in grado di dire come quei soldi fossero stati consegnati a Contrada, ma anche che non era in grado di indicare con precisione l'automobile e che le varie Alfa Romeo acquistate in quel periodo e prese in considerazione risultavano tutte regolarmente acquistate e pagate in maniera limpida e lecita.

3.
Il "pentito" Salvatore Cancemi sostiene che Contrada avrebbe favorito Stefano Bontade facendogli avere il porto d'armi e riavere la patente ritiratagli? Invece di portare queste ridicole accuse in aula, sarebbe bastato, in fase istruttoria, controllare immediatamente che Bontade ebbe il suo primo ed unico porto d'armi nel 1960 e Contrada fu trasferito a Palermo soltanto verso la fine del 1962 (il fascicolo della Questura relativo alla vicenda è andato al macero, ma si poteva controllare sùbito presso altri enti, come l'Archivio del Registro o l'Archivio della Federazione della Caccia). Per quanto riguarda la patente, invece, bastava controllare tempestivamente che sul fascicolo prefettizio relativo era annotato il nome dell'onorevole Gioacchino Ventimiglia, che ha poi ammesso in udienza di essersi interessato per quella pratica.



18. Domanda numero diciotto


Le accuse dei primi tre "pentiti", Gaspare Mutolo, Giuseppe Marchese e Tommaso Buscetta, si riferiscono a periodi antecedenti al 28 settembre 1982, giorno in cui entra in vigore la Legge 646 del 13 settembre 1982 che inserisce nel codice penale l'art. 416 bis, che prevede il reato di associazione a delinquere di tipo mafioso come species del genus principale dell'associazione a delinquere. Se non fossero intervenute alcune dichiarazioni di Rosario Spatola, dalle quali risultava che Bruno Contrada avrebbe agito di concerto con i boss mafiosi anche dopo il 28 settembre 1982, a Contrada non avrebbe potuto essere contestato l'art. 416 bis, sia pur nella sua particolare facies di "concorso esterno" in associazione mafiosa. Nessuno, infatti, può essere punito per un fatto che non sia previsto espressamente dalla legge come reato.



19. Domanda numero diciannove

Non v'è chi sia chiesto come mai, se il poliziotto e funzionario dei servizi segreti Bruno Contrada era davvero così sospetto ed inaffidabile come si è voluto far credere, si sia chiesta la sua collaborazione per delicate indagini in un ancor più delicato periodo come il 1992, anno degli eccidi in cui persero la vita Falcone, la moglie, Borsellino e i loro agenti di scorta, e anno in cui le calunniose accuse nei confronti di Contrada raggiungono l'apogeo fino a sfociare nell'arresto e nel rinvio a giudizio. Ragioniamo un momento. Come ricorda Fausto Gianni, che nel 1992 era vicedirettore vicario del SISDE e membro di un gruppo speciale dei servizi formato da Contrada insieme a lui, Emanuele, Narracci, Splendore ed altri, l'incarico di formare questo gruppo onde operare un monitoraggio sulle principali famiglie mafiose a partire dai Madonia fu conferito a Contrada dal procuratore della Repubblica di Caltanissetta Giovanni Tinebra e il lavoro fu svolto in piena e concorde collaborazione con la Procura nissena e con la Procura di Palermo. Proprio la Procura, quest'ultima, che stava mettendo sotto accusa Bruno Contrada...
E' ragionevole pensare che, oltre a tutti i colleghi, dipendenti e superiori di Contrada, abbiano preso un clamoroso abbaglio anche magistrati del calibro di Tinebra o degli inquirenti palermitani? Avrebbero costoro potuto mai affidare un cospicuo e importante lavoro come il monitoraggio delle principali famiglie mafiose ad uno che veniva sospettato di essere in collegamento proprio con quelle famiglie? Oppure è più ragionevole sostenere, come del resto è emerso dal processo, che Contrada era un funzionario "chiacchierato" come ce n'erano tanti (per mille motivi: invidie professionali, beghe d'ufficio, piccole vendette e così via), ma queste chiacchiere in realtà non facevano scomporre più di tanto le istituzioni, che continuavano a riporre nello stesso Contrada la massima fiducia (come è stato da tutti confermato durante il dibattimento)?
E allora, se tanto mi dà tanto, come mai proprio coloro che ritenevano Contrada in grado di svolgere importanti compiti investigativi anche in quel cruciale 1992, proprio in quello stesso anno lo mettono sotto accusa? E tramutano le suddette "chiacchiere" in pesantissimi capi d'accusa?


