Friday, May 25, 2007

DI MASSONERIA E CARTE DA GIOCO




1. L'ACCUSA



Tra le accuse più farneticanti (praticamente tutte) mosse a Bruno Contrada, ve ne sono due che, francamente, absit iniuria verbis ma con un pizzico di amaro sarcasmo, potrebbero più facilmente trovare cittadinanza in una sceneggiatura di Terry Gilliam o in una trama di Barbey D'Aurevilly che non negli atti di un processo penale. Il primo, col suo stile ironico ed onirico, parlava, infatti, delle gesta del barone di Munchhausen, tra oscuri cavalieri e ancor più oscuri castelli, mentre il secondo ha dipinto, con la sua inconfondibile penna, le avventure del signor Marmor De Karkoel, un immaginario scozzese considerato, intorno alla metà dell'800, il più forte giocatore di whist del Regno Unito.
E di cappucci e mantelli, nonchè di assi di picche e kappa di cuori, siamo stati costretti a sentir parlare anche in occasione del processo a Bruno Contrada. Un'occasione culturale da non perdere.
Che ci porta a trattare delle due accuse in maniera contestuale poichè entrambe risultano accomunate dal medesimo denominatore surreale.


1.1.
Free Masons allo sbaraglio

I Free Masons o Franc-Maçons. I "liberi muratori", ossia i Massoni. Fondatori di una congregazione, o chiamatela come volete, che dichiara la sua discendenza dall'associazione di operai e muratori, appunto, la quale a sua volta si rifà alla leggenda di Hiram Abif, architetto del Tempio di Salomone. Una fonte storica retrodata ulteriormente la nascita della Massoneria: il Regius Manuscript o Poema Regius (detto anche Halliwell Manuscript, dal nome di chi lo scoprì nel 1840), databile intorno al 1390, nei suoi 794 versi scritti in inglese medievale e in rima baciata, fa, infatti, riferimento a molte frasi e concetti simili a quelli che si ritrovano nella Massoneria. Secondo tale narrazione leggendaria, la massoneria è geometria, arte o scienza d'eccellenza applicata alla muratorìa; primo maestro ne sarebbe stato Euclide e patria d'origine sarebbe stata l'Egitto, da cui giunse in Inghilterra nel X secolo d.C., al tempo del re Athelstan, che le diede le prime costituzioni. La Massoneria sarebbe nata come associazione di "mutuo appoggio e perfezionamento morale" tra artigiani muratori, per trasformarsi in seguito in una confraternita di tipo iniziatico caratterizzata dal segreto rituale, con un'organizzazione a livello mondiale. Proprio per questo motivo, nel corso del tempo, la Massoneria è diventata un elemento valido ad intorbidire ogni storia, quel pizzico di sale che serve per aggiungere un alone di mistero anche dove non serve, quella tinta fosca che garantisce una presa sicura e un'immancabile suggestione su tutti coloro che sono alla ricerca del thrilling o della spy story ad ogni costo.
Quella di aver fatto parte della Massoneria è una delle accuse rivolte a Bruno Contrada. Un ingrediente buono per tutte le stagioni, una sorta di agente universale come l'Atoetèr degli alchimisti, un elemento di mistero valido per poter gettare una coltre quasi esoterica su ogni vicenda. A parte quelle, ovviamente, dove la Massoneria o parti deviate di essa c'entrino veramente: e non è questo il caso.
Buona parte della stampa si è gettata a pesce su aspetti siffatti. Il cocktail fra Massoneria e Servizi Segreti deviati si è sempre rivelato in grado di soddisfare anche i palati più fini, ma ha certamente fatto presa sul signor Rossi che, alla fermata dell'autobus, col suo giornale in tasca (usato per lo più per ripararsi dalla pioggia o per leggere le critiche sull'ultimo calcio di rigore non assegnato alla squadra del cuore) ha avuto di certo un argomento in più da trattare con qualche altra povera vittima dei trasporti pubblici italiani. Sembra di sentirli proprio adesso con estrema chiarezza quei dialoghi alati, impastati e appestati di qualunquismo e dietrologia, che costituiscono l'ossatura dell'ormai povera e piccola filosofia italica, frusta erede di un passato glorioso: "ecco, hai visto? Quando si parla di Massoneria...", "certo, qualcosa dietro dev'esserci...", "chissà cosa stanno nascondendo..." e così via argomentando.
E giù fantasmagorie dominate da cappucci, strani riti al confine con un misticismo da salotto settecentesco, scene di rocambolesche fughe da aviti manieri, immagini di antri oscuri e atri come la barba di Cerbero, corruschi scintillii di spade e reboanti formule di iniziazioni. Tutto fa brodo per colpire l'immaginario collettivo e, dove non arrivano i programmi dedicati ai cuori infranti o le telenovelas, può arrivare la fantasia adeguatamente stimolata da gotiche suggestioni a cavallo fra mito e invenzione.
Intendiamoci. La Massoneria esiste e, a volte, una parte di essa qualche marachella l'ha combinata. Ma voler fare di tutta un'erba un fascio e farcelo passare per forza quel cammello dalla cruna dell'ago è davvero un'altra storia. Qualcuno ha anche pensato di tirare in ballo l'Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro, nel quale Contrada fu quasi trascinato controvoglia e del quale non prese parte neppure ad una riunione. Un Ordine di cui facevano parte, peraltro, diversi rappresentanti delle istituzioni, senza che per questo siano mai stati inquisiti. Cosa c'entrano i Cavalieri di Gerusalemme con la Massoneria? Non c'è bisogno di una laurea in lettere per sapere che gli eredi dei Free Masons britannici non credono neppure nel Dio cristiano ma nel Grande Architetto dell'Universo. Mentre la versione moderna dei crociati (pacifici e non bellicosi, per carità: e per fortuna...) è nata per tutelare, appunto, il Santo Sepolcro di Gerusalemme: dove per tre giorni fu sepolto il corpo di Gesù Cristo, non quello di qualche Grande Architetto o Grande Ingegnere.
Questo improbabile pout-pourri si pone sullo stesso piano di quello che ha voluto vedere, ad esempio, il primo nucleo della mafia nei leggendari Beati Paoli che operarono a Palermo nel Basso Medio Evo. In comune fra i due fenomeni di marca sicula vi è, da un punto di vista folkloristico (e non senza una certa tristezza), il fatto che qualcuno abbia pensato di appioppare al mafioso Totuccio Contorno un soprannome ispirato al presunto, leggendario capo dei Beati Paoli, ossia Coriolano della Floresta. Ma, al di là di facili etichette da stadio o da rotocalco, sul piano storico resta sicuramente la cappa di mistero e di omertà aleggiante su entrambe le congregazioni segrete come elemento imprescindibile della forza delle stesse e, ad un tempo, della presa che entrambe hanno avuto sulla coscienza popolare. Comune a entrambi i consessi settari appare anche una ribellione, sia pur di diverso tenore e con diverse motivazioni, contro l'ordine costituito. Ma il parallelo si ferma qui, essendo gli incappucciati emuli della Sacra Veheme carolingia una congrega di giustizieri, al contrario dei picciotti, dei capidecine e dei capimandamento che della giustizia hanno avuto sempre un concetto a dir poco personale. Almeno nella leggenda e nella versione di Luigi Natoli, o William Galt che dir si voglia, e a parte i casi reali in cui qualche adepto ne avrà approfittato per fare i suoi interessi, i Beati Paoli hanno cercato di por riparo alle ingiustizie e alle soperchierie perpetrate dal sinistro duca di Albamonte: un tentativo di fare giustizia laddove uno Stato lontano mille miglia dalle miserie del popolo e dalle sue fatiscenti abitazioni risultava miseramente latitante o prostrato agli interessi dei potenti di turno. Ma la mafia, pur tentando di porsi come succedanea di uno Stato spesso assente, non è mai stata ispirata da alcun ideale di giustizia, con buona pace di chi ancora evoca codici d'onore e altri orpelli di tal guisa. Non si uccidevano donne e bambini? Beh, si potevano ben uccidere maschi della maggiore età per motivi che con la giustizia c'entravano quanto Richard Nixon con i pacifisti all'epoca della guerra del Vietnam.
Il lettore perdonerà la digressione storica, ma come si può rispondere ad accuse tanto vuote e deliranti come quelle oggetto di questo capitolo se non rifugiandosi nella storia o nella leggenda? O magari nella fiaba...
Eppure è nostro dovere di cronisti riportare sia l'accusa medesima che le prove contrarie che l'hanno demolita senza tema di dubbio. E, dato che l'accusa l'abbiamo riportata, passiamo alla difesa. Non prima, però, di aver precisato che fautore della fantastica accusa rivolta a Bruno Contrada di aver ceduto al fascino dei riti massonici è stato il "pentito" Rosario Spatola.


1.2.
Straight Flush

Ovvero la Scala Reale in inglese, così chiamata fin dai tempi del più antico giocatore di poker conosciuto, l'attore inglese Joseph Crowel. Di carte da gioco francesi e tavoli verdi applicati al caso che ci riguarda parla il "pentito" Salvatore Cancemi. Il quale fa la sua "apertura al buio", ossia effettua la sua puntata prima della distribuzione delle carte senza avere in mano neppure una "coppia vestita": parla, in altre parole, senza poter portare neppure un riscontro oggettivo a quanto afferma ai danni di Bruno Contrada. Altro che coppia di jack...
Un'accusa, quella di essere un accanito giocatore di poker, che viene rivolta inopinatamente all'ex-capo della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo partendo, invero, da lontano. Perchè Contrada, poliziotto integerrimo e al di sopra di ogni sospetto, si sarebbe ad un certo punto venduto alla mafia? La paura è da escludere, visto che, anche dopo l'omicidio di Boris Giuliano, Contrada, dopo un iniziale, ovvio ed umanissimo momento di sbandamento, continuò a lavorare imperterrito e a produrre risultati eclatanti come quelli consacrati nel famoso rapporto del 7 febbraio 1981. Allora lo fece per soldi. Ma questi soldi dove sono? Non certo nel conto corrente di un funzionario dello Stato che ha sempre vissuto in una delle case della Polizia di Stato, non ha mai avuto automobili di lusso, ha sempre condotto una vita consona al suo reddito e a quello della moglie, insegnante di latino, e ha terminato di pagare il mutuo della casa al mare quando era detenuto in regime di carcerazione preventiva durante il processo di primo grado. Non esistono neppure i possedimenti in Uruguay sui quali qualcuno ha tentato di favoleggiare. Allora la conclusione, degna di un sillogismo aristotelico, non può certo essere che Contrada quei soldi in più non li ha mai avuti: deve averli guadagnati come i suoi personali trenta denari, frutto del tradimento, e poi, non essendo ragionevole pensare che li abbia perduti per distrazione, o che glieli abbiano rubati (figurarsi: un borseggio al capo della Squadra Mobile...), allora deve averli persi al gioco. Eccola, la conclusione degna di un sillogismo del filosofo di Stagira. Il tentativo, di fronte al fatto che dalle tasche di Bruno Contrada non sia mai venuto fuori altro che i suoi regolari stipendi, di dimostrare a tutti i costi che il poliziotto abbia ricevuto delle graziose regalie da boss e affini e poi le abbia incautamente puntate sul rouge quando invece era uscito sempre il noir.

Ma cos'ha detto, in sintesi, il "pentito" Cancemi? Nulla, come al solito, che possa aver saputo per apprendimento diretto, ma soltanto voci riferite da altri. E segnatamente da Pippo Calò (capo mandamento di Porta Nuova) ma anche da Giovanni Lipari (capo decina, o sottocapo, della famiglia di Porta Nuova). Voci secondo le quali Bruno Contrada sarebbe stato, oltre che un corrotto, anche un giocatore d'azzardo incallito e un donnaiolo impenitente.
Voci, soltanto voci. Puntualmente smentite dalle indagini svolte e dalle altre testimonianze.


2. LA DIFESA



2.1. Sotto il cappuccio niente


La certezza che si è raggiunta, sulla base di prove testimoniali e documentali, è che Bruno Contrada non ha mai fatto parte di nessuna loggia massonica.
Tonino De Luca, ex-collaboratore di Bruno Contrada, così si esprime nell'udienza del 28 ottobre 1994:

DE LUCA - "Bruno Contrada non è un massone."

Parimenti, l'ispettore Salvatore Nalbone ribadisce, nell'udienza del 20 gennaio 1995:

NALBONE - "Contrada non è mai stato un massone!"

Una settimana dopo, il 27 gennaio, Francesco Sirleo, dirigente superiore della Polizia già in servizio presso il SISDE e l'Alto Commissariato Antimafia, conferma:

SIRLEO - "Bruno Contrada non è un massone."

Dichiarazioni stringate ed inequivocabili. Non occorre aggiungere altro. Non c'è bisogno di fiumi di parole per esprimere un concetto così semplice, soprattutto quando la verità balza agli occhi in maniera icastica.

Ma, udite! Udite!, in questo caso c'è addirittura un "pentito" che scagiona Contrada. Si tratta del dottor Gioacchino Pennino, medico, mafioso e massone, che, nell'udienza del 19 giugno 1995, dice quanto segue:

INGROIA - "Lei ha parlato di ambienti massonici frequentati direttamente. Ha sentito mai fare in quelle occasioni il nome del dottore Contrada?"

PENNINO - "Assolutamente no!"

E' vero che lo stesso Pennino ha dichiarato di essere a conoscenza dell'esistenza a Palermo di una loggia massonica coperta cui aderivano circa trecento persone, tra cui funzionari pubblici, e dell'esistenza di un'altra loggia segreta, di cui sarebbe stato "venerabile maestro" lo stesso Stefano Bontade (che fu proprio colui che fece questa confidenza a Pennino), ma andare a pensare che Contrada facesse parte di logge segrete di cui non si ha notizia sarebbe come voler sostenere che tenere in mano un sasso con la mano destra anzichè con la sinistra mantiene lontane le cavallette da un raccolto sol perchè, mentre reggi quel sasso, non si vede all'orizzonte nessuna cavalletta. In altre parole, la classica argomentazione capziosa, degna dei paradossi dei filosofi cinici e cirenaici, nonchè del famoso paradosso di Zenone di Elea su Achille e la tartaruga. Nulla di quanto abbia cittadinanza ad entrare in un processo penale, dove chiunque si ammanti di una toga cattedratica in un qualsivoglia ateneo insegna che possono trovare posto soltanto prove certe ed inconfutabili, senza analogie e senza interpretazioni e, soprattutto, senza dubbi nè incertezze.

E, sempre in argomento di logge e costituzioni di Anderson, altro colpo mortale alla romanzesca accusa di far parte della Massoneria lo infligge Rosario Caro, proprio l'uomo che Spatola aveva chiamato a confermare le sue parole.

Ma a smentire la presunta appartenenza di Contrada alla Massoneria ci sono anche le ferme e decise parole del prefetto Riccardo Boccia, già Alto Commissario Antimafia, il quale, nell'udienza del 24 gennaio 1995, dichiara:

"Bruno Contrada non era massone. Si disse che apparteneva all'Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro, ma erano cavalieri di quell'Ordine anche il prefetto Emanuele De Francesco, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e altri. E poi erano cavalieri della Chiesa, ma quale organizzazione criminale!"

2.2. Il piatto piange

Circa full e scale reali, invece, Tonino De Luca, ancora nell'udienza del 28 ottobre 1994, spende qualche parola in più:

DE LUCA - "Bruno Contrada non è mai stato dedito al gioco. Noi, anche con Giuliano, giocavamo a poker. Contrada mai."

Sulla stessa linea l'ispettore Salvatore Nalbone che, nell'udienza del 20 gennaio 1995, sottolinea:

NALBONE - "Contrada non ha mai giocato d'azzardo. Anzi, forse non conosce neanche le carte."

Il 27 gennaio successivo, il già citato
dirigente superiore della Polizia Francesco Sirleo ribadisce:

SIRLEO - "No! Contrada non ha mai giocato d'azzardo!"

E ancora,
nell'udienza del 19 giugno 1995, il medico della mafia, Gioacchino Pennino, che invece era un noto giocatore d'azzardo, afferma:

INGROIA - "Lei ha mai sentito dire che il dottore Contrada fosse giocatore d'azzardo?"

PENNINO - "No! Io non ne ho mai sentito parlare."







