Tuesday, May 15, 2007

I PRESUNTI RAPPORTI DI CONTRADA CON STEFANO BONTADE



1. LE ACCUSE


1.1. La dichiarazione del "pentito" Tommaso Buscetta

"Stefano Bontade mi confermò che potevamo fidarci di Contrada" (dichiarazione resa in istruttoria il 25 novembre 1992 e, successivamente, in aula il 25 maggio 1994). Ancora una volta la cognizione del "pentito" non è diretta ma de relato, ossia Buscetta dice cose che non conosce personalmente ma che gli sono state riferite da un altro, in questo caso Stefano Bontade, ucciso dai "corleonesi" nel 1981 e dunque non in grado di confermare nè smentire quanto asserito da Buscetta.


1.2. La dichiarazione del "pentito" Salvatore Cancemi

"Ricordo che Pippo Calò mi disse che il dottor Bruno Contrada era 'nelle mani' di Stefano Bontade, al quale forniva importanti informazioni. Contrada aveva fatto ottenere a Bontade la patente ed il porto d'armi"
(dichiarazione del 10 novembre 1993 del pentito Salvatore Cancemi, uno degli autori della strage di Capaci, ai magistrati palermitani Guido Lo Forte, Roberto Scarpinato ed Enza Sabatino, ribadita dallo stesso pentito in aula, durante il processo Contrada, prima il 28 aprile 1994 e poi l'11 ottobre dello stesso anno). Nell'udienza del 28 aprile 1994, in particolare, Cancemi aggiunge di aver appreso, nel 1976 (appena entrato in Cosa Nostra e poco prima del suo arresto, avvenuto ad opera di Contrada e di cui parleremo fra poco) dei rapporti tra Contrada e Bontade non solo da Pippo Calò (capo mandamento di Porta Nuova) ma anche da Giovanni Lipari (capo decina, o sottocapo, della famiglia di Porta Nuova) e da altri soggetti appartenenti a Cosa Nostra, visto che tale notizia era di dominio pubblico all'interno dell'organizzazione mafiosa a tal punto da far dire allo stesso Cancemi: "era come dire pane e pasta in Cosa Nostra che il Contrada era nella mani di Cosa Nostra".

Gioverà ricordare che Salvatore Cancemi, nell'udienza del 28 aprile 1994, ha riferito di essere entrato in Cosa Nostra quattro o cinque mesi prima del suo arresto per rapina a mano armata, avvenuto il 22 maggio 1976 per opera della Squadra Mobile di Palermo diretta da Bruno Contrada. Dopo l'arresto, Cancemi viene denunziato alla Procura della Repubblica di Palermo per associazione a delinquere, rapina, sequestro di persona e porto abusivo d'armi con il rapporto E/76 della Squadra Mobile, Seconda Sezione, che reca la firma proprio di Bruno Contrada. Nel rapporto si riferiva, tra l'altro, che "è da ritenere con certezza che il predetto faccia parte di un agguerrito sodalizio criminoso dedito alla perpetrazione di gravi delitti. Agli atti d'ufficio risulta già denunziato per delitti, indiziato di appartenenza alla mafia e in atto diffidato ai sensi dell'art. 1 nota legge". In seguito a tale denuncia, Cancemi viene processato e condannato. Verrà scarcerato tre anni dopo, nell'agosto del 1979.

Nell'udienza del 28 aprile 1994, Cancemi dichiara la sua "verità". Ascoltiamo le sue parole:

INGROIA - "Lei è a conoscenza, in particolare, di rapporti tra esponenti di Cosa Nostra e il dottore Contrada?"

CANCEMI - "Sì, io le posso dire che in Cosa Nostra si parlava del dottore Contrada che era una persona molto vicina a Stefano Bontade e a Rosario Riccobono."

INGROIA - "Da chi e quando ha appreso queste cose?"

CANCEMI - "L'epoca dal 1976 in poi, direttamente da Giovanni Lipari e Giuseppe Calò. E da qualche altro. Diciamo, c'erano diverse voci che si sentivano queste cose..."