20. Domanda numero venti


Una domanda ovvia. Perchè parte della stampa non ha fornito un'informazione completa e dettagliata sul processo, limitandosi a sparare a nove colonne soltanto le accuse? La risposta potrebbe essere a sua volta altrettanto ovvia. Ma quello che preoccupa di più sono le conseguenze di questa disinformazione.
Tanta, troppa gente, ha scritto o detto, infatti, delle cose che non sono vere. Ma, apparendo su giornali o su siti Internet di grande diffusione, possono sembrarlo, soprattutto agli occhi e alle orecchie di gente che non conosce la vicenda processuale. Facciamo alcuni esempi:

1.
L'11 ottobre 2006 Riccardo Castagneri, a proposito delle rivelazioni di Tommaso Buscetta su una presunta amicizia di Contrada col boss Rosario Riccobono, scrive nel sito www.rivistaonline.com: "Buscetta riferisce per la prima volta nel 1984 a Giovanni Falcone notizie su Bruno Contrada, e le sue dichiarazioni, oggetto di un esame approfondito ed articolato, vennero ritenute del tutto attendibili". Niente di più falso. L'esame approfondito ed articolato ci fu e si aprì un'inchiesta a carico di Contrada, ma l'istruttoria venne chiusa ed archiviata dal consigliere istruttore Antonino Caponnetto. Riportiamo le parti salienti del testo degli atti giudiziari in materia, come fatto in altra parte di questo libro: a questo proposito, sarà meglio che io usi, per questa parte, uno pseudonimo, così gli scrittori sembreranno due anzichè uno e realizzerò, come prova della veridicità di quanto scrivo, la "convergenza del molteplice"...
Il PM, dunque, nella sua requisitoria del 19 febbraio 1985, scrisse testualmente di aver accertato "una cospicua e prolungata attività di Polizia Giudiziaria svolta da Contrada nei confronti di Riccobono e degli appartenenti alla sua cosca (...) e chiede che il giudice istruttore in sede voglia dichiarare per i fatti di cui in premessa l'improbabilità dell'azione penale, archiviando gli atti". Il consigliere istruttore Antonino Caponnetto, con decreto del 7 marzo 1985, si esprime nei seguenti termini: " essendo risultata manifestamente infondata la notizia riguardante pretese tolleranze manifestate dal dottore Contrada nei confronti di Rosario Riccobono e di appartenenti alla sua 'famiglia', il che è tra l'altro risultato dalla documentazione acquisita dal PM nel corso delle preliminari indagini, documentazione che ha permesso di accertare una intensa attività di polizia giudiziaria svolta dal dottore Contrada nei confronti di Riccobono e della sua cosca (...), si dichiara che per il fatto anzidetto non va promossa azione penale, ordinando l'archiviazione". Il provvedimento di archiviazione fu inviato a Bruno Contrada unitamente ad un biglietto di saluto, cordialità e rinnovata stima firmato di proprio pugno dal giudice Caponnetto.
Nulla di personale contro di lei, signor Castagneri. Ma ciò che lei ha scritto è smentito da ciò che è successo veramente e dagli atti processuali. Li ha letti questi atti, signor Castagneri? Li conosceva prima di scrivere quanto ha scritto nel suo articolo?

2.
Nel sito Internet denominato, con aulico gergo, Notitia criminis: storie e misteri di vita e malavita, Adele Marini, dopo aver rilanciato alcune calunnie contro Bruno Contrada e aver assunto come certe e veritiere anche storie che non sono state provate in sede processuale (come i contatti telefonici tra l'imputato e Nino Salvo), scrive: "E poi ci sarebbe anche l’incapacità dello stesso dottor Contrada di giustificare la provenienza del suo patrimonio e il suo tenore di vita, decisamente superiori a quelli che ci si potrebbe aspettare da un fedele funzionario dello Stato".
Follia. In cosa consisterebbe questo fantomatico "patrimonio" di Bruno Contrada se non in una casa della Polizia di Stato a Palermo e in una casa al mare vicino Villagrazia di Carini (il mutuo per il cui pagamento Contrada ha terminato di estinguere quando già si trovava dietro le sbarre, in regime di carcerazione preventiva durante il processo di primo grado)? Una "dotazione" assolutamente congrua non solo al suo stipendio di alto dirigente ma anche allo stipendio di tantissime altre persone che godono di emolumenti inferiori. Auto di lusso Contrada non ne ha mai possedute, nè ne è mai stato un appassionato: l'ultima è stata una Peugeot 106. Chiunque conosca il dottor Bruno Contrada sa che, al contrario, lui è una persona che ha condotto sempre una vita piuttosto ritirata, senza lussi e senza fronzoli. In sede di dibattimento processuale, peraltro, sono state completamente smontate le incredibili accuse circa presunti possedimenti terrieri di Contrada in Sardegna o in Uruguay, frutto di un trip giornalistico andato a male nel corso degli anni '80.
Come può, dunque, la signora Marini scrivere queste cose?