SALVO GIORGIO




CONDOGLIANZE PERICOLOSE



L'ingegner Roberto Parisi, presidente dell'ICEM, società che ha in appalto la gestione dell'illuminazione pubblica a Palermo, e presidente della Palermo Calcio, viene ucciso a Palermo, insieme al suo autista Giuseppe Mangano, il 23 febbraio 1985.
Sùbito dopo l'omicidio, nel corso di quello stesso 23 febbraio, Bruno Contrada si reca a far visita alla vedova di Parisi, la signora Gilda Ziino. Il suo interesse non è di tipo professionale.
Contrada non è più in Polizia da tempo, in quanto è già transitato nei ruoli del SISDE a partire dal 1982 e dallo stesso anno riveste la carica di capo di gabinetto dell'Alto Commissario Antimafia, Emanuele De Francesco. Contrada non ha dunque, in quel momento, nessuna competenza diretta per quanto riguarda lo svolgimento degli accertamenti e delle indagini sul delitto. Egli si reca a trovare la vedova Parisi in quanto da tempo amico dello stesso Roberto Parisi: il suo intento è semplicemente quello di testimoniare il proprio cordoglio alla signora Ziino e di rendere omaggio all'amico scomparso.
Secondo il collegio giudicante, invece, Bruno Contrada, a proposito di quella visita, deve rispondere del fatto di aver "pòsto in essere comportamenti tali da ingenerare nella signora Ziino forti preoccupazioni e notevoli perplessità sulla finalità del suo intervento". Gli viene contestato di aver "consigliato prudenza alla signora Ziino nell'ipotesi in cui lei fosse a conoscenza di circostanze comunque utili alle indagini", come riportato dal PM nell'udienza del 20 dicembre 1994.
Vediamo come andarono realmente i fatti.

In udienza
Bruno Contrada ha spiegato a chiare lettere, su domanda del PM, che egli non una volta sola ma più volte esortò "la signora Ziino a non parlare con nessuno di vicende comunque connesse all'omicidio del marito o di vicende connesse all'attività imprenditoriale del marito. Perchè mi rendevo conto della, non dico pericolosità, ma dell'estremo carattere paludoso dell'ambiente in cui si era mosso l'ingegner Parisi nella sua attività imprenditoriale, e in cui si trovava poi, adesso, successivamente alla sua morte, la vedova, anche se nei primi giorni non manifestò l'intenzione di continuare l'attività imprenditoriale del marito, ma la manifestò successivamente. Quindi le consigliai di non essere molto loquace, se sapeva qualcosa, se le veniva in mente qualche episodio, qualche particolare, doveva stare molto attenta con chi parlava, anzi non doveva parlarne proprio con nessuno, tranne che con i magistrati inquirenti, è chiaro, io ricordo questo termine, non è che dissi con i giudici o con i poliziotti, dissi con i magistrati inquirenti".
Tornando sull'argomento in un'intervista rilasciata a Cristiano Lovatelli Ravarino poco prima della sua condanna definitiva in Cassazione, Bruno Contrada ricorda ancora: "Ero amico personale dell'ingegner Parisi e con mia moglie lo frequentavamo assieme alla sua prima moglie, la signora Elvira, perita tragicamente assieme alla figlioletta Alessandra di 6 anni sul volo 'Itavia' nella sciagura aerea di Ustica del 1980. Anni dopo Parisi si risposò con questa signora Ziino, con la quale allacciammo rapporti di buona cordialità, tanto è evero che intervennero al matrimonio di mio figlio Guido nell'ottobre del 1989 e a volte venivano anche a pranzo o a cena a casa nostra. Dopo il mio arresto, improvvisamente, e chiaramente influenzata da qualcuno, tirò fuori questa storia senza capo nè coda che io, per di più minacciosamente, le avrei intimato di non rivelare ad anima viva le tremende verità che sapeva sull'uccisione del marito. 'Ma lei cosa sa sulla morte di suo marito?' le chiesero al mio processo. 'Assolutamente nulla!' fu la sua risposta. Sembrava un film di Ridolini, se non si trattasse di sequenze tragiche sulla mia pelle. 'Signora Ziino, lei cosa sa di inconfessabile sull'agguato a suo marito?' - 'Io?? Nulla!!' - 'Ma allora cosa la minacciava il dottore Contrada di non rivelare?' - 'Ah, questo poi... non lo so!'. E allora che miseria di minacce avrei dovuto farle, io? Terrorizzarla perchè non rivelasse ciò che ignorava? La verità è che la signora Gilda, dopo la tremenda morte del marito, forse per un principio di esaurimento nervoso, si era messa a parlare a ruota libera con le ipotesi sui mandanti più strampalate e folli di questo mondo... Io, che credevo di essere considerato un buon amico di famiglia, mi limitai a dirle che, se sapeva qualcosa di certo, doveva parlarne solo con il magistrato inquirente... nemmeno con me che, essendo passato ai Servizi, non potevo per legge più condurre indagini di polizia giudiziaria!"


Questo basterebbe a spiegare ciò che è avvenuto. E' assolutamente normale che un amico, preoccupato dopo un fatto di quella gravità, nonchè un poliziotto esperto come Contrada, che ben conosceva il ginepraio costituito dall'ambiente imprenditoriale in cui si muoveva Parisi, abbia consigliato alla vedova di una vittima della mafia la prudenza più assoluta. E che le abbia consigliato non solo di rivolgersi soltanto ai magistrati inquirenti, ma di non parlarne neppure con lui, poichè all'epoca, come abbiamo visto, Contrada non era più in Polizia e non aveva un ruolo diretto nelle indagini. Cosa avrebbe fatto di diverso ognuno di noi al posto di Bruno Contrada?

E, soprattutto, quale inquietudine può provocare l'esortazione a parlare soltanto con i magistrati? Quale inquietudine, intendiamo, ulteriore rispetto allo stato di angoscia e di disperazione ingenerato nella signora Ziino dalla tragica scomparsa del marito. E' chiaro che una vedova, che non solo ha perso il marito ma lo ha perso in quella maniera così orribile e repentina, si trovi in uno stato di prostrazione psicologica. E allora, delle due l'una: o quello stato di prostrazione non lascia spazio ad altro tipo di inquietudini in quanto l'animo è già totalmente esacerbato, oppure potrebbe darsi che, ammesso che la Ziino abbia reagito davvero negativamente alle parole di Contrada, la sua sensazione negativa in tal senso dipenda da uno stato d'animo tempestoso che impedisce ad una persona, in momenti come quelli, di dare una corretta valutazione alle cose.
Ma ci sono due ulteriori rilievi da mettere in evidenza:

a.
la signora Ziino non diede mai particolare peso a quanto dettole da Contrada in occasione della visita di lutto , e ciò è inequivocabilmente dimostrato dal suo comportamento:

  1. la Ziino non riferisce nulla al giudice istruttore Giovanni Falcone, al quale, come vedremo, renderà una deposizione il 6 febbraio 1988. Se avesse avuto qualche sospetto su Contrada, ne avrebbe sicuramente parlato con Falcone;
  2. al sostituto procuratore della Repubblica Carmelo Carrara, che indaga a sua volta sulla morte di Roberto Parisi, la Ziino riferisce dell'esortazione a parlare solo coi magistrati ricevuta da Contrada, ma ne parla come di un fatto assolutamente normale. Non attribuisce ad esso alcuna valenza ultronea. Contrada viene ovviamente interrogato sul punto da Carrara e quindi messo a confronto con la Ziino: durante il confronto, la signora dice che il consiglio di Contrada non solo non aveva valenza intimidatoria, ma che lei stessa lo aveva accolto ed avallato come "raccomandazione amichevole";
  3. è normale che sia così. Quanto detto da Contrada alla vedova Parisi è assolutamente chiaro e inequivocabile, non c'è dietro nessun messaggio nascosto, nessun double talkin', nessun avvertimento e nessun sospetto. La signora Ziino continua, infatti, a frequentare Bruno Contrada e la sua famiglia, continua ad essere presente alle ricorrenze da loro festeggiate, insomma continua ad avere con Contrada e i suoi familiari dei rapporti normali ed amichevoli: nessuna paura, nessuna diffidenza e nessun riserbo nei confronti di Contrada, nessuna traccia, nella sua mente, di quei presunti comportamenti "anomali" di cui accuserà lo stesso Contrada anni dopo.

Passeranno infatti degli anni prima che la signora Ziino si ricordi improvvisamente di aver notato qualcosa di strano in Bruno Contrada e nelle sue parole quel 23 febbraio 1985. Illuminata da questo ricordo inopinato, Gilda Ziino ne parlerà col suo avvocato, Alfredo Galasso, esponente della "Rete", il movimento politico di Leoluca Orlando, e autore di un libro, "La mafia politica", in cui aveva già delineato inquietanti quanto, a volte, improbabili scenari quale quello che la signora Ziino contribuisce, ora, a tracciare. E lo traccia usando parole che non si era mai sognata di usare negli anni precedenti: dichiarerà, infatti, la signora, di aver provato, "vedendo il dottore Contrada, un senso di angoscia, paura, ansia e tensione nervosa".
Dov'erano riposte, nel suo animo, questa angoscia, questa paura, l'ansia e la tensione nervosa durante i lunghi anni, successivi all'omicidio del marito, in cui la Ziino aveva regolarmente e tranquillamente continuato a frequentare Contrada e la sua famiglia? Se una persona ti provoca angoscia e ansia, non la frequenti. E dov'erano sepolti questi freudiani stati d'animo quando la Ziino non rivelò nulla a Falcone e, sùbito dopo, raccontò a Carrara di aver ritenuto l'esortazione di Contrada una semplice "raccomandazione amichevole"?

b.
Tra l'altro, come da lei stesso ammesso in seguito, la Ziino non era a conoscenza di nessun tipo di notizia particolare che potesse avere rilevanza nell'àmbito delle indagini: dunque, cosa poteva apprendere e scoprire Bruno Contrada da una persona che non sapeva nulla?

Ma la telenovela non finisce qui. E' stata adombrata anche l'esistenza di una seconda visita, che in realtà non è mai avvenuta. Quello che i giudici hanno ritenuto il secondo comportamento "anomalo" di Contrada, sarebbe stato pòsto in essere ben tre anni dopo, ossia dopo che la signora Ziino era stata interrogata, il 6 febbraio 1988, dal giudice istruttore Giovanni Falcone: il PM e i giudici hanno voluto vedere in questo fantomatico secondo contatto tra Contrada e la Ziino il tentativo da parte del primo di avere notizie sull'andamento delle indagini. Ma il contatto non avvenne mai. E' ancora Contrada a spiegare esaurientemente come andarono le cose: "Io non ho mai chiesto alla signora Ziino se aveva reso una deposizione al giudice Falcone, non ho mai saputo che lei fosse stata ascolata, interrogata dal giudice Falcone, non sapevo neppure che Falcone si occupasse dell'inchiesta sull'omicidio Parisi, non l'ho mai saputo, quindi come potevo chiedere alla signora Ziino se era stata interrogata da Falcone?". Nel 1988 Contrada non lavorava neppure più a Palermo, essendosi trasferito ormai in pianta stabile a Roma. Tuttavia nella sua agenda si legge che il 7 febbraio 1988 (una domenica) egli, trovandosi a Palermo, si recò a Mondello, nella villa del gioielliere Fiorentino, suo amico, per ritirare un orologio riparato: da questo si è dedotto, in maniera che definire forzata sarebbe un eufemismo, che Contrada si recò invece nella villa di Gilda Ziino sulla circonvallazione di Palermo. Un vero e proprio volo pindarico: siccome il 6 febbraio 1988 la Ziino venne interrogata da Falcone, quell'annotazione del giorno successivo sull'agenda di Contrada "deve" necessariamente mascherare un incontro fra lo stesso Contrada e la signora Ziino, in modo da costruire il sospetto, e al diavolo orologi riparati e chincaglierie varie. Passi per l'interpretazione errata di annotazioni trovate sull'agenda di Contrada (come nel caso in cui l'ex-capo della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo scrisse di aver "giocato a carte con Antonio", suscitando l'idea della conferma di una sua vocazione al gioco d'azzardo come sosteneva il "pentito" Cancemi, salvo poi dimostrare che intendeva riferirsi ad un'innocente partita a scopa giocata col figlio Antonio): ma elucubrare anche su annotazioni che sulle agende di Contrada non sono mai esistite...
E' per via di situazioni processuali incresciose come questa che gli avvocati Milio e Sbacchi hanno scritto nell'atto di impugnazione in appello della sentenza di condanna di primo grado: "Con amarezza e profondo disagio non si può non concludere con il rilevare che l'interpretazione dei risultati delle indagini è stata alternativamente arbitraria, cervellotica, preconcetta, in assoluto contrasto con gli esiti processuali ed ha costituito, sin dal primo momento, un gravissimo pregiudizio nei confronti dell'imputato, che, appare ormai certo, era stato condannato ad esser condannato".




SALVO GIORGIO


L'ENCOMIO DI FALCONE A CONTRADA



Giovanni Falcone si espresse in favore di Contrada scrivendo al Questore di Palermo:

“Mi è gradito esternarLe i miei più vivi ringraziamenti per la intelligente e fattiva collaborazione della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo nelle indagini istruttorie relative al procedimento penale contro Rosario Spatola
(poi pentitosi e trasformatosi in uno dei primi accusatori di Contrada, nda) ed altri, imputati di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti e di altri gravi delitti. Mi consenta di segnalare, in particolare, il dottor Bruno Contrada, dirigente della Criminalpol Sicilia, il dottor Ignazio D’Antone, dirigente della Squadra Mobile di Palermo, il vicequestore dottor Vittorio Vasquez… I quali, pur in mancanza di strutture adeguate rispetto alla gravità ed alle dimensioni del fenomeno mafioso, hanno portato allo scrivente continua e incisiva assistenza, rivelando, altresì, nel compimento di indagini delicate, ottime doti di capacità professionali”.

Sono forse queste le parole di una persona che diffida? Sono le parole che una persona rivolge ad un'altra dalla cui stretta di mano sentirà lo strano bisogno di pulirsi sui pantaloni? Ricordiamo che, come nel caso dell'encomio rivolto a Bruno Contrada dal giudice Ferdinando Imposimato, l'encomio medesimo non è un atto dovuto ma assolutamente discrezionale. Se lo si vuol fare lo si fa, altrimenti niente. Non ti costringe nessuno.
Falcone, come Imposimato, lo ha fatto e non è stato certamente costretto. E, naturalmente, un uomo come Giovanni Falcone, che non si è mai spaventato di fronte a niente e non si è mai arreso fino alla morte, non aveva certo quel tipo di carattere o di mentalità che indulge verso formalismi, convenzioni o, peggio, ipocrisie. Nè verso alcuna forma di piaggeria. Chiunque osasse crederlo commetterebbe un vero e proprio sacrilegio nei confronti di un magistrato e di un uomo eccezionale.
L'encomio di Giovanni Falcone a Bruno Contrada è agli atti del processo. La carta scritta sta lì, implacabile, a smentire i sospetti meramente verbali di quanti hanno favoleggiato di una diffidenza del magistrato verso il poliziotto. Anche il proscioglimento in istruttoria di Bruno Contrada dopo le prime, improbabili accuse di Tommaso Buscetta (sentenza-ordinanza del 7 marzo 1985, di cui parliamo in altre parti di questo libro), proscioglimento decretato dall'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo presieduto da Antonino Caponnetto e con la presenza di Giovanni Falcone tra le sue fila, crea una "convergenza del molteplice" virtuosa non fra dichiarazioni vaghe e mendaci di criminali rei confessi ma fra atti di magistrati che sono stati sempre al di sopra di ogni sospetto. Se Falcone avesse davvero diffidato di Contrada, e, soprattutto, se fosse stato di diversa pasta come giudice, non si sarebbe fatto sfuggire l'occasione di ricevere la testa di Contrada su un piatto d'argento tramite le dichiarazioni di Buscetta. Un Buscetta col quale Falcone intessè un rapporto professionale che portò ad altre conferme e ad altri successi giudiziari, come narra la storia. Un Buscetta che, però, non per questo Falcone considerava un novello oracolo di Delfi col crisma dell'infallibilità, sapendo discernere e passare al setaccio quanto la "gola profonda" più famosa della storia di Cosa Nostra diceva o sussurrava all'orecchio di uno Stato che cominciava a conoscere il "pentitismo". Ma ancora non conosceva il "pentitificio".

SALVO GIORGIO

LA PRESUNTA DIFFIDENZA DI FALCONE




1. L'ACCUSA


1a. Le prime dichiarazioni di Tommaso Buscetta (1984)


Nel 1984 Tommaso Buscetta aveva, per primo, parlato così di Contrada: “Ho saputo da Rosario Riccobono che Contrada gli passava informazioni sulle operazioni della polizia”.


1b. La deposizione del giudice in pensione Antonino Caponnetto


Il 19 maggio 1995 sale sul banco dei testimoni l'ex-consigliere istruttore del Tribunale di Palermo, Antonino Caponnetto. Un nome leggendario a Palermo. Il successore di Rocco Chinnici, saltato in aria la mattina del 29 luglio 1983. Il padre del pool antimafia di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta. Colui che, attraverso il coordinamento e l'accentramento delle indagini, cercò, tra i primi, di razionalizzare il lavoro d'inchiesta dei magistrati palermitani, incrementandone in maniera significativa l'incidenza e i risultati. Un uomo il cui prestigio non è minimamente in discussione. Ma la sua memoria, forse, sì.
Caponnetto ricorda benissimo di non aver mai avuto modo di sospettare di Contrada. Lo ha frequentato pochissimo, dice. Nel periodo in cui è stato consigliere istruttore a Palermo (periodo in cui, tra l'altro, Contrada è già capo di gabinetto dell'Alto Commissario Antimafia Emanuele De Francesco e quindi non ha più compiti strettamente operativi e d'indagine ma soltanto di coordinamento) Caponnetto ricorda di non aver avuto particolari motivi di relazione con Contrada e quindi, non si è formato un suo giudizio.
Caponnetto può dire, però, quel che pensava di Contrada Giovanni Falcone. "Questa è una tecnica dell’accusa in questo processo." - commenta a caldo Massimo Bordin, all'epoca direttore di Radio Radicale - "I sostituti procuratori che portano avanti il processo nei confronti di Bruno Contrada sono i sostituti procuratori Ingroia e Morvillo, che hanno più volte presentato al Tribunale testimoni che avevano da riferire di impressioni, avute da loro parenti o conoscenti uccisi dalla mafia, negative nei confronti di Contrada. Cassarà non stimava Contrada, non se ne fidava, così ha detto la vedova, probabilmente è anche vero, ma cosa c’entra con la possibilità che Contrada sia effettivamente colluso con la mafia? E così altre testimonianze…".
Ascoltiamo le parole di Caponnetto.

CAPONNETTO - "Io ricordo che una volta ascoltammo Contrada come testimone e insieme a me c’era Giovanni Falcone. Al momento del commiato gli stringemmo la mano, poi Contrada uscì e Falcone ostentatamente si pulì la mano sui pantaloni."

E’ un’immagine forte, sconvolgente per l’immaginazione dei signori lettori dei titoli dei giornali. Coloro, intendiamo, che si limitano a leggere soltanto i titoli. L'ottanta per cento dei già sparuti lettori italici. Ma, dietro la scarsa memoria e le laconiche parole di Caponnetto che generarono scandalizzati (e scandalosi) titoli a nove colonne, ci fu qualcosa di più.
Ne parleremo fra poco, nel paragrafo dedicato alla difesa. Occorre, infatti, premettere quello che fu l'operato di Caponnetto in relazione a quelle che poc'anzi abbiamo detto essere le prime accuse rivolte a Contrada da Tommaso Buscetta.



2. LA DIFESA


Caponnetto, in udienza, sostiene di ricordare perfettamente quella testimonianza di Tommaso Buscetta. Si trattava di una delle due volte in cui lo Buscetta aveva chiesto, oltre alla presenza di Falcone, anche la sua presenza come diretto superiore gerarchico dello stesso Falcone. Le uniche due occasioni, rammenta ancora Caponnetto, in cui egli interrogò il boss dei due mondi: nella prima occasione Buscetta parlò del fallito golpe Borghese, nella seconda parlò, fra le altre cose, anche della presunta collusione di Contrada con Cosa Nostra.
Lo fece in termini molto ambigui, riferendo (guarda caso) le parole di un morto, Stefano Bontade, che riferiva di un presunto rapporto di Contrada con un altro mafioso morto, Saro Riccobono. Buscetta si espresse invero in modo alquanto criptico, ma Falcone e Caponnetto passarono gli atti alla Procura perché aprisse un’inchiesta.
A questo punto, la deposizione in aula del giudice Caponnetto assume una veste singolare. Vediamo.

AVVOCATO MILIO - "Come andò a finire quel procedimento?"

CAPONNETTO - "Mah, io non me ne sono più occupato, non mi ricordo come andò a finire."

La risposta appare, come abbiamo detto, quanto meno singolare. Contrada era un funzionario di punta, uno dei poliziotti più noti di Palermo almeno da una decina d'anni, ossia da quando era diventato per la prima volta capo della Squadra Mobile. Certo, il momento era critico, c’era il primo maxi-processo a Cosa Nostra in preparazione, ma delle conseguenze di un fatto del genere, cioè le accuse del principale pentito di mafia al poliziotto più famoso di Palermo, fatto invero eclatante e destabilizzante, Caponnetto dice di non ricordare nulla. "Non me ne occupai più, non mi ricordo come è andata a finire".

La memoria di Caponnetto aveva già vacillato in precedenza, quando aveva sostenuto di aver incontrato Contrada "pochissime volte". Nella dichiarazione spontanea resa al termine di quell'udienza del 19 maggio 1995, però, Contrada nega questa circostanza e dice: "Non è vero, con Caponnetto ci siamo visti moltissime volte in occasioni conviviali, in occasioni ufficiali. Io lavoravo all’Alto Commissariato Antimafia, lui era consigliere istruttore. Le occasioni di vedersi non mancavano".
Ma se può avere poca importanza il fatto che Caponnetto ricordi poco o niente circa pranzi o cene in cui si sarebbe seduto alla stessa mensa con Bruno Contrada, ben più grave è che non ricordi l'esito di quell'inchiesta che lui stesso, dopo le dichiarazioni di Buscetta, aveva contribuito ad aprire.
Gli avvocati Sbacchi e Milio producono senza esitare la busta indirizzata a Bruno Contrada con dentro una sentenza-ordinanza di archiviazione e proscioglimento per Contrada recante la data del 7 marzo 1985 e la firma del consigliere istruttore Antonino Caponnetto. E, dentro la busta, ed il biglietto da visita del giudice Caponnetto con su vergate di proprio pugno delle inequivocabili parole di rinnovata stima e fiducia nei confronti del poliziotto ingiustamente accusato. Un atto, la scrittura di questo biglietto, assolutamente non dovuto e non previsto da alcuna prassi d'ufficio. Un atto discrezionale, segno e conseguenza di una precisa volontà di Caponnetto e di un suo pieno convincimento dell'onestà di Contrada e del fatto che questi era stato soltanto vittima della calunnia di un mafioso pentito. Ed è plausibile pensare che concordasse con questa archiviazione anche Falcone, che non era certo tipo da fermarsi davanti ad una verità da inseguire se era davvero convinto che bisognasse indagare ancora.
Ma qualcosa di strano accade nel prosieguo dell'udienza del 19 maggio 1995.
Dopo aver acclarato che quella prima indagine su Contrada si concluse con un pieno proscioglimento dell'ex-capo della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo, la difesa incalza su quei due interrogatori resi da Buscetta a Caponnetto e Falcone e ne produce i verbali. Caponnetto scava ancora nella sua memoria.

CAPONNETTO - "Ricordo perfettamente che, pur senza fare nomi, Buscetta ci disse che nella polizia palermitana c'era molta corruzione."

AVVOCATO MILIO - "E' sicuro che avete verbalizzato bene?"

CAPONNETTO - "Guardi, avvocato, non me lo deve dire! Noi siamo abituati a verbalizzare bene!"

Chi potrebbe dubitarne? Ma l'avvocato legge il verbale e vien fuori che Buscetta disse l'esatto contrario: "La polizia palermitana è sempre stata al di sopra di ogni sospetto".
In un classico film hard-boiled di bogartiana memoria, i giornalisti, a questo punto, sarebbero immediatamente schizzati ai telefoni per comunicare alla redazione notizia e titolo da prima pagina. Ricordo che noi, invece, restammo seduti, in attesa di preparare il nostro servizio in seguito. Ma strabuzzammo gli occhi. Anche davanti alla replica di Caponnetto:

CAPONNETTO - "Allora si vede che avremo verbalizzato male."

Non è molto plausibile, nè invero accettabile, pensare che affermazioni di tale portata possano essere verbalizzate male. Non, vieppiù, da giudici dell'esperienza e del calibro di Antonino Caponnetto. Il quale, peraltro, pochi minuti prima, si era quasi stizzito nel rimbeccare l'avvocato Milio, ricordandogli che loro erano sempre stati abituati a "verbalizzare bene". In definitiva, Buscetta non stava parlando della cravatta o del taglio di capelli di Bruno Contrada. Stava parlando dell'affidabilità di una delle principali istituzioni dello Stato.
Ma, nel tentativo di ricostruire i suoi ricordi, Caponnetto aggiunge un'altra cosa. E anche grave:

CAPONNETTO - "Oppure, forse, Buscetta questa cosa ce l'avrà detta fuori verbale."

Ho sempre raccontato che la mia laurea in Giurisprudenza giace felicemente nei cassetti di Viale delle Scienze in quelo di Palermo e lì può rimanere. Ma ricordo di aver studiato che la legge obbliga i magistrati a verbalizzare TUTTO ciò che viene loro riferito da un imputato o da un testimone, soprattutto in occasione di un interrogatorio "epocale" come quelli resi dal primo pentito storico della mafia, l'uomo che poteva dare credito alla famosa teoria di Giovanni Falcone sul "terzo livello". Forse alcune dichiarazioni di Buscetta venivano verbalizzate ed altre no? Sarebbe un'infrazione gravissima.
Nonostante la tiepida reazione della Corte e dei PM a questa incredibile asserzione, Caponnetto, resosi probabilmente conto del ginepraio in cui poteva cacciarsi, cerca ancora di girare intorno all'argomento. Un tentativo in verità impacciato, che sortisce come unico effetto la seguente affermazione, inaudita quanto la prima:

CAPONNETTO - "O forse Buscetta quella cosa ce la disse nel momento in cui ci accompagnava alla porta della sua stanza..."

La scena appare surreale. Due magistrati del calibro di Caponnetto e Falcone che, invece di congedare il pentito, vengono congedati da lui! E, soglie ed usci a parte, non verbalizzano quanto un testimone chiave sta loro raccontando a proposito della lealtà o meno di alti esponenti delle forze dell'ordine?

L’inchiesta verrà riaperta nel 1992, in seguito alle rivelazioni del 'pentito' Gaspare Mutolo, dopo la tragica morte di Falcone e con Caponnetto ormai in pensione. Ed originerà la farsa di cui Bruno Contrada pagherà inopinatamente le conseguenze con la condanna a dieci anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa.
E veniamo ai pantaloni di Giovanni Falcone e alla sua mano che vi striscia sopra per pulirsi dopo aver stretto quella di Contrada.
A parte il fatto che, ammesso che ciò sia davvero successo (e Falcone, da morto, non ha avuto la possibilità di smentirlo o di confermarlo), due domande sorgono prepotenti: la cosa integra una fattispecie di reato per l'imputato Contrada? E poi, conoscendo l'enorme spessore e statura dell'uomo e del magistrato Falcone, dobbiamo proprio credere che, se gli avesse fatto così schifo stringere la mano a Contrada, gliel'avrebbe stretta? Falcone non era certo tipo da atteggiamenti formali o da manfrine di alcun genere. Crederlo sarebbe un attestato di disistima nei confronti suoi e della sua memoria di vero eroe dell'antimafia.
La seconda domanda la traduciamo in un'affermazione, sostanziata da un atto ufficiale acquisito nel fascicolo del processo Contrada. Oggi nessuno ricorda (rectius, molti fanno finta di non ricordare) gli encomi solenni che Contrada ricevette da quei giudici che l’accusa è riuscita a far credere che lui abbia tradito. Eppure verba volant sed scripta manent.
Ma torniamo alla deposizione di Caponnetto del 19 maggio 1995.
Còlto in fallo mnemonico circa l'esito dell'inchiesta sortita dalle prime accuse di Buscetta a Contrada, Caponnetto viene smentito anche circa la mano di Falcone. Ed in questo caso non ad opera della difesa di Bruno Contrada ma dello stesso Presidente della Corte, Francesco Ingargiola, il quale fa notare sommessamente a Caponnetto che, in realtà, a quell'interrogatorio condotto da Caponnetto e nel quale Contrada veniva sentito come teste sull'inchiesta riguardante l'omicidio del presidente della Regione Siciliana, Piersanti Mattarella (sul quale omicidio Contrada aveva indagato in qualità di capo della Criminalpol della Sicilia Occidentale) risulta che Giovanni Falcone non fosse presente! Dunque, non solo Caponnetto viene ancora una volta smentito quando dice di non aver avuto particolari motivi di relazione con Contrada, ma viene intaccata anche la sua dichiarazione sul famoso gesto di Falcone. Come poteva Falcone stringere la mano a Contrada e poi pulirsela sui pantaloni se non era presente?

CAPONNETTO - "Ma si vede che avremo sentito Contrada un'altra volta..."

AVVOCATO SBACCHI - "Abbiamo tutti gli interrogatori del nostro assistito. Non risulta un altro interrogatorio di Contrada dove fosse presente Caponnetto."

Lo stesso Contrada, nella dichiarazione spontanea a fine udienza, ribadisce: "Io da Falcone e Caponnetto insieme non sono mai stato interrogato, cercate nelle carte, debbono esserci dei verbali. Se ha ragione Caponnetto, troverete in un verbale in cui c'è la firma di Caponnetto a fianco di quella di Falcone e la mia come testimone, ma se è come dico io..."

Se è come dice Contrada, Caponnetto non ricorda affatto bene.


SALVO GIORGIO



LA PRESUNTA DIFFIDENZA DI CASSARA' E MONTANA




1. L'ACCUSA

Ancora una volta, in relazione al capo d'accusa che ci accingiamo a trattare, il processo Contrada ha assunto una incredibile valenza medianica. Hanno fatto parlare i morti, evocandone le ombre. Finendo, magari involontariamente, per palesare ben poco rispetto per la loro memoria e per il loro lavoro. Morti che non sono potuti venire in aula a ribadire o a sbeffeggiare le dichiarazioni che erano state loro messe in bocca.
Non soltanto Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Boris Giuliano, ma anche altre due illustri ed eroiche vittime della mafia, il vicequestore Ninni Cassarà ed il commissario Beppe Montana, avrebbero diffidato di Contrada. Sulla base di semplici opinioni riferite de relato da altri e contrastate in maniera evidente da fatti oggettivi riferiti da tutti coloro che hanno avuto occasione di conoscere Cassarà, Montana e Contrada e di lavorare a stretto contatto con loro.
Viene da chiedersi ancora una volta il motivo per cui si sono tirati in ballo personaggi decorati da medaglie al valore civile e da un indiscutibile alone di merito e di gloria personale. Personaggi le cui presunte accuse nei confronti dell'imputato, agli occhi dell'opinione pubblica, potevano venir rivestite da una suggestiva patina di attendibilità, da un particolare crisma di infallibilità: se qualcuno poteva obiettare che i "pentiti" erano comunque degli assassini e degli estortori di professione, quale macchia si sarebbe potuta riversare sulle parole di specchiati eroi vittime di Cosa Nostra?
Nessuna macchia, purchè quelle parole le avessero realmente pronunciate. E purchè tali accuse non fossero state smentite da una serie di fatti incontrovertibili di senso contrario.



2. LA DIFESA

Fatti, non parole. Come sempre è accaduto in questo processo, la difesa ha fatto leva su fatti, circostanze, date, atti e, soprattutto, su testimonianze dirette. Persone che hanno visto coi loro occhi e sentito con le loro orecchie, e non testimoni che, in buona fede o meno, hanno riportato parole pronunciate da altri che sono morti e non potevano venire in aula a confermare o a smentire. Lo abbiamo ripetuto tante volte nel corso di questo libro, ma è davvero successo troppe volte. Parole davvero significative, in quanto basate su fatti, sul rapporto tra Bruno Contrada e Ninni Cassarà le hanno, infatti, pronunciate tutti coloro che hanno lavorato con i due poliziotti.

Cominciamo con Antonio De Luca che nell'udienza del 28 ottobre 1994 ricorda:

DE LUCA - "I rapporti di Bruno Contrada con Ninni Cassarà erano ottimi. Contrada mise a disposizione di Cassarà l'auto blindata che Cassarà gli aveva chiesto per ispezionare di notte i luoghi indicatigli da Contorno. All'epoca delle minacce a Cassarà, testimone al processo per l'omicidio di Rocco Chinnici, dove aveva parlato dei Salvo, fu Contrada ad interessarsi presso l'Alto Commissariato Antimafia per fare mettere a casa di Cassarà porte e vetri blindati."