3.
Anche Marco Travaglio, celebre giornalista già noto per scottanti inchieste e conseguenti rivelazioni (cui, quando sono ben argomentate, nessuno si sogna di togliere valore o importanza, ci mancherebbe), chiosa sul processo Contrada. Ma, stavolta, senza quelle giuste argomentazioni e quelle prove certe che hanno dato valore ad altra parte del suo operato di giornalista. Sul blog denominato Chiarelettere, infatti, il 12 gennaio 2008, Travaglio parla della sentenza che ha chiuso definitivamente il processo Contrada. Chiunque non conosca il processo si metterebbe le mani tra i capelli, convinto che il super-criminale sia stato finalmente beccato e messo in condizione di non nuocere. Ma, conoscendo i fatti, si può argomentare che non è così. Travaglio parte da un assunto che, non avendo seguito il processo, potrebbe addirittura non essere neppure criticabile, e che costituisce il nocciolo della tragedia di Bruno Contrada: c'è una sentenza definitiva, dunque le cose stanno così. E l'ipotesi dell'errore giudiziario? E la sentenza di assoluzione che ha chiuso il primo ricorso in appello? E la richiesta, nel successivo giudizio in Cassazione, da parte del sostituto procuratore generale (il rappresentante della pubblica accusa davanti alla Corte Suprema), di confermare la sentenza d'assoluzione in appello? E il caso Tortora? Travaglio ha praticamente parlato soltanto dell'atto di accusa, ripetendo più volte che esso ha trovato conforto in dei riscontri ma omettendo di dar contezza di questi ultimi o, peggio, dando tali riscontri per scontati anche se nel processo è accaduto qualcosa di diverso. Come scrivono gli avvocati Milio e Sbacchi nell'atto di impugnazione in appello della sentenza di primo grado: "la sentenza impugnata ha confermato ancora una volta l'impegno mistificatorio dei dati processuali storicamente acquisiti per pervenire alla 'necessaria' affermazione della responsabilità del dottore Contrada". Il punto è che, come dimostreremo nel corso del libro, i giudici hanno inteso trovare una convalida a molte accuse anche in una maniera tale da suscitare quanto meno perplessità, forzando, a volte, anche la logica, omettendo, pur di dar ragione ai "pentiti", di analizzare la realtà e, in alcuni casi, tacciando praticamente chi ha difeso a spada tratta Bruno Contrada di mendacio o di una sorta di "sudditanza psicologica" derivante dal rapporto di amicizia con l'imputato o da altre fonti non meglio chiarite. Se Travaglio si è limitato a leggere soltanto questo, lo scivolone è ovvio e matematico. Facciamo qualche esempio:

1) quando Travaglio parla della fuga di Riina da Borgo Molara e di altre presunte "soffiate" fatte da Contrada ai mafiosi, dice testualmente: "i tre episodi sono stati riscontrati". Questo non è vero. Come abbiamo accennato poco più su e come dimostreremo più ampiamente, sulla base degli atti processuali, nel capitolo dedicato alla vicenda, è stato provato che quell'operazione di perquisizione nella villa di Borgo Molara (che avrebbe costituito l'oggetto della "soffiata" di Contrada) in realtà non fu mai organizzata: lo hanno dichiarato tutti i poliziotti e i Carabinieri che all'epoca lavoravano a Palermo, aggiungendo che del covo di Riina a Borgo Molara le forze dell'ordine (e segnatamente i Carabinieri) avrebbero avuto notizia solo tre anni dopo quel 1981 in cui il "pentito" Giuseppe Marchese ambienta il suo racconto. Trovare un riscontro oggettivo a questa accusa di Marchese comporterebbe automaticamente la messa in stato d'accusa per falsa testimonianza di tutte le forze dell'ordine che operavano a Palermo nel 1981;

2) quando parla della patente di Stefano Bontade, Travaglio si limita a riportare quanto affermato dal "pentito" Francesco Marino Mannoia, che ascriveva a Contrada il demerito dell'intera faccenda, e scrive "secondo i giudici è provato che ad occuparsene fu Contrada". Travaglio non parla, però, dell'intervento dell'ex-deputato dell'Assemblea Regionale Siciliana Gioacchino Ventimiglia, il cui nome è stato ritrovato in una nota personale del prefetto e che ha ammesso personalmente di essere stato lui ad interessarsi per la patente del boss, nè del fatto che gli stessi prefetti di Palermo che si occuparono della vicenda hanno dichiarato esplicitamente di non aver mai ricevuto pressioni o segnalazioni da Bruno Contrada nè in quel caso nè mai. Circa il porto d'armi di Stefano Bontade, risulta invece provato l'esatto contrario dell'accusa, cioè che il boss non riebbe mai il suo porto d'armi dopo che gli fu ritirato all'inizio degli anni '60. E sapete chi fu il poliziotto che proprio in quel periodo segnalò per primo Bontade come mafioso e propose di conseguenza di revocargli il porto d'armi medesimo? Ci credereste? Proprio Bruno Contrada...