L'ex-ispettore Salvatore Nalbone, in servizio alla Sezione Investigativa della Squadra Mobile e alla Criminalpol di Palermo dal 1951 al 1981, nell'udienza del 20 gennaio 1995 ha ricordato:

NALBONE - "Ninni Cassarà aveva ottimi rapporti con Bruno Contrada. Fra i due non ci furono mai screzi nè contrasti. Cassarà spesso andava a trovare Contrada in ufficio per chiedere consigli e la porta rimaneva aperta, nessun problema."

L'ex-sovrintendente capo della Polizia di Stato Michele Sandulli, in servizio presso la Criminalpol palermitana dal 1970 al 1992, ha dichiarato nell'udienza del 14 febbraio 1995:

SANDULLI -
"Il dottor Ninni Cassarà veniva spesso in ufficio a trovare il dottore Contrada. Fra i due c'erano ottimi rapporti. Anche il dottor Giuseppe Montana veniva spesso in ufficio a trovare il dottore Contrada. Anche fra loro due c'erano ottimi rapporti."

L'ex-sottufficiale della Squadra Mobile e della Criminalpol palermitane Alessandro Guadalupi, in servizio a Palermo dal 1965, conferma nell'udienza del 21 febbraio 1995:

GUADALUPI - "I rapporti fra Bruno Contrada e Ninni Cassarà sono sempre stati ottimi. Fra i due c'è sempre stata grande collaborazione".

Il prefetto Giovanni Pollio, capo della Criminalpol centrale dal 1984 al 1987, ha ribadito nell'udienza 23 maggio 1995 una verità importantissima, decisiva per tagliare la testa ad ogni tipo di illazione accusatoria di un certo tipo che pure si era fatta strada nelle tortuose maglie del processo:

POLLIO - "Contrada aveva sollecitato il trasferimento di Ninni Cassarà da Palermo a Genova esclusivamente per proteggere Cassarà".

Il colonnello dei Carabinieri Titobaldo Honorati, già comandante del Nucleo Operativo dei Carabinieri di Palermo dal 1982 al 1984, sentenzia nell'udienza del 14 febbraio 1995:

HONORATI - "Ero amico di famiglia sia di Ninni Cassarà che di Beppe Montana. Posso garantire che nessuno dei due sospettò mai di Bruno Contrada".

L'assistente capo della Polizia di Stato Lucio Toma, in servizio a Palermo dal 1971, ribadisce nell'udienza del 21 febbraio 1995:

TOMA - "I rapporti sia del dottor Ninni Cassarà che del dottor Giuseppe Montana con il dottor Bruno Contrada sono sempre stati buoni".

Filippo Peritore, già funzionario della Squadra Mobile di Palermo, prima alla Sezione Antirapine, quindi alla Sezione Omicidi e in seguito dirigente della Sezione Narcotici, dichiara nell'udienza del 24 gennaio 1995:

PERITORE - "Fra Bruno Contrada e Ninni Cassarà intercorrevano rapporti ottimi. Cassarà non si è mai lamentato di Contrada con nessuno."





2. SFIDA AL LETTORE

Le parole della vedova Cassarà contro i fatti addotti da coloro che lavoravano con Cassarà e con Contrada. Non è una questione di scelta di campo, come alcune èlites politiche e culturali hanno voluto che diventasse questo processo e, più in generale, la lotta alla criminalità organizzata: che non è patrimonio ideologico nè della destra nè della sinistra, ma è e deve essere una cultura di popolo, un forte sentimento radicato in tutti a prescindere da appartenenze ideologiche e tessere di vario genere. Non si tratta, in altre parole, di schierarsi, ma di valutare i fatti.
Chi scrive ha sempre nutrito il più alto rispetto e la massima solidarietà nei confronti delle vittime della mafia e dei loro parenti. Ma quel che bisogna valutare, a livello processuale, sono i fatti: cosa ancor più vera per chi quei fatti deve ponderarli al fine di emettere un giudizio. Se usiamo la vecchia, e a volte polverosa, bilancia che è il simbolo della giustizia, ci accorgeremo che su uno dei due piatti vi sono le parole della vedova Cassarà, intrise di ricordi, di dolore, dell'eco di una vita spezzata, di un trauma, quello di vedersi uccidere il marito davanti agli occhi, che è quasi impossibile superare: ma si tratta di parole basate soltanto su sentori, su opinioni che il trauma stesso subìto può amplificare e deformare, secondo un comprensibilissimo meccanismo umano. In più, tutto il battage scatenato intorno a Bruno Contrada nel periodo delle indagini a suo carico che avrebbero portato al suo arresto (e non certo dopo, quando degli scudi cominciavano ad ergersi in sua difesa...) e, dunque, per la vedova Cassarà l'idea di trovarsi di fronte ad un imputato che sarebbe la fantomatica, malefica e onnipotente "talpa" all'origine della rovina dello Stato di fronte alla mafia, dunque anche all'origine della morte del marito, potrebbero aver acuito quel quadro traumatico di cui sopra.
Comprensibile. Umano. Ma sull'altra bilancia sono stati pòsti dei fatti inconfutabili, contraltare oggettivo ed incontestabile di quelle che, dall'altra parte, sono state soltanto parole, per quanto la loro origine possa essere spiegata come dicevamo prima. E un giudice deve valutare i fatti. Se la vedova Cassarà sostiene che il marito diffidava di Contrada, a parte il fatto che essere oggetto di diffidenza non è un reato previsto dal Codice Penale, questa sua asserzione, soprattutto in quanto non suffragata dalla viva voce del marito, non può che cedere di fronte al ricordo di decine di colleghi che rammentano come Cassarà informasse sempre Contrada delle sue indagini e ne cercasse il parere, il consiglio di poliziotto più anziano ed esperto. E sempre a porte aperte.


SALVO GIORGIO

URUGUAY E NUVOLE








1. L'ACCUSA

Nel settembre del 1985 viene recapitata presso la sede palermitana dell'Alto Commissariato Antimafia una lettera anonima. L'oggetto degli strali della vil penna è Bruno Contrada. In questa lettera si leggono affermazioni del seguente tenore: Contrada, allora capo di gabinetto dell'Alto Commissario Antimafia, avrebbe "sparlato" dello stesso Alto Commissario Riccardo Boccia; Contrada avrebbe inoltre cercato inutilmente di far fuggire Gaetano Badalamenti, che proprio in quel periodo viene arrestato in Spagna nell’àmbito di un’operazione antidroga e contro il riciclaggio di denaro sporco condotta da Antonio De Luca; infine, la lettera anonima farnetica di presunti possedimenti di Contrada in Sardegna e in Spagna. Qualcuno, più tardi, aggiungerà a questa lista patrimoniale anche dei fantomatici possedimenti oltreoceano, addirittura in Uruguay.

Nel numero del 19 novembre 1985, la nota rivista I Siciliani riprende le false notizie contenute in questa lettera anonima.



2. LA DIFESA

Ancora una volta una delle tantissime voci che si levano in favore di Bruno Contrada è quella di
Antonio De Luca. Nell'udienza del 28 ottobre 1994, infatti, dopo aver definito senza mezzi termini "baggianate" le affermazioni contenute in quella famosa lettera anonima del 1985, De Luca dichiara senza tema di smentita:

DE LUCA - "Bruno Contrada non ha possedimenti nè in Sardegna nè all'estero, in Spagna o in Uruguay. Ha una casa a Punta Raisi, vicino Palermo, ma non l'ha certo avuta tramite favori dei mafiosi: per questa casa sta pagando tuttora il mutuo venticinquennale, che scadrà nel 1997."

Circa il presunto tentativo di Contrada vòlto a far fuggire Badalamenti, De Luca aggiunge:

DE LUCA - "L'operazione per l'arresto di Badalamenti in Spagna la condussi io. L'uomo che ci aveva condotto da Badalamenti era Pietro Alfano. Non ci fu nessuna interferenza di Contrada nè in questa nè in altre operazioni. Contrada, in quanto capo di gabinetto dell'Alto Commissario Antimafia, fu informato dell'arresto di Badalamenti per comunicarlo proprio all'Alto Commissario."


Pochi mesi dopo, nell'udienza del 24 gennaio 1995, anche il prefetto Riccardo Boccia smentisce la ridicola accusa nata da questa lettera anonima che, all'epoca, non aveva fatto vacillare per nulla la reputazione di Contrada ma che si è pensato bene di inserire ugualmente come tassello dell'impianto accusatorio:

BOCCIA -
“Ricordo una lettera anonima pervenuta nel 1985 all'Alto Commissariato Antimafia, lettera dove si leggevano cose come 'Contrada sparla di Boccia' oppure si leggeva che Contrada avrebbe favorito Badalamenti. Io non ho mai dato peso a questa lettera. Al contrario, feci venire a Palermo Antonio De Luca ed il colonnello Ragusa, dei Carabinieri, proprio per smentire queste false voci sui favori di Contrada a Badalamenti. La verità è che De Luca arrestò Badalamenti proprio con la piena collaborazione di Bruno Contrada. Chiesi poi a De Luca notizie sull'attività investigativa di Contrada a Palermo negli anni precedenti: le notizie che De Luca mi diede furono lusinghiere. Mi parlò in particolare di come Contrada avesse tenacemente perseguito tutti i mafiosi e in particolare la cosca di Saro Riccobono. Immaginai che la lettera anonima provenisse dalla Questura di Palermo, in quanto Contrada mi aveva parlato di antichi dissapori: ma non mostrai mai la lettera a Contrada perchè ad essa non davo il minimo peso, anzi la consideravo una vigliaccata. E poi Contrada in quel periodo era preoccupato perchè temeva di avere un brutto male. Tramite la Criminalpol centrale, diretta dal prefetto Pollio, appurai che Contrada era totalmente innocente ed estraneo ai fatti, e scrissi così una lettera al ministro degli Interni per confermare l’innocenza di Contrada: Contrada non era stato neppure sfiorato dall’inchiesta giudiziaria e da quella amministrativa sorte dopo la famosa operazione in Spagna citata dalla rivista I Siciliani. Io allora pensai inoltre che quella lettera anonima, ripresa da I Siciliani, potesse costituire una sorta di avvertimento della mafia contro Contrada. Lo stesso Vincenzo Parisi, allora direttore del SISDE, mi disse: ‘Contrada a Palermo corre pericolo. Me lo debbo ritirare a Roma’. Insieme a Parisi e allo stesso Contrada, dunque, decidemmo che Contrada rientrasse al SISDE a Roma. Nell’occasione io scrissi a Contrada una lettera di commiato e di elogio assoluto. "


SALVO GIORGIO

IL SORRISO DI OLIVIERO TOGNOLI





Piccola excusatio non petita al lettore.
L'eventuale farragine delle argomentazioni e di quanto scritto sotto dipende dalla complessità della vicenda trattata. Potrebbe essere, in realtà, una vicenda più semplice, in quanto i riscontri oggettivi, come vedremo, sono innegabilmente dalla parte di Bruno Contrada. Ma la valutazione che il Tribunale ha fatto delle risultanze processuali deriva da un procedimento che si è voluto seguire senza tener conto di questi riscontri oggettivi. Se si preferisce dar valore ad illazioni anzichè a dati certi, il rischio è quello di alimentare proprio farragini varie ed ingarbugliamenti. Con ovvie difficoltà anche per il cronista.
Come per altri capi d'accusa, anche qui sembra quasi che, absit iniuria verbis, si sia partiti dal colpevole per costruirgli il reato attorno. A tutti i costi. Volendo credere ad insinuazioni, a sospetti, a semplici cenni, anzichè ad elementi sostanziali ed oggettivi che sono rimasti lì, immobili, a pretendere un'attenzione che invece non è stata loro riservata.



1. L'ACCUSA




Oliviero Tognoli, industriale bresciano, è un nome noto agli investigatori internazionali per aver compiuto, nel corso degli anni '80, operazioni di riciclaggio di denaro sporco proveniente dal traffico di droga in favore dell'organizzazione mafiosa di cui faceva parte anche Leonardo Greco, mafioso originario di Bagheria. Tognoli e Greco vengono segnalati agli investigatori dal "pentito" Salvatore Amendolito.
Mentre tra Italia e Stati Uniti si sviluppa l'indagine che porterà alla luce la cosiddetta "Pizza Connection", l'11 aprile 1984 i quotidiani, ed in particolare il Giornale di Sicilia, riportano la notizia dell'arresto, nell'àmbito di quell'operazione, proprio di alcuni componenti o fiancheggiatori del gruppo mafioso per conto del quale Tognoli ha operato: fra gli arrestati spiccano i nomi degli imprenditori Corti e Della Torre.
All'alba del 12 aprile tre sottufficiali della Squadra Mobile di Brescia si presentano nella villa di Tognoli a Concesio, in provincia di Brescia, per procedere all'esecuzione di un fermo richiesto nei confronti dell'industriale dalla polizia palermitana. Ma Tognoli si trova a Palermo per motivi di lavoro. Alloggia insieme al suo collaboratore, Salvatore Tumino, presso l'Hotel Ponte. Quello stesso 12 aprile Tognoli sparisce da Palermo per sottrarsi all'esecuzione di quel fermo di polizia cui, nei giorni successivi, avrebbe fatto seguito un mandato di cattura.
Tognoli rimane latitante per quattro anni finchè, il 12 ottobre 1988, si costituisce in Svizzera, a Lugano. Interrogato una prima volta nel dicembre successivo dal procuratore pubblico svizzero Carla Del Ponte, nell'àmbito del procedimento penale intentato contro di lui dalla magistratura elvetica, Oliviero Tognoli non fa il benchè minimo accenno al nome di Bruno Contrada. Interrogato una seconda volta la mattina del 3 febbraio 1989, sempre nell'àmbito del procedimento penale svizzero e sempre dalla Del Ponte, ma stavolta alla presenza del giudice istruttore Giovanni Falcone (cui la Del Ponte aveva chiesto di assistere per avvalersi della sua esperienza in fatto di mafia), Tognoli lascia intendere che le notizie sul fermo di polizia tentato ai suoi danni a Concesio gli sarebbero provenute da Bruno Contrada. Pare che alla fine dell'interrogatorio, a verbale chiuso, Falcone abbia fatto il nome di Contrada a Tognoli e che quest'ultimo gli abbia rivolto un cenno affermativo col capo ed un sorriso dal significato ambiguo. Nel pomeriggio di quel 3 febbraio si svolgerà, senza la partecipazione del giudice Del Ponte, l'interrogatorio in sede di rogatoria internazionale chiesto da Falcone nell'àmbito del troncone siciliano delle indagini, e Tognoli, richiesto di confermare quanto detto la mattina col famoso cenno e col sorriso, si avvarrà della facoltà di non rispondere e non farà così mettere a verbale il nome di Contrada.
Per via di questo semplice cenno e del sorriso, che possono significare tutto e il contrario di tutto, l'accusa vuole che sia stato proprio Bruno Contrada, all'epoca capo di gabinetto dell'Alto Commissariato Antimafia di Palermo, ad informare l'industriale che la polizia era sulle sue tracce, determinando così la sua volontà di sparire da Palermo e di rendersi irreperibile.
Chiariremo questo punto nel paragrafo seguente, dedicato alla difesa. Ma puntualizziamo fin d'ora che, in un secondo interrogatorio in sede di rogatoria internazionale a Lugano, l'8 maggio 1989, lo stesso Tognoli dichiara qualcosa di ben diverso al giudice istruttore luganese Claudio Lehmann, alla presenza ancora di Giovanni Falcone, del sostituto procuratore della Repubblica di Palermo Giuseppe Ayala e del suo avvocato Franco Giannoni. Tognoli, questa volta, parla di contatti, precedenti alla sua fuga da Palermo, avuti con il fratello Mauro Tognoli e con Cosimo Di Paola, funzionario della Questura di Palermo.
Oliviero Tognoli verrà condannato sia dalla giustizia italiana che da quella svizzera.




2. LA DIFESA



2.1. Chi era al telefono?

Oliviero Tognoli fugge da Palermo il 12 aprile 1984 non per una "soffiata" di Contrada o per chissà quale altra fantomatica ispirazione, ma perchè intorno alle 8,3o di quella mattina all'Hotel Ponte, dove alloggia, come abbiamo visto, col suo collaboratore Salvatore Tumino, gli arriva la telefonata del fratello Mauro che lo avverte della visita della Polizia nella villa di Concesio.

Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, nell'interrogatorio del dicembre 1988 Oliviero Tognoli non parla di Contrada. Nel secondo interrogatorio, svoltosi ancora in Svizzera la mattina del 3 febbraio 1989, Tognoli avrebbe lasciato intendere ai giudici Del Ponte e Falcone che sarebbe stato Contrada ad agevolare la sua fuga da Palermo. Ma rifiuta di far mettere a verbale questa "dichiarazione" nell'interrogatorio del pomeriggio, quello svolto su rogatoria internazionale e che riguarda le indagini svolte dai magistrati palermitani. Leggiamo cosa scrive il magistrato Luca Tescaroli (che è stato pubblico ministero al processo per l'attentato a Giovanni Falcone presso la sua villa dell'Addaura, nei pressi di Palermo, attentato che fu sventato il 20 giugno 1989 e che avrebbe coinvolto, se fosse andato malauguratamente a segno, anche i giudici Del Ponte e Lehmann, presenti nella villa di Falcone) nel suo libro I misteri dell'Addaura: ma fu solo Cosa Nostra? a pagina 104:

"Inoltre v'è da rilevare che, contrariamente a quanto ha sostenuto Giannoni (il legale di Tognoli, nda), Tognoli non ha fornito una collaborazione 'esemplare', incondizionata e completa, come ha ben chiarito la dottoressa Carla Del Ponte. Ed ancora, quest'ultima ha smentito la circostanza, riferita dal Giannoni, che non sia stato redatto verbale dell'incombente istruttorio compiuto il mattino del 3 febbraio 1989. Del pari, la Del Ponte ha negato che Giovanni Falcone, nel corso dell'incombente da lei condotto, abbia manifestato di nutrire dei sospetti nei confronti di Contrada in relazione all'agevolazione della fuga di Tognoli. Appare utile, per apprezzare la portata della difformità tra il racconto della Del Ponte e quello del Giannoni, riportare il seguente brano della sua deposizione, nel corso del quale ritorna sul colloquio Falcone-Tognoli concernente Contrada (la deposizione fatta il 18 marzo 1999 da Carla Del Ponte al processo per l'attentato all'Addaura, dove era pubblico ministero, come abbiamo visto, proprio Luca Tescaroli, nda):

DEL PONTE - 'Allora torniamo a quel 3 febbraio, interrogatorio da me condotto nell'àmbito del procedimento penale svizzero. Ovviamente di Contrada non si è parlato, anche perchè io poi non sapevo nemmeno che esistesse il Contrada. Siamo a quel mattino, quando io interrogo Tognoli sul riciclaggio di denaro. Alla fine del nostro interrogatorio, firmato il verbale, il mio verbale, che va ai miei atti del mio procedimento penale, ad un certo momento ci troviamo, Giovanni Falcone ed io, soli con Tognoli. Si stava uscendo, Tognoli era lì, in un angolo, che aspettava che venissero a prenderlo. Ed è lì che io sento per la prima volta il nome di Contrada. Io, però, Contrada nemmeno sapevo chi fosse, proprio uno sconosciuto per me. Perchè sento il nome di Contrada? Perchè Giovanni Falcone chiede a Tognoli chi l'abbia avvertito che c'era un ordine di arresto nei suoi confronti. Tognoli diceva 'sì, è vero, sono stato avvertito, qualcuno mi ha fatto sapere'. E ad un certo momento Giovanni Falcone fa questo nome di Contrada e Tognoli dice di sì e fa segno con la testa. Al che, il mio verbale era già chiuso, però nel pomeriggio c'era il verbale su rogatoria, al che Falcone dice sùbito a Oliviero Tognoli: 'dobbiamo verbalizzare. Oggi pomeriggio verbalizziamo'. Al che Oliviero Tognoli dice: 'E no'. Poi, per noi, però, l'udienza è finita così, cioè, poi sono venuti a prendere Oliviero Tognoli, Oliviero Tognoli è stato accompagnato in carcere. Al pomeriggio io non ci sono più, quindi non sono un testimone diretto, però so che, poi, al pomeriggio c'è stato quello che lei racconta, e cioè che sono usciti dall'udienza perchè Tognoli non voleva verbalizzare. Sono usciti dall'udienza, ha conferito con il difensore; insomma, non si è detto niente di particolare, nel senso che in quel verbale si era messo che è vero che l'incontro non era stato casuale, ma non si diceva niente. Poi ci fu un secondo verbale, di maggio, dove viene fuori la storia di Di Paolo, o come si chiama questo... (Cosimo Di Paola, nda).' "

L'interrogatorio di Tescaroli alla Del Ponte offre altri elementi di conoscenza:

TESCAROLI -
"Sì. Senta, lei sa dire chi abbia avuto la possibilità di udire questo breve colloquio tra Falcone e Tognoli?"

DEL PONTE - "Io credo che questo colloquio l'abbiamo sentito solo noi due (la Del Ponte e Falcone, nda) perchè la stanza dove si interrogava, che era la sala conferenze della Polizia ticinese, era grande e c'era un grandissimo tavolo, quindi, noi eravamo ad un angolo di... di questa camera, quindi eravamo solo noi due, non... non credo che ci fossero altre persone."

TESCAROLI - "Il difensore, Franco Giannoni, e, diciamo, se c'era, il dottor Ayala, che cosa fecero? Dove si trovavano in quel momento?"

DEL PONTE - "Il difensore credo fosse già partito, comunque... non era più lì, non so se... Perchè poi era tardi, no? Tardi nella mattinata. Il difensore non lo vedo più, Ayala, invece, stava dall'altro lato di questo tavolone e quindi non... non aveva sentito, anche perchè poi eravamo in quest'angolo, sì... no? Non è che si parlasse a voce alta."

(...)

TESCAROLI - "Senta, ma esattamente per quale motivo, diciamo, non venne riaperto il verbale, non venne verbalizzata questa indicazione di Tognoli?"

DEL PONTE - "Allora... Non venne aperto il verbale perchè quell'audizione della mattina era un mio verbale, nel mio procedimento penale, per cui per me questo fatto non aveva nessun interesse, per cui il mio verbale non veniva riaperto perchè non c'era motivo di riaprirlo, tanto è vero che nel pomeriggio c'era, invece, l'audizione di Tognoli su commissione rogatoria ed era lì che diventava... diventava importante."

TESCAROLI - "Nel corso della rogatoria che si tenne il pomeriggio cosa riferì il Tognoli sulle modalità con le quali si era dato alla latitanza?"

DEL PONTE - "Allora, premesso che io non ero presente, però ho poi saputo alla sera, perchè poi mi sono rivista con Giovanni, ho poi saputo che si era rifiutato di rispondere; che era stata pòsta la domanda e che si era rifiutato di rispondere, ammettendo, però, che naturalmente il suo allontanamento da Palermo non fosse stato casuale. E questo poi l'ho letto nel verbale del 3 febbraio. E naturalmente Giovanni Falcone disse a me e agli ufficiali di Polizia svizzera la necessità di convincere Oliviero Tognoli a verbalizzare quello che sapevamo."

TESCAROLI - "Ecco, durante, così, questo colloquio che ha avuto con Falcone, quindi, la sera, ha detto, chi altri vi era presente? Chi assistette? Dove vi trovavate?"

DEL PONTE - "Mah, se ricordo bene saremmo andati a cena, quindi c'era Ayala, c'ero io, c'era Falcone, c'erano sicuramente i due ufficiali di Polizia ticinese che partecipavano all'inchiesta, poi non... non so, comunque, queste erano più o meno le persone."

TESCAROLI - "I due funzionari chi erano?"

DEL PONTE - "Erano il delegato Gioia e Mazzacchi, ispettore o commissario."

TESCAROLI - "Mazzacchi. Sì. Senta, ecco, dopo, nei successivi interrogatori dopo il 3 di febbraio dell'89, lei effettivamente ritornò sulla circostanza delle modalità della latitanza del Tognoli?"

DEL PONTE - "Io tornai a parlare con Tognoli sul fatto... sulla necessità che lui verbalizzasse questo. L'ho fatto sicuramente una volta o se non anche di più, ma l'ho anche... ne ho anche discusso con i miei ufficiali di Polizia, che riuscissero, parlando con Tognoli, a convincere Tognoli a verbalizzare. Tognoli si è sempre rifiutato sia con me che con... di voler verbalizzare quello che ci aveva detto."

TESCAROLI - "Ecco, quali motivazioni aveva addotto per, diciamo così, non fornire le indicazioni di questo funzionario?"

DEL PONTE - "Ma la... la motivazione principale che ricordo io era che... questioni di... di incolumità, non tanto per lui, ma per la sua famiglia, che erano cose gravi e che lui non intendeva... non intendeva mettere in pericolo la sua famiglia. Per questo fatto."

Raffrontiamo quanto dichiarato dalla Del Ponte nel processo per il fallito attentato dell'Addaura con quanto la stessa ha dichiarato nel processo Contrada, nell'udienza del 28 giugno 1994. Parlando dell'interrogatorio della mattina del 3 febbraio 1989 (quello relativo al procedimento elvetico, non quello in sede di rogatoria internazionale, che si sarebbe svolto quello stesso pomeriggio) la Del Ponte afferma:

DEL PONTE - "Io sento che Giovanni Falcone chiede a Tognoli Oliviero chi fosse stato ad avvertirlo affinchè lui potesse rendersi latitante, sottrarsi comunque all'arresto. Io ricordo che Tognoli non voleva rispondere, si schermiva, e allora Giovanni fece un nome: Bruno Contrada. 'E' stato Bruno Contrada?'. Al che il Tognoli, guardandoci tutti e due, ci rispose: 'Sì' e fece un cenno col capo."

AVVOCATO MILIO - "Il dottor Falcone pronuncia il nome di Contrada?"

DEL PONTE - "Sì. Il dottor Falcone chiede a Tognoli Oliviero chi l'ha avvertito e fa il nome, fa la domanda, pone la domanda: 'E' stato Bruno Contrada?'. Al che Tognoli guarda Giovanni, guarda me, così... non risponde sùbito e poi dice 'Sì' e china la testa..."

AVVOCATO MILIO - "La prima volta che lei sente il nome di Contrada, questo nome chi lo dice? Il magistrato italiano o lo dice Tognoli? Cioè, chi pronunziò per la prima volta il nome? Chi?"

DEL PONTE - "Il nome Bruno Contrada lo pronunciò Giovanni Falcone quando pose la domanda a Tognoli."

L'avvocato Milio sposta l'attenzione sul primo interrogatorio svizzero di Tognoli, quello del dicembre 1988:

AVVOCATO MILIO - "Lei ha parlato degli interrogatori resi nel dicembre 1988 da Tognoli..."

DEL PONTE - "Verbale del dicembre 1988, un verbale del dicembre 1988, dichiarazioni nell'àmbito del nostro procedimento penale..."

AVVOCATO MILIO - "A proposito di questo, c'è nessun cenno a Contrada in questo verbale di interrogatorio del dicembre 1988?"

DEL PONTE - "No. Nessun cenno al nominativo indicato."

Il pubblico ministero Alfredo Morvillo, invece, incalza sull'interrogatorio del pomeriggio del 3 febbraio 1989 in sede di rogatoria internazionale:

MORVILLO - "Lei, comunque, conosce il contenuto di questo interrogatorio, l'interrogatorio del dottor Falcone in rogatoria?"

DEL PONTE - "Sì, certo."

MORVILLO - "Sa se in quell'interrogatorio venne affrontato l'argomento relativo all'identità della persona che aveva agevolato la latitanza di Tognoli? E cosa fu chiesto dal dottor Falcone e cosa fu risposto da Tognoli?"

DEL PONTE - "Nell'ultima pagina del verbale, l'ultima domanda, Giovanni Falcone pone appunto la domanda sulla latitanza, sul fatto che si è sottratto all'arresto. Gli chiede di dire chi, di verbalizzare chi l'ha aiutato, chi l'ha avvertito. E mi ricordo, ho letto il verbale allora già per i miei atti ma poi l'ho riletto, che la risposta di Tognoli era che si riservava di rispondere riferendo che comunque ammetteva che il suo allontanamento non era stato casuale... il suo allontanamento da Palermo. Così si chiudeva il verbale di questa rogatoria..."

Oliviero Tognoli non fa mettere a verbale la sua presunta "indicazione" di Contrada come autore dell'informazione che lo aveva fatto fuggire da Palermo. Ma nel successivo e già citato interrogatorio reso l'8 maggio 1989 al giudice istruttore Lehmann, al giudice istruttore Giovanni Falcone e al sostituto procuratore della Repubblica di Palermo Giuseppe Ayala, Tognoli fa mettere a verbale, e con dovizia di particolari, ben altro.
Un cambio di versione che i giudici palermitani del processo Contrada non hanno mai valutato positivamente, al contrario di quanto hanno fatto, ad esempio, col cambio di versione operato dal "pentito" Giuseppe Marchese a proposito del covo di Totò Riina a Borgo Molara (ne parliamo nel capitolo dedicato alla vicenda). Facciamo questa piccola equazione: gli àmbiti giudiziari sono, ovviamente, diversi, ma l'intersezione tra i due insiemi è rappresentata da Bruno Contrada: e i riflessi sul suo destino sono, purtroppo, in entrambi i casi, foschi. Tognoli e Marchese forniscono
nel corso del tempo due dichiarazioni a testa, fra loro diverse: nella prima Tognoli (sia pur con equivoca mimica) accusa Contrada e nella seconda lo scagiona, mentre nella prima dichiarazione Marchese non parla di Contrada e nella seconda lo accusa. Tutti e due, dunque, cambiano versione, ma ecco cosa accade:



GIUSEPPE MARCHESE

OLIVIERO TOGNOLI



PRIMA VERSIONE:

PRIMA VERSIONE:

- non accusa Contrada;

- accusa Contrada;

- viene riscontrata da una "convergenza del molteplice" con le dichiarazioni dell'altro "pentito" Balduccio Di Maggio;


- non viene riscontrata, anzi non viene neppure messa a verbale;

- non viene creduta dai giudici del processo Contrada.

- viene creduta dai giudici del processo Contrada.

SECONDA VERSIONE:

SECONDA VERSIONE:

- accusa Contrada;

- scagiona Contrada;

- non viene riscontrata in alcun modo, anzi viene palesemente contraddetta dai fatti oggettivi addotti da decine di poliziotti e carabinieri in servizio a Palermo nel 1981;

- viene messa a verbale e riscontrata da ben due
testimonianze (Cosimo Di Paola e
Mauro Tognoli);

- viene creduta.

- non viene creduta.




Nel caso di Marchese i giudici optano praticamente per una sorta di "ravvedimento" del "pentito", che nel corso del tempo (un mese) si sarebbe spostato dall'errore alla verità e credono, così, alla seconda versione (quella che accusa Contrada); nel caso di Tognoli, al contrario,
niente "ravvedimento", nessun passaggio dall'errore alla verità, anzi, al contrario, Tognoli avrebbe detto prima la verità e solo in seguito avrebbe mentito. E questo nonostante la prima dichiarazione di Tognoli non sia mai stata messa a verbale e non trovi alcun riscontro e la seconda, invece, ossia quella che scagionava Contrada, sia stata consacrata in un verbale e poi riscontrata attraverso la conferma pervenuta da altri testimoni.
Come fra poco vedremo. Ma ecco, intanto, quanto Tognoli dichiara testualmente l'8 maggio 1989:

OLIVIERO TOGNOLI - "La mattina del 12 aprile 1984 mio fratello Mauro mi avvertì da casa, a Brescia, telefonandomi all'Hotel Ponte di Palermo, che si erano presentati diversi poliziotti nella sede dell'azienda, o meglio a casa, per cui dedussi immediatamente che era stato emesso un provvedimento di cattura nei miei confronti, dato che mio fratello mi aveva informato che i poliziotti cercavano me, e ritenni opportuno, quindi, di abbandonare in tutta fretta l'albergo, dandomi così alla latitanza."

Nello stesso interrogatorio, Oliviero Tognoli parla anche di Cosimo Di Paola, un funzionario della Questura di Palermo, suo ex-compagno di scuola, che gli aveva genericamente suggerito di astenersi dal frequentare il mafioso Leonardo Greco. Ne parleremo più diffusamente nel secondo punto di questo paragrafo ('2.2. L'uomo dai capelli lunghi che non era più un poliziotto'). Per il momento concentriamoci sul ruolo fondamentale di Mauro Tognoli.
Che sia stato proprio quest'ultimo ad avvertire il fratello Oliviero dell'operazione di polizia nella villa di Concesio è stato confermato anche dallo stesso Mauro Tognoli, che, nell'udienza del processo Contrada del 29 novembre 1994, ha dichiarato:

MAURO TOGNOLI - "E telefonai all'Hotel Ponte e mi qualificai. Dissi: 'Vorrei parlare con il Tognoli, sono Mauro'. Dissi anche il nome e poi me lo passarono. 'Guarda che è stata qui la Questura e vogliono parlare urgentemente con te'. Lui mi ha detto: 'Sì, sì, va bene, grazie'."

INGROIA - "Se può ricordare più o meno che ora fosse..."