3) Travaglio si profonde anche sulla fantomatica cena di Contrada col boss Rosario Riccobono al Delfino di Sferracavallo, scrivendo le seguenti, testuali parole: "Anche Spatola, scampato a suo tempo a due attentati mafiosi grazie alla protezione garantita da Paolo Borsellino, è stato riscontrato". Dimentica, Travaglio, o forse non sa, che è stato riscontrato, al contrario, che il Delfino non è mai stato dotato di quella famosa saletta riservata dove Spatola aveva ambientato la romantica cena fra il poliziotto e il boss. A tal punto che, in appello, qualcun altro ha ambientato il medesimo incontro sempre a Sferracavallo, ma presso l'imbarcadero.
Forse l'accusa più grave ed intollerabile rivolta in questo processo all'imputato è che, in definitiva, costui sarebbe stato un perfetto imbecille. Rischiare la vita per aver rifilato a dei mafiosi bufale come delle informazioni fasulle su una perquisizione che non era mai stata organizzata, proteggere sia i mafiosi vincenti che i perdenti, incontrarsi con un boss super-ricercato sia dalla Polizia che dai suoi avversari mafiosi nel più famoso ristorante di Palermo (uno dei più famosi dell'intera Sicilia) anzichè, come si suol dire, su un pizzo di montagna: rischiando, così, nella migliore delle ipotesi, di essere visto da tutti e, nella peggiore, di beccarsi qualcuno dei proiettili che la fazione mafiosa avversa aveva promesso a Riccobono (che, infatti, poco più di un anno dopo sarebbe stato strangolato);

4) Travaglio definisce "minacce ai colleghi" un'innocente ramanzina che Contrada, da funzionario più anziano, rivolse al giovane commissario Renato Gentile per i modi troppo rudi da questo usati nei confronti di donne e bambini nel corso di una perquisizione a casa del boss Salvatore Inzerillo. Modi rudi confermati da tutti coloro che avevano avuto modo di lavorare con Gentile. Modi che, diretti contro donne e bambini, a parte l'oggettiva iniquità della cosa, potevano scatenare reazioni sanguinose da parte dei mafiosi, soprattutto in un momento come quello, immediatamente successivo agli omicidi di Boris Giuliano, del giudice Cesare Terranova e del suo autista Lenin Mancuso, del presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella e del capitano dei Carabinieri Emanuele Basile: il momento, cioè, in cui la mafia aveva deciso di alzare il tiro con cruenta continuità nei confronti delle Istituzioni. Scrive Travaglio: "Concludono i giudici d’appello: 'Se il latitante mafioso Inzerillo decideva di rivolgersi all’imputato non poteva che essere per il ruolo da quest'ultimo rivestito di referente proprio all'interno delle forze di Polizia e ciò in perfetta consonanza con quanto, in modo peculiare, dichiarato dal Mutolo, il quale aveva appreso che proprio Inzerillo era uno degli ‘uomini d’onore’ in contatto con l’imputato' ". Ma, come vedremo, Contrada aveva saputo della rudezza di Gentile non dall'avvocato Fileccia, legale di Inzerillo, ma dal dirigente della Sezione Investigativa della Squadra Mobile Vittorio Vasquez, come quest'ultimo ha dichiarato al processo: Fileccia si era lamentato con Vasquez e Vasquez ne aveva parlato con Contrada: ecco quello che è risultato dal processo. Se davvero, come scrivono i giudici, Contrada avesse svolto il "ruolo di referente" della mafia all'interno della Polizia, Inzerillo (e quindi Fileccia) si sarebbe rivolto direttamente a lui. A meno di non voler ipotizzare che tale "ruolo di referente" lo svolgesse il dottor Vittorio Vasquez: il quale, se i giudici ritengono provata l'accusa di Gentile, dovrebbe essere denunciato per falsa testimonianza. Ma nessuno (fortunatamente, aggiungiamo noi) si è mai sognato di accusare Vasquez nè di collusione con Cosa Nostra nè di aver detto le bugie.

Vada come vada, il 12 aprile 2008 l'avvocato Giuseppe Lipera, legale di Bruno Contrada, querela Marco Travaglio per diffamazione aggravata a mezzo stampa. Secondo il legale, Travaglio, in un articolo pubblicato nel gennaio precedente su L'Espresso e intitolato Gran Teatro Contrada, "ha ritenuto, inopinatamente ed ingiustificatamente, di utilizzare nei miei personali confronti espressioni assolutamente lesive della mia immagine e professionalità".


SALVO GIORGIO