MAURO TOGNOLI - "Ma, guardi, saranno state circa, non so, un quarto alle otto, perchè mi hanno fermato, non so adesso l'orario, mi hanno fermato che non mi ricordo l'orario, saranno state, non so, le sette e mezza. Dopo un quarto d'ora, il tempo di, così, di far vedere i documenti e arrivare al bar, ecco, grosso modo attorno alle otto, ecco..."

AVVOCATO SBACCHI - "A proposito degli orari, quindi, vorrei un momento di maggiore chiarezza. Lei è sicuro dell'ora in cui ha telefonato, cioè, è andata via la polizia, poi l'hanno fermato e poi il resto?"

MAURO TOGNOLI - "Ma adesso io non è che intenda molto, però se... non so, basterebbe chiedere, se è possibile, adesso non so chi mi ha fermato, che ora era per avere la conferma. Dopo, guardi il tempo, calcoli cinque minuti..."

Nell'udienza del 17 giugno 1994, il maresciallo Oronzo Del Fato, uno dei sottufficiali della Squadra Mobile di Brescia che si era recato nella villa di Concesio all'alba del 12 aprile 1984, dichiara:

DEL FATO - "La mattina del 12 aprile 1984, la mattina presto, non ricordo l'ora, presto, comunque, siamo andati là in casa, in questa villa..."

INGROIA - "Ricorda più o meno quanto durò la perquisizione?"

DEL FATO - "Ma un paio d'ore, penso, un paio d'ore..."

INGROIA - "Ricorda, più o meno, a che ora vi siete recati in questo luogo per fare la perquisizione?"

DEL FATO - "Sei, sei e mezzo, penso... del mattino..."

AVVOCATO MILIO - "Lei può indicarmi orientativamente l'orario in cui vide uscire il fratello di Oliviero Tognoli dalla villa?"

DEL FATO - "Non ricordo."

AVVOCATO MILIO - "Grosso modo..."

DEL FATO - "Non ricordo perfettamente, comunque... un'oretta, tre quarti d'ora, un'ora da quando abbiamo finito la perquisizione. Da quando siamo usciti dall'appartamento del Tognoli abbiamo fatto un appostamento per circa tre quarti d'ora, un'ora, nelle vicinanze della villa."

AVVOCATO MILIO - "E le operazioni di perquisizione quanto erano durate, grosso modo?"

DEL FATO - "Non ricordo perfettamente."

AVVOCATO MILIO - "Dopo quanto tempo avete visto uscire Mauro Tognoli?"

DEL FATO - "Dopo tre quarti d'ora, un'ora..."

PRESIDENTE INGARGIOLA - "Lei è sicuro dei tre quarti d'ora, un'ora?"

DEL FATO - "Penso..."

AVVOCATO MILIO - "A me interessa che intervallo di tempo passa tra l'appostamento e l'uscita di Mauro Tognoli..."

DEL FATO - "Va be'... Il fatto è successo nel 1984, non è che sono cose che io possa ricordare... Il tempo di quindici minuti, un quarto d'ora, o di mezz'ora, questo è il fatto. Io ricordo una mezz'oretta, se poi è stato quindici minuti o tre quarti d'ora..."

Ma, se i ricordi di Del Fato sono poco chiari (e può capitare, visto che si tratta di un fatto risalente a dieci anni prima: del resto, non ha molta importanza se la telefonata avvenne alle 8,15, alle 8,45 o poco dopo. L'importante è che ci fu e che a farla fu non Contrada ma Mauro Tognoli), i ricordi del maresciallo Mario Gandico, uno dei due colleghi che si trovavano con lui quella mattina sono più precisi. Nell'udienza del 21 giugno 1994, infatti, ascoltando Gandico, apprendiamo che:

GANDICO - "Quella mattina io e altri due colleghi siamo stati incaricati di portarci in casa Tognoli per procedere al fermo. Siamo arrivati a casa verso le 6,30. (...) Senonchè, dopo circa un'ora e mezza, un'ora e quaranta circa, due ore non son passate, comunque, visto che in casa Oliviero Tognoli non c'era, andammo via, siamo usciti di casa dopo le otto. Però, probabilmente, sa come si fa nel nostro mestiere, magari avendo la sensazione che questo fosse nascosto in casa, rimasi fuori in appostamento magari uscisse e, dopo un quarto d'ora, uscì una Fiat Ritmo dal passo carraio, la seguimmo e a bordo c'era Mauro Tognoli. Venne identificato e basta, per me la cosa finì lì..."

Gandico è molto più preciso di Del Fato. Del resto, fu proprio lui a stilare la relazione di servizio sull'ispezione di Concesio. In quel rapporto, il maresciallo Gandico scrive di essere giunto alla villa di Tognoli alle 6,30 del mattino e precisa che l'appostamento fuori dalla villa è durato quattordici minuti. Nel documento non vi è alcun accenno a perquisizioni alla ricerca di documenti o altro per il semplice fatto che non ci fu nessuna perquisizione: l'operazione era vòlta soltanto all'individuazione di Oliviero Tognoli e al suo fermo. Ciò conferma il fatto che un'ora sia un lasso di tempo più che congruo per quello che i poliziotti dovevano fare, e permette dunque di far coincidere perfettamente i tempi con la telefonata di Mauro Tognoli. Il fatto che quella mattina non sia stata effettuata alcuna perquisizione, oltre che dal rapporto del maresciallo Gandico, si evince anche dal fatto che in seguito fu inviata nella villa di Concesio un'altra squadra di poliziotti, al comando del funzionario della Squadra Mobile di Palermo Giuseppe Russo, con il preciso incarico di perquisire la casa e trovare dei documenti. Ciò è stato confermato dallo stesso Russo nell'udienza del 5 settembre 1994.

Tornando nello specifico alla famosa telefonata, nell'udienza del 17 giugno 1994 Salvatore Tumino, il collaboratore di Tognoli che, come abbiamo visto, era con lui a Palermo la mattina del 12 aprile 1984, aveva dichiarato:

SALVATORE TUMINO - "Dopo circa una decina di minuti, quindi, l'orario, grosso modo, poteva essere dalle otto alle otto e mezza circa, fu chiamato telefonicamente dalla hall perchè c'era una telefonata. Lui si è portato sùbito nella cabina per ricevere questa telefonata, credo che non sia durata molto, qualche minuto, insomma, tre minuti, poco..."

Macchè Contrada! Il dato certo ed incontrovertibile che emerge dall'escussione dei testimoni è che Oliviero Tognoli si allontanò da Palermo in seguito alla telefonata del fratello Mauro, avvenuta intorno alle 8,30 del mattino di quel 12 aprile 1984, e per nessun altro motivo.


2.2. L'uomo dai capelli lunghi che non era più un poliziotto


C'è un teste importante che introduce un nuovo elemento nella vicenda. Si tratta del giudice Francesco Di Maggio, magistrato che, proprio alla fine degli anni '80, era distaccato presso l'Alto Commissariato Antimafia diretto da Domenico Sica. Nell'udienza del 16 settembre 1994 Di Maggio dichiara quanto segue:

DI MAGGIO - "Dell'affare Tognoli io conosco un episodio avvenuto proprio nell'ufficio dell'Alto Commissariato Antimafia. Eravamo presenti io, il collega Misiani (il giudice Francesco Misiani, altro magistrato all'epoca distaccato presso
l'Alto Commissariato Antimafia diretto da Sica, nda), l'Alto Commissario Sica e Giovanni Falcone. (...) Io chiesi espressamente a Falcone se era stato fatto il nome di Contrada. Falcone lo escluse e aggiunse, però, che era stato costruito un identikit nel quale aveva avuto modo di riconoscere perfettamente il dottore Contrada. Disse infatti che il Tognoli gli aveva parlato di un suo conoscente che era stato un poliziotto e che non lo era più. (...) Il riferimento specifico fu al rapporto specifico di amicizia e soprattutto alla perdita della qualità di poliziotto."

Di Maggio parla, dunque, di due fatti nuovi. L'informatore di Oliviero Tognoli, a detta dello stesso imprenditore, sarebbe stato un "suo conoscente" e tale conoscente "era stato un poliziotto e non lo era più". C'è anche una terza indicazione, proveniente dall'ispettore Bruno Sebastiani, che nel 1989 prestava servizio
all'Alto Commissariato Antimafia: nell'udienza del 18 ottobre 1994, Sebastiani ricorda che Salvatore Tumino raccontò che quella mattina del 12 aprile 1984 all'hotel Ponte di Palermo, rientrando dopo essere andato a comprare il giornale, trovò Tognoli in compagnia di una persona "con i capelli brizzolati un po' più lunghi del normale ma stempiato, sui 45 anni, ben vestito".
Tre indicazioni, invero, molto vaghe. Che non portano a Bruno Contrada ma ad un altro personaggio che, a questo punto, entra nel processo: Cosimo Di Paola.
Analizziamo partitamente le tre indicazioni:

1.
L'indicazione sulla fisionomia della misteriosa persona che, secondo Tumino, si sarebbe trovata in compagnia di Tognoli quella mattina, potrebbe corrispondere a Bruno Contrada ma anche a mille altre persone. E' vero che Contrada (che all'epoca aveva 53 anni) ne dimostrava certamente di meno, è vero che aveva i capelli brizzolati, a volte li portava un pochino lunghi dietro ed era anche leggermente stempiato, ed è vero anche che si è sempre distinto per eleganza e buon gusto nel vestire. Ma non stiamo parlando di porri in faccia, di bende alla Moshe Dayan, di voglie alla Gorbaciov o di occhialoni alla Elton John. Parliamo di connotati che possono indicare tante altre persone e che non costituiscono un'indicazione univoca e decisiva.

2.
L'indicazione riguardante il fatto che il misterioso conoscente di Tognoli non era più un poliziotto si attaglia sia a Contrada (
che nel 1982 aveva lasciato la polizia giudiziaria per transitare nei ruoli del SISDE e ricopriva, nel 1984, il ruolo di capo di gabinetto dell'Alto Commissario Antimafia Emanuele De Francesco) sia a Di Paola, il quale aveva prestato servizio nella polizia palermitana (presso la Sezione Investigativa della Squadra Mobile, sezione diretta all'epoca da Ninni Cassarà, poi presso l'Ufficio di Gabinetto, quindi al II Distretto di Polizia e infine all'Ufficio Misure di Prevenzione) ma in seguito, a partire dall'ottobre 1987, "non sarebbe stato più un poliziotto", transitando nei ruoli della magistratura, e precisamente al TAR. Ricorda lo stesso Di Paola, nell'udienza del 25 ottobre 1994:

DI PAOLA - "Sono un magistrato del TAR di Palermo. Mi ero reso conto che l'ambiente della Questura non mi era confacente, non mi trovavo bene, allora feci prima un concorso per uditore giudiziario e non lo superai, ma mi beccai un esaurimento nervoso. Poi feci un altro concorso al TAR e lo vinsi, il 5 ottobre 1987."

3.
Se le prime due indicazioni potrebbero riferirsi sia a Di Paola che a Contrada, la terza, relativa all'amicizia con Tognoli, esclude categoricamente Contrada e si riferisce a Di Paola.
Nelle udienze del 18 e del 25 ottobre 1994, infatti, dalle dichiarazioni di
Antonio Buccoliero e del già citato Bruno Sebastiani (due funzionari di polizia che facevano parte del nucleo speciale al comando di Antonio De Luca presso l'Alto Commissariato Antimafia e che per conto di quell'ufficio, su specifico incarico del giudice Francesco Misiani, svolsero indagini sui fatti in questione nel 1989 insieme al maggiore della Guardia di Finanza Michele Adinolfi), nonchè dello stesso Cosimo Di Paola, emerge quanto segue:

1) Di Paola dichiara di aver avuto vincoli di amicizia molto stretti con Oliviero Tognoli fin dal 1968, quando i due
(entrambi nati nel 1951) erano compagni di banco alle scuole superiori, all'Istituto Tecnico Commerciale di Cefalù. Tali rapporti sono durati nel tempo, tanto che Di Paola ha affermato anche di aver presenziato al matrimonio di Tognoli con Marianna Matassa a Riva del Garda e di esserlo andato a trovare nella villa di Concesio. Sempre nell'udienza del 25 ottobre 1994, Di Paola ricorda:

DI PAOLA - "Con Tognoli eravamo amicissimi. Sono stato suo amico fino a quando, su L'Ora di Palermo, non ho letto qualcosa che mi ha fatto scoprire che lui aveva loschi traffici. Ma io avevo conosciuto una persona per bene. Per me fu un trauma scoprire che Tognoli aveva una seconda vita oscura."

2) Di Paola rafforza quanto appena ricordato specificando di avere con
Oliviero Tognoli un rapporto di natura quasi familiare, in quanto le rispettive consorti sono fra loro giuridicamente affini. Il fratello della moglie di Tognoli, Francesco Matassa, ha, infatti, sposato la sorella di Franca Serio, moglie di Cosimo Di Paola;

3) Di Paola ammette senza problemi di aver saputo che Oliviero Tognoli intratteneva rapporti di affari con Leonardo Greco di Bagheria e ricorda con precisione di aver più volte consigliato allo stesso imprenditore di usare sempre la massima cautela. Rammenta, infatti, Di Paola nell'udienza sopracitata:

DI PAOLA - "Tognoli a volte mi accennò a questo Leonardo Greco, ma per cose futili. Io ne avevo sentito parlare male, ma Tognoli mi disse che era una brava persona. Io, in realtà, diffidavo di Greco per il cognome, perchè a Palermo di Greco ce ne sono di buoni e di cattivi."

Si trattava, dunque, di un'esortazione generica alla prudenza che non nasceva dalla conoscenza di fatti precisi: Di Paola ha infatti dichiarato di non aver mai sospettato che Tognoli fosse implicato in vicende losche, avendolo sempre conosciuto come "un galantuomo appartenente ad un'ottima famiglia bresciana" ed essendo venuto a sapere del suo coinvolgimento in inchieste giudiziarie soltanto dai giornali, nell'aprile 1984.
Cosimo Di Paola, infatti, non è l'autore della famosa telefonata del 12 aprile 1984: quella, è pacifico, la fa Mauro Tognoli, mentre Di Paola si limita a consigliare ad Oliviero Tognoli di troncare i suoi rapporti con Leonardo Greco perchè è genericamente pericoloso frequentare un mafioso. Questo è, almeno, ciò che ha sostenuto Oliviero Tognoli. Perchè, al contrario, Di Paola, dopo aver ricordato che l'ultima telefonata a Tognoli, prima che questi si desse alla macchia, lui l'aveva fatta intorno al gennaio del 1984, precisa con enfasi davanti ai giudici del processo Contrada (nella già ricordata udienza del 25 ottobre 1994) quanto segue:

DI PAOLA - "Io so delle sciagurate dichiarazioni di Oliviero Tognoli su di me per quanto ho letto su L'Espresso. Ma nessun atto processuale è stato espletato nei miei confronti in materia. (...) Io non dissi mai a Tognoli di troncare i rapporti con Leonardo Greco nè mai gli telefonai per dirgli che c'erano delle indagini contro lo stesso Leonardo Greco che potevano coinvolgere anche lui. Tutte queste cose dichiarate da Oliviero Tognoli sono falsissime."

Sul piano dell'amicizia, invece, è provato che Bruno Contrada non c'entra nulla. Non è stato mai rilevato nessun rapporto fra lui e Oliviero Tognoli, nè di amicizia nè di affari o roba del genere. Contrada e Tognoli non hanno mai frequentato gli stessi ambienti e non hanno mai avuto amicizie in comune. Tutto questo risulta dalle dichiarazioni degli stessi Contrada e Oliviero Tognoli, nonchè da quanto dichiarato da Mauro Tognoli e da Cosimo Di Paola.

DI PAOLA - "Io conobbi Bruno Contrada quando ero alla Squadra Mobile. Per me era un modello, lo stimavo tantissimo. Tutto faceva capo a lui. Io so per certo che Contrada non frequentava Tognoli e non è vero che i due si conobbero all'ISO (Industria Siciliana Ossigeno, nda)."

Contrada non ha mai avuto contatti non solo con Tognoli ma neppure con la famiglia di Tognoli o con suoi amici, collaboratori o, peggio, complici, nè quel famoso 12 aprile 1984, nè prima, nè dopo. Mai. Non è stato accertato nessun interesse d'ufficio o qualsivoglia altro motivo che potrebbe aver spinto Contrada ad aiutare Oliviero Tognoli.
Per quale motivo, dunque, Contrada avrebbe dovuto aiutare l'industriale bresciano? Qualcuno ha pensato che, pur non conoscendo Tognoli di persona, Contrada, aiutandolo, avrebbe inteso favorire esponenti delle cosche per le quali Tognoli lavorava. E invece no. Dal processo non è emerso alcun tipo di rapporto tra Contrada e Leonardo Greco o qualche altro esponente dell'organizzazione mafiosa per conto della quale Tognoli riciclava il denaro sporco.

Il già ricordato ispettore capo Bruno Sebastiani, che, come abbiamo visto, svolse indagini dirette sul caso, scagiona esplicitamente Contrada nell'udienza del 18 ottobre 1994:

SEBASTIANI - "Quando mi fu assegnata la missione e anche in seguito, non sentii mai fare da nessuno il nome di Bruno Contrada, neppure da Salvatore Tumino. Nessuno mi segnalò mai il nome di Contrada."



2.3. Questione di tempi...

Nell'interrogatorio dell'8 maggio 1989 a Lugano nessuno aveva contestato ad Oliviero Tognoli nulla circa la fonte da cui nel 1984 aveva appreso che la Polizia lo cercava per arrestarlo. E la fonte era, come abbiamo visto, suo fratello Mauro.
Perchè ci si deve ostinare a pensare che Oliviero Tognoli sia stato avvertito da Contrada? Oltre alle dichiarazioni dei testimoni riportate prima, anche la logica vuole che ciò sia impossibile. Bastano alcune considerazioni:

1) un'agenda di Bruno Contrada riporta alla pagina dell'11 aprile 1984 l'annotazione: "ore 9,30 De Luca qui". Vi è chi ha voluto ipotizzare che Contrada abbia appreso da Tonino De Luca che Tognoli era in procinto di essere arrestato nel quadro dell'operazione "Pizza Connection". Ma questo è stato negato dallo stesso De Luca e non è mai stato mai provato in nessun modo. Anzi, è stato provato non solo che Contrada non sapeva nulla dei problemi di Tognoli con la giustizia ma era all'oscuro anche della sua fuga da Palermo, come emerge dalla testimonianza resa proprio da Tonino De Luca nell'udienza del 28 ottobre 1994:

DE LUCA - "Contrada mi telefonò e mi disse: 'l'alto commissario De Francesco mi ha fatto un cazziatone perchè non abbiamo saputo della fuga di Tognoli: tu perchè non mi hai detto niente di questa fuga?'. Io mi scusai: non glielo avevo detto perchè non avevo avuto tempo."

2) ma, anche ipotizzando che Contrada avesse saputo la notizia da De Luca o da qualche altra fonte l'11 aprile, non si sarebbe forse dato da fare immediatamente se avesse davvero voluto aiutare Tognoli a scappare? Avrebbe forse atteso la mattina del 12 aprile per telefonargli in albergo, magari per dargli la possibilità di trascorrere una notte serena?
A parte la questione di tempi, come già sottolineato, è lecito supporre che un poliziotto esperto, intelligente e preparato come Bruno Contrada, se proprio avesse dovuto fare la sua "soffiata" a un ricercato, non l'avrebbe certo fatta per telefono, ben sapendo di poter incappare in qualche intercettazione. Sarebbe stato più sicuro, comodo e astuto recarsi personalmente a trovare Tognoli e avvisarlo de visu...

3) il mandato di cattura nei confronti di Oliviero Tognoli fu spiccato soltanto quattro giorni dopo quel fatidico 12 aprile. Si vorrebbero attribuire a Bruno Contrada anche qualità da novello aruspice, che avrebbe divinato dalle viscere di qualche animale l'emissione di quel provvedimento qualche giorno dopo?


2.4. Il sorriso della Gioconda

E torniamo al primo interrogatorio di Tognoli in Svizzera, quello del 3 febbraio 1989. Alla fine del colloquio, Tognoli fa cenno di sì con la testa e sorride al nome di Contrada. E Contrada viene condannato dalla giustizia italiana anche per questo cenno o per questo sorriso. Parafrasando il famoso adagio di padre Pintacuda, mentore gesuita di Leoluca Orlando e della cosiddetta "primavera di Palermo", ossia "il sospetto è l'anticamera della verità", il miglior abbrivio per una vera e propria caccia alle streghe (ma, si sa, gesuiti e domenicani erano il braccio operativo del Sant'Uffizio...), potremmo dire qui che "il sorriso è l'anticamera della verità". Un'anticamera che, in questo caso, è stata fatta diventare un vero e proprio salone di rappresentanza con tanto di lampadari pregiati e specchi con cornici di oro zecchino.
Esiste nel codice penale un reato ricollegabile ad un cenno a ad un sorriso? Cosa può significare un moto del corpo come un cenno o un semplice sorriso? Tutto e niente. Falcone, è vero, ebbe a dire agli interlocutori cui riferì del sorriso (il colonnello dei Carabinieri Mario Mori, il giudice Francesco Di Maggio, l'Alto Commissario Antimafia Domenico Sica, il giudice Francesco Misiani, come vedremo in seguito) che per un siciliano un sorriso può valere più di un intero discorso, ma sul punto dobbiamo chiederci due cose:

1) il giudice Giovanni Falcone era uomo da lasciarsi irretire da un semplice sorriso? Circa quattro anni prima aveva avuto l'occasione di incastrare Contrada dopo le prime dichiarazioni di Tommaso Buscetta, poi non suffragate da alcun riscontro: il caso si era chiuso col proscioglimento di Contrada in istruttoria, giusta la sentenza-ordinanza del 7 marzo 1985 a firma del consigliere istruttore Antonino Caponnetto (ne parliamo in altra parte di questo libro). E adesso? Non erano bastate le dichiarazioni di Buscetta e sarebbe bastato un sorriso?

2) è vero che nella mimica sicula, e annesso double talkin', un sorriso può assumere una valenza particolare. Ma in senso ambivalente. E' plausibile pensare che, sorridendo, Tognoli possa aver dato una sorta di conferma (ma non ha mai voluto che questa "conferma" fosse messa a verbale). Ma è plausibile anche pensare il contrario, e cioè che quel sorriso possa significare qualcosa del tipo "ma cosa sta dicendo?" et similia.
Ipotesi. E, purtroppo, il giudice Falcone non è qui per poter confermare o smentire nulla. Ma i giudici di Palermo hanno dato credito alla valenza potenzialmente accusatoria di quel sorriso.

Inoltre, risultando appurato che non fu Tognoli a pronunciare il nome di Bruno Contrada nè ad accennare minimamente a lui, ma fu Falcone a farlo (come vedremo fra breve), bisogna chiedersi perchè Falcone pensò proprio a Contrada. Vedremo fra breve che questo input potrebbe essere giunto a Falcone, in maniera vaga e con indicazioni assolutamente generiche, dal commissario svizzero Clemente Gioia e potrebbe, forse, aver avuto l'effetto di solleticare il sospetto di Falcone, già sollevato dalle dichiarazioni poi invalidate che, come abbiamo visto, Buscetta aveva rilasciato su Contrada nel 1984. Forse per questo motivo Falcone pensa a Contrada, ma, in definitiva, quando fa a Tognoli il nome dello stesso Contrada può farlo in un duplice senso:

1) il primo significato, quello avallato dall'accusa, è, grosso modo: "è stato davvero Contrada a farti fuggire? A me puoi dirlo...". Oppure:

2) "non mi dire che vuoi tirare anche tu in ballo Bruno Contrada", secondo significato che si ricollegherebbe al fatto che, in quel convulso 1989, il nome di Contrada era già da qualche tempo "chiacchierato" per via della assurda inchiesta giornalistica che nel 1985 era stata pubblicata sulla rivista I Siciliani circa un presunto ostacolo frapposto da Contrada ad un'operazione vòlta alla cattura di Tano Badalamenti in Spagna (è stato provato l'esatto contrario: ne parliamo nel capitolo dedicato alla vicenda) e per colpa dell'articolo del giornalista Roberto Chiodi su L'Espresso.

Qualunque sia il significato che un giudice voglia sposare, non siamo in ogni caso in quella collocazione "al di là" di quel "ragionevole dubbio" che consente di emettere un verdetto di condanna. Per almeno tre motivi:

1.
perchè Tognoli rifiuta di far mettere a verbale quella sorta di strana ammissione che, secondo l'accusa, avrebbe fatto ai danni di Contrada;

2.
perchè è risultato dagli interrogatori dei testimoni che Tognoli non fece mai sua sponte il nome di Contrada. Fu Giovanni Falcone a farlo. Lo sostiene, come abbiamo visto, il giudice Carla Del Ponte, ma lo hanno dichiarato anche il commissario della Polizia Svizzera Clemente Gioia e l'ex-magistrato Giuseppe Ayala.

Gioia non soltanto dichiara di non aver mai sentito Tognoli fare il nome di Bruno Contrada ma, addirittura, conferma di essere stato lui in persona, e proprio il 3 febbraio 1989, a riferire a Falcone un fatto importante che potrebbe aver mosso il giudice a fare lui a Tognoli il nome dello stesso Contrada. Nell'udienza del 28 giugno 1994, infatti,
Gioia, che è stato il primo poliziotto ad avere a che fare con Tognoli dopo la sua costituzione a Lugano il 12 ottobre 1988, ha ricordato di aver chiesto allo stesso Tognoli come fosse riuscito a fuggire, ricevendo la seguente risposta:

CLEMENTE GIOIA - "Tognoli mi rispose: 'Fui informato da un suo pari grado'. Fu informato che a giorni sarebbe stato emesso nei suoi confronti un mandato di cattura e quindi doveva scappare."

Il 3 febbraio 1989 Gioia riferisce a Falcone questa risposta di Tognoli e, probabilmente, è questo fatto che induce il magistrato a fare allo stesso Tognoli il nome di Contrada. Ma rimane sempre il dubbio che Falcone abbia voluto parlare di Contrada in maniera esplicitamente accusatoria oppure nel senso che abbiamo definito ironico e paradossale. Inoltre c'è da ricordare che, in quel momento, Contrada è tutto tranne che un "pari grado" di Gioia: mentre quest'ultimo, infatti, è un commissario, Contrada all'epoca era già questore. Gioia prosegue:

AVVOCATO MILIO - "Lei ha sentito mai Tognoli fare il nome del dottore Contrada?"

GIOIA - "Mai."

AVVOCATO MILIO - "A lei l'ha detto mai?"

GIOIA - "A me personalmente mai"

AVVOCATO MILIO - "Quindi il nome del dottor Contrada lei l'ha appreso per la prima volta dal dottor Falcone?"

GIOIA - "Giusto."

Nell'udienza dell'1 luglio 1994 tocca a Giuseppe Ayala, il quale, a proposito dell'interrogatorio condotto dal giudice Carla Del Ponte la mattina del 3 febbraio 1989 (cui lui assistette insieme a Giovanni Falcone), dice:

INGROIA - "E quindi non fece domande, invece, il dottore Falcone relativamente alla latitanza di Tognoli?"

AYALA - "No, durante quell'interrogatorio sicuramente no. Alla fine dell'interrogatorio più che una domanda fu quasi una battuta sul fatto 'dopo tanti anni ci vediamo, la sua latitanza...'. E Falcone disse a Tognoli, più o meno, ma il concetto era questo: 'Certo lei non vorrà far credere che è stata casuale la sua latitanza?'. E la cosa, per, come dire, per certi versi strana fu che Tognoli, anzichè rispondere come in questi casi è lecito aspettarsi, cioè in maniera reticente, con un gesto molto chiuso, accompagnato da un sorriso, disse: 'E' chiaro che non è stato casuale'. Questo avvenne ad interrogatorio finito."

INGROIA - "E lei ricorda se si tornò ad affrontare nel pomeriggio (l'interrogatorio del pomeriggio del 3 febbraio 1989 in sede di rogatoria internazionale, nda)
quello che nella mattina era stata solo una battuta del dottor Falcone? Cioè, il dottor Falcone rivolse domande in ordine alla latitanza del Tognoli?"

AYALA - "Sì, fu fatta una domanda e fu verbalizzata. La domanda era attinente alla... come mai, a chi lo avesse informato in modo tale da consentirgli di sottrarsi all'esecuzione di un provvedimento restrittivo della libertà personale... e ricordo che Tognoli fu estremamente... chiese tempo, insomma, disse 'mi riservo', non negò il fatto, non disse alcuna notizia specifica e disse che si riservava, insomma, doveva rifletterci..."

Ayala prosegue nei suoi ricordi:

AYALA - "Sì, la sera siamo andati a cena assieme tutti e tre (Ayala, Falcone e la Del Ponte, nda). Quando
sono arrivato, i due (Falcone e la Del Ponte, nda) già avevano iniziato a parlare su quello che era stata l'ammissione di Tognoli nel colloquio e cioè che ad avvertirlo sarebbe stato l'imputato, il dottore Contrada. (...) E Tognoli avrebbe risposto affermativamente alla domanda, cioè non fu Tognoli a dire, almeno che io ricordi, 'è stato ad avvertirmi il dottore Contrada', gli fu chiesto da Falcone se per caso non fosse stato Contrada ad avvertirlo e Tognoli avrebbe risposto affermativamente..."

Non fu mai Tognoli, dunque, ma fu Falcone, di sua iniziativa o, probabilmente, dopo l'imbeccata del commissario Gioia, a proferire il nome di Bruno Contrada. E, dato che, purtroppo, Falcone non può più confermare il motivo che lo indusse a farlo, possiamo pensare che lo fece in uno dei due sensi sopra ricordati. In senso accusatorio o in senso ironico e paradossale. Noi non abbiamo elementi certi per propendere per uno dei due significati. I giudici della V Sezione Penale del Tribunale di Palermo neppure, ma hanno propeso per il significato accusatorio, smentito peraltro dalle ammissioni dei fratelli Tognoli sul fatto che l'autore della telefonata fu Mauro Tognoli, e dalle ammissioni di Cosimo Di Paola sul fatto che fu lui stesso a consigliare a Oliviero Tognoli di tenersi alla larga da mafiosi di vario genere.
Il dato di fatto obiettivo, sul quale dovrebbe basarsi un verdetto, è che Tognoli non fece mai il nome di Bruno Contrada esplicitamente e che rifiutò di far mettere a verbale quella strana ammissione che fece a Falcone. Sulle ragioni che spinsero Falcone a fare il nome di Contrada non ci è dato sapere altro: possiamo limitarci alle due ipotesi avanzate prima. Ma i giudici palermitani hanno dilatato l'ipotesi accusatoria fino al rango di tesi assoluta;

3.

c'è da considerare, infine, ricollegandoci a quanto appena detto, che tipo di sospetti Falcone potesse nutrire nei confronti di Contrada. Anche qui l'unico dato certo parla in favore dello stesso ex-capo della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo. Infatti
il generale dei Carabinieri Mario Mori, già comandante del ROS, interrogato dai sostituti procuratori della Repubblica di Palermo Guido Lo Forte e Antonio Ingroia, conferma a sua volta che Falcone non aveva mai sospettato di Contrada. Sia detto per inciso, per questa dichiarazione Mori verrà indagato per falsa testimonianza, ma il fascicolo verrà presto archiviato.
Nell'udienza del 25 ottobre 1994 il generale Mori, all'epoca colonnello, dichiara:

AVVOCATO MILIO - "Lei ha avuto occasione di parlare del dottore Contrada in ordine ad una presunta fuga, ad opera dello stesso, di tale Tognoli Oliviero, con il dottor Falcone?"

MORI - "Sì. Falcone disse che, sospettando in qualche modo del dottor Contrada, al termine dell'interrogatorio del Tognoli, quindi, diciamo, a carte chiuse, a verbale chiuso, avrebbe chiesto quasi come una sfida, quasi come una scommessa al Tognoli. Dice: 'Ma se io dico un nome su chi secondo me è stato colui che l'ha avvertita, lei me lo dice?'. Tognoli lo guardò senza espressione e lui gli fece il nome del dottor Contrada. Mi disse lui, Falcone: 'Tognoli non disse nè sì nè no, mi sorrise...'. Adesso non me lo ricordo, siccome questo racconto me lo ha fatto più di una volta, una volta da solo, sicuramente, e un'altra volta con il dottor Sica, comunque, o al singolare o al plurale, disse: 'Voi che siete settentrionali, che siete polentoni, queste cose non le capite, ma per noi siciliani questo sorriso era più che un discorso...'."

AVVOCATO MILIO - "E quindi non le riferì che il Tognoli avesse, al di là e oltre il sorriso, il sorrisetto, pronunciato il nome Contrada..."

MORI - "Assolutamente, assolutamente."

AVVOCATO MILIO - "Il dottor Falcone disse che Tognoli aveva pronunciato il nome di Contrada come persona che l'aveva informato o no?"

MORI - "No. Parlò di sorriso ma non fece nome... Falcone mi disse che Tognoli non fece mai esplicitamente il nome di Bruno Contrada."

PRESIDENTE INGARGIOLA - "Nel secondo incontro con Falcone, e stavolta con Sica, Falcone riferì l'episodio negli identici termini con cui l'aveva riferito la prima volta? Le sto parlando del sorriso..."

MORI - "Sì. Parlando del sorriso, esattamente."

La versione del semplice sorriso anzichè di un esplicito "sì" e del cenno affermativo del capo (come sostiene, invece, la giudice Del Ponte) è avallata anche dal già citato giudice Francesco Di Maggio, che, nell'udienza del 16 settembre 1994, dichiara:

DI MAGGIO - "Dell'affare Tognoli io conosco un episodio avvenuto proprio nell'ufficio dell'Alto Commissariato Antimafia. Eravamo presenti io, il collega Misiani (il giudice Francesco Misiani, nda), l'Alto Commissario Sica e Giovanni Falcone. Falcone era reduce da un interrogatorio di Oliviero Tognoli a Lugano, e aveva riferito in quella circostanza di essere pressocchè certo che la persona indicata nel caso dell'interrogatorio di Tognoli come la talpa, cioè quella che aveva riferito del provvedimento restrittivo della libertà personale emesso nei suoi confronti così consentendogli di fuggire, dovesse identificarsi in Contrada. Ci fu un discorso abbastanza serrato, io chiesi espressamente a Falcone se era stato fatto il nome di Contrada. Falcone lo escluse e aggiunse, però, che era stato costruito un identikit nel quale aveva avuto modo di riconoscere perfettamente il dottore Contrada. Disse infatti che il Tognoli gli aveva parlato di un suo conoscente che era stato un poliziotto e che non lo era più. Io chiesi poi a Falcone se avesse pòsto specificatamente la domanda: 'ma si tratta di Contrada?' e Falcone rispose: 'certo che ho pòsto la domanda'. Chiesi, poi, se il Tognoli avesse risposto che si trattava di Contrada e Falcone disse: 'No, mi ha risposto con un sorriso'. E io mi sono permesso di chiedere a Falcone: 'Ma come hai interpretato questo sorriso?'. E lui mi disse: 'Mi stupisco che proprio tu che sei siciliano come me mi ponga questa domanda'."

PRESIDENTE INGARGIOLA - "Quando lei chiese a Falcone se aveva chiesto espressamente a Tognoli se era stato Contrada ad avvisarlo, Falcone si limitò a fare, a dire: 'C'è stato un sorriso?'."

DI MAGGIO - "Falcone mi disse: 'Certo che gliel'ho chiesto, e mi ha risposto con un sorriso'. Ed io aggiunsi: 'Ma come era da interpretare, insomma, questo sorriso, come lo hai interpretato?'. E lui mi rispose: 'Mi stupisci tu che sei siciliano come mi abbia fatto la domanda'. Come dire, era sicuramente un sorriso di assenso."

PRESIDENTE INGARGIOLA - "Non aveva risposto 'sì'?"

DI MAGGIO - "No, non ci sarebbe stata ragione, non ha aggiunto che il sorriso fu accompagnato da un 'sì'."

PRESIDENTE INGARGIOLA - "Siccome a noi risulta da altre fonti che avrebbe detto 'sì'..."

DI MAGGIO - "Presidente, ho l'obbligo di dirle la verità!"

Anche la testimonianza resa
nell'udienza del 14 settembre 1994 dal giudice Francesco Misiani (altro collaboratore, come Di Maggio, dell'Alto Commissario Antimafia Domenico Sica) risulta piuttosto categorica nel riaffermare che Tognoli non pronunciò il famoso "sì" ma si limitò a dei cenni. E anche Misiani riferisce di aver saputo ciò dallo stesso Giovanni Falcone:

MISIANI - "Il senso del discorso era quello che ho fatto prima e lo ripeto adesso. Cioè che Falcone mi aveva riferito che Tognoli gli aveva fatto in qualche modo, quale fosse il modo, il sorriso, l'accenno, la strizzatina d'occhio non glielo so dire, gli aveva fatto capire in qualche modo che era Contrada la persona che aveva avvisato lo stesso Tognoli."

E il terzo interlocutore di Falcone sulla vicenda, ossia l'allora Alto Commissario Antimafia Domenico Sica, dichiara, anch'egli nell'udienza del 14 settembre 1994:

AVVOCATO SBACCHI - "Lei ricorda se col dottore Falcone o con altri magistrati o con altri funzionari o con chiunque ebbe a parlare o altre persone ebbero a parlare con lei del dottore Contrada e riferirle di collegamenti, di sospetti, di collusioni del dottore Contrada con ambienti criminali e mafiosi in particolare?"

SICA - "No, onestamente no. Proprio non lo ricordo, ma sarei portato ad escluderlo. Ma non me lo ricordo assolutamente. Non era un fatto a me noto."

AVVOCATO SBACCHI - "Se, a proposito dell'episodio Tognoli, il dottore Falcone si espresse con sospetti, convinzioni, opinioni, ipotesi o certezze..."

SICA - "No. (...)"

Nell'udienza del 17 gennaio 1995 il prefetto Luigi De Sena dichiara, a proposito delle calunnie che L'Espresso aveva rivolto a Contrada nell'estate del 1989 (e di cui parleremo nel prossimo paragrafo):

DE SENA - "L'Espresso calunniò Contrada e il direttore del SISDE Riccardo Malpica mi incaricò di parlare con Falcone per appurare la cosa (Contrada, all'epoca, era già al SISDE, nda). A Roma Falcone mi disse che non c'era alcun sospetto fondato su Contrada e si poteva trattare anche di un'altra persona. Certo, ci fu una battuta d'arresto per quanto riguarda la promozione di Contrada, ma poi fu superata appena si chiarì che non c'era nulla a suo carico: il direttore del SISDE Malpica ed il prefetto Parisi, Capo della Polizia, appoggiarono senza remore la promozione di Contrada a dirigente generale della Polizia di Stato."

Queste cose De Sena le afferma in risposta ad una domanda della difesa. Sentite cosa risponde al pubblico ministero Ingroia nel controinterrogatorio:

DE SENA - "Falcone mi esortò a fare un comunicato stampa in difesa di Contrada, promettendomi che lo avrebbe sostenuto a sua volta con un suo personale comunicato stampa."

Cade, dunque, in base a questa testimonianza (e alla "convergenza del molteplice" con quelle rese dai giudici Sica e Di Maggio e dal colonnello Mori) l'idea che Falcone avesse un motivo reale per sospettare di Bruno Contrada.

Sinisi



2.5. Roba da Chiodi e da... Acciari


Il sole dell'estate 1989 distende i suoi caldi e pigri raggi su un'ondata di attacchi giornalistici condotti dal settimanale L'Espresso nei confronti di Bruno Contrada. Attacchi che proseguono sulla scia di quello sferrato all'ex-capo della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo già quattro anni prima da I Siciliani.
Si comincia con l'articolo di Sandro Acciari che
L'Espresso pubblica il 23 luglio 1989 e che reca come titolo "Il Corvo, la Talpa, il Falcone": ne parliamo nel capitolo dedicato alle "Accuse a Contrada e D'Antone".
Il numero 32 del medesimo settimanale, uscito il 13 agosto 1989, contiene invece un articolo, intitolato "Segreti di Servizi", in cui Roberto Chiodi scrive: "Tognoli, benchè ricercato con un mandato di cattura internazionale, riuscì a restare latitante per oltre quattro anni. E questo grazie alla protezione che, in un paio di occasioni, gli venne accordata. La prima volta quando una opportuna 'soffiata' gli consentì di evitare la cattura. La seconda quando un funzionario del SISDE lo fece espatriare. Tognoli ne ha fatto il nome ai giudici ticinesi: si tratta di Bruno Contrada."

Ora, noi abbiamo visto con dovizia di particolari che Tognoli non ha "fatto il nome" di nessuno se non del fratello Mauro come autore della famosa telefonata del 12 aprile 1984, e non ha mai fatto il nome di Bruno Contrada.
Sul perchè Chiodi abbia scritto quello che ha scritto, rimandiamo il lettore alle parole usate dagli avvocati Milio e Sbacchi per descrivere il comportamento di parte della stampa in quel frenetico e drammatico scorcio del 1989 (parole che riportiamo ancora nel capitolo dedicato alle
Accuse a Contrada e D'Antone).
Per il resto, giova ricordare la testimonianza di Antonio De Luca, all'epoca dell'articolo di Chiodi in servizio all'Alto Commissariato Antimafia, il quale, nell'udienza del 28 ottobre 1994, ha ricordato:

DE LUCA - "Dopo l'attacco della stampa a Contrada, nel 1989, l'Alto Commissario Antimafia Domenico Sica mi chiese notizie su Contrada. Io difesi Contrada dicendo che era un funzionario adamantino e che quelle della stampa erano soltanto fandonie."

v. testimonianza di Chiodi






3. SFIDA AL LETTORE



La sfida questa volta non la pone soltanto il vostro umile cronista. La pone anche il presidente della Camera dei Ricorsi Penali della Corte d'Appello di Palermo, il quale, in data 31 marzo 1993, scrive:
"A questa Camera dei Ricorsi Penali pare comunque inverosimile che tale o talaltro magistrato che ha controfirmato i verbali resi da Tognoli deponga, poi, attribuendo allo stesso Tognoli dichiarazioni diametralmente opposte a quelle verbalizzate. Se così non fosse, la verbalizzazione diverrebbe inutile, bastando il ricordo dell'interrogante nel dire dell'interrogato, ciò che palesemente sarebbe meno affidabile del verbale scritto, controfirmato da entrambi."
E va ricordato che il giudice Lehmann, presente all'interrogatorio reso da Oliviero Tognoli l'8 maggio 1989, ha confermato il contenuto del verbale da lui stesso controfirmato. E in quel verbale, come abbiamo visto, non c'è traccia di Bruno Contrada.
Come possa, poi, la V Sezione Penale del Tribunale di Palermo aver accolto le tesi dell'accusa e aver dato credito all'ipotesi che a far fuggire Tognoli sarebbe stato lo stesso Contrada, questo lo chiediamo al lettore. Noi non abbiamo la risposta.

Comunque la si voglia mettere, da qualunque punto di vista si scelga di osservare l'intera vicenda, rimane il fatto che Oliviero Tognoli non ha mai fatto espressamente il nome di Bruno Contrada come suo informatore.
Nel primo interrogatorio, quello del dicembre 1988, Tognoli non parla minimamente di Bruno Contrada. Un paio di mesi dopo, alla fine dell'interrogatorio reso al giudice Del Ponte, Tognoli lascia capire che è stato Contrada ad avvertirlo del fermo di polizia ai suoi danni nella villa di Concesio, o comunque del fatto che la polizia palermitana e quella bresciana sono sulle sue tracce. Intanto c'è da ribadire ciò che abbiamo specificato più volte, e cioè che Oliviero Tognoli non ha mai fatto il nome di Bruno Contrada di sua iniziativa. In base alle testimonianze, l'iter fu il seguente: il commissario Gioia, a precisa domanda, si sente rispondere da Tognoli che l'informazione del 12 aprile 1984 era stata fornita da un "suo pari grado" (suo, ovviamente, del commissario) e lo riferisce a Falcone. Falcone fa il nome di Contrada a Tognoli e questi, secondo l'accusa, gli lascia intendere che quel nome è azzeccato. Ma in che maniera, e solo su domanda di Falcone, Tognoli lascia capire allo stesso Falcone che quel "pari grado" del commissario Gioia sarebbe Contrada?

1) Secondo la giudice Del Ponte dicendo sì e facendo un cenno affermativo col capo. Ma, come emerso dalle dichiarazioni della stessa Del Ponte, nel momento del fantomatico cenno ella stava controllando il verbale e dunque non poteva guardare in faccia Tognoli; Ayala, invece, che guardò in faccia Tognoli, ha riferito soltanto di un sorriso.

2) anche il generale Mori racconta che Falcone gli riferì per ben due volte (la prima volta solo a lui, la seconda a lui e al giudice Sica), che al nome di Bruno Contrada Tognoli si limitò ad un sorriso. Ed altrettanto fa il giudice Francesco Di Maggio, che ricorda che Falcone gli raccontò, al proposito, soltanto di un mero sorriso da parte di Tognoli.

Un sorriso. Un semplice sorriso. Che, come abbiamo detto, può significare tutto ed il contrario di tutto. E che non fu, infatti, sufficiente motivo per nessun magistrato, italiano o elvetico, al fine di iniziare una qualsivoglia azione penale nei confronti di Bruno Contrada: la cosa non ebbe alcun seguito, e ciò significa che non fu presa in considerazione. Checchè se ne voglia far credere riesumandola nella grottesca sede del processo Contrada.
Resta il fatto che, parole, cenni o sorrisi,
in seguito Tognoli non vorrà mai far mettere a verbale questa sua "dichiarazione". Siamo, come abbiamo precisato, al 3 febbraio 1989. Quanto possano essere ambivalenti e di multiforme significato un cenno o un sorriso, lo abbiamo detto nel paragrafo precedente. Quanto sia strano che Tognoli non abbia mai voluto far mettere a verbale questa sua sorta di "ammissione" che incolperebbe Contrada, ce lo chiediamo adesso. E ci chiediamo anche se questa sua contrarietà a rendere ufficiale la sua "accusa" a Contrada non sia dipesa non tanto dalla paura per l'incolumità sua o della sua famiglia ma dal fatto che, in realtà, Tognoli non voleva far mettere a verbale una dichiarazione falsa perchè sapeva benissimo che Contrada non c'entrava niente. Come poi lo stesso imprenditore bresciano confermerà.
Poco più di tre mesi dopo, infatti, l'8 maggio 1989, Tognoli, pur ammettendo di conoscerlo, non parla affatto di Contrada come suo "informatore", chiamando, invece, in causa in questo ruolo il fratello Mauro e Cosimo Di Paola. E questa volta fa mettere a verbale la dichiarazione (sostantivo per il quale, in questo caso, non usiamo virgolette). Forse perchè questa volta sta dicendo la verità.
Ad un giudice dovrebbe bastare un dato formale come la verbalizzazione di una dichiarazione, che, rebus sic stantibus, scagiona di fatto Bruno Contrada. In ogni caso, se proprio si vuol pensare ad un mendacio da parte di Tognoli, per quale motivo l'imprenditore avrebbe dovuto mentire quando chiamava in causa il fratello e l'amico e invece avrebbe dovuto dire la verità quando tirava in ballo Contrada? Non ci sono prove che accusino quest'ultimo, anzi, al contrario, ci sono le concordanti dichiarazioni di Mauro Tognoli e di Cosimo Di Paola (chiamiamola pure "convergenza del molteplice", anche se Tognoli e Di Paola non si sono mai macchiati di delitti), i quali hanno ammesso il primo di aver fatto lui la telefonata che la mattina del 12 aprile 1984 ha messo in preallarme l'imprenditore, ed il secondo di aver effettivamente consigliato all'imprenditore medesimo di non intrattenere più rapporti ambigui e pericolosi con esponenti delle cosche.
Sul perchè Giovanni Falcone fece il nome di Contrada a Tognoli abbiamo cercato di dare una risposta nel paragrafo precedente. E quanto abbiamo detto viene confortato dal fatto che è venuto fuori con evidenza
che Falcone non aveva motivo di sospettare di Contrada, come confermato dal generale dei Carabinieri Mario Mori e dal prefetto Luigi De Sena, il quale ricorda addirittura che Falcone lo esortò (e il verbo è importante...) a fare un comunicato stampa in difesa di Bruno Contrada promettendogli che lo avrebbe sostenuto a sua volta con un comunicato stampa di proprio pugno.
Si può ritenere che Falcone avesse motivo di sospettare di Contrada? Perchè, dopo quelle vicende svizzere, Falcone, se era davvero convinto del ruolo svolto da Contrada, non proseguì il suo lavoro in tal senso? Qualcuno può affermare che dalle indagini svolte e dalle escussioni dei testimoni siano risultati altri dati incontrovertibili oltre l'unica certezza rappresentata dal fatto che quella fatidica telefonata la fece Mauro Tognoli?

Domande. Alle quali i giudici palermitani hanno ritenuto di dare una risposta che ha contribuito a serrare il lucchetto della cella alle spalle di Bruno Contrada.
Ma ci congediamo da questa vicenda con un'altra domanda, cercando di dare ad essa una risposta a nostra volta.
Il sorriso di Tognoli inchioda Contrada? Beh, meglio Tognoli dei "pentiti", comunque. Almeno Tognoli sorrideva.



SALVO GIORGIO