Questo significa che, poichè Cancemi, come abbiamo visto, fu affiliato alla famiglia di Porta Nuova all'inizio del 1976 ma fu sùbito arrestato il 22 maggio 1976 (e proprio ad opera di Contrada) ed uscì di galera nell'agosto del 1979, le notizie avute su Bruno Contrada quale persona molto vicina a Stefano Bontade e Rosario Riccobono, notizie il cui apprendimento da parte sua lo stesso Cancemi colloca nell' "epoca dal 1976 in poi", deve averle per forza di cose apprese tra il gennaio e il maggio del 1976. Appare evidente, allora, come questa situazione di "vicinanza" di Contrada a quei boss dovesse risalire ad un po' di tempo prima onde poter divenire argomento di conversazione tra mafiosi come un fatto assodato.
Ma proprio in quel periodo l'attività investigativa di Contrada raggiunse uno dei suoi picchi, anche e soprattutto in conseguenza dell'omicidio dell'agente Gaetano Cappiello. E fu un'attività diretta in particolare contro Rosario Riccobono, come dimostrano gli innumerevoli atti e rapporti di denuncia et similia che Contrada realizzò e firmò in quegli anni, atti acquisiti al fascicolo processuale e di cui parliamo in altra parte di questo libro. Circa Stefano Bontade, vedremo più dettagliatamente tra poco quali furono le efficaci azioni di contrasto pòste in essere nei suoi confronti da parte di Bruno Contrada: ci basti ricordare, in questo momento, che Contrada fu il primo, nel 1963, ad individuare Bontade come mafioso, caldeggiò ed ottenne contro di lui la revoca del porto d'armi (che Bontade non riebbe mai più) ed una diffida, lo denunciò e lo portò alla sbarra col "rapporto dei 114" del 1971 (accusandolo di associazione a delinquere di stampo mafioso, reato per cui Bontade riporterà in primo grado una condanna a tre anni di reclusione, nel 1974, venendo poi assolto in appello nel 1976), lo propose per la misura di prevenzione del soggiorno obbligato (cui Bontade fu costretto a partire dal 1970) e non risultò mai coinvolto nella vicenda relativa al rilascio della patente in favore del "principe di Villagrazia". Rebus sic stantibus, quali erano i motivi per cui dei mafiosi, a metà degli anni '70 e dopo la condanna di Bontade in primo grado a tre anni di reclusione nell'àmbito di un processo originato proprio dalle indagini condotte da Bruno Contrada, avrebbero dovuto parlare dello stesso Contrada come di un amico di Bontade?

Sempre nell'udienza del 28 aprile 1994, Cancemi continua con i suoi racconti fantastici:

CANCEMI - "Pippo Calò mi disse di Contrada: ' 'Stu sbirru è unu chi mancia...'."

Secondo Cancemi, dunque, sempre per sentito dire da altri, Contrada sarebbe stato un corrotto. Ma Cancemi non ha riferito un solo episodio, un solo atto di corruzione di cui si sarebbe reso responsabile lo stesso Contrada, nè per cognizione diretta nè per averlo saputo da confidenze altrui. Nè un siffatto episodio è mai emerso dalle innumerevoli indagini che sono state condotte. "Quindi" - scrivono gli avvocati Sbacchi e Milio nell'atto di impugnazione in appello della sentenza di primo grado "perlomeno su questo argomento si sarebbe dovuto affermare che Cancemi era stato mendace o che mendace fosse stato Calò che gli aveva suggerito le accuse. Ma ciò non è avvenuto perchè l'attendibilità del pentito non poteva essere incrinata per nulla e in nulla."


1.3. La dichiarazione del "pentito" Gaspare Mutolo

Gaspare Mutolo
racconta ai giudici di aver appreso dal boss Rosario Riccobono (ovviamente, all'epoca delle dichiarazioni di Mutolo, morto...) che Stefano Bontade prese i primi contatti con Contrada tramite il conte Arturo Cassina, noto imprenditore palermitano, che intratteneva rapporti con lo stesso Bontade. Il primo contatto tra Contrada e Cassina, secondo Mutolo, sarebbe stato determinato dall'ingresso di Contrada nell'Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro. Tuttavia,
nell'udienza dell'1 giugno 1995 nell'aula-bunker del carcere di Rebibbia, a Roma, Gaspare Mutolo, controinterrogato dall'avvocato Sbacchi, è costretto a riconoscere un elemento che, in un Paese normale, sarebbe stato determinante a favore dell'imputato. Mutolo, infatti, non può esimersi dall'affermare:

"Non ho mai visto direttamente Contrada in compagnia di Bontade o nella villa di Bontade".

In seguito, Mutolo aggiunge che un altro tramite fra Contrada e Bontade, in un periodo successivo, fu il commissario Pietro Purpi. Ma, sempre nella sopracitata udienza di Rebibbia, controinterrogato stavolta dall'avvocato Milio, Mutolo vacilla ancora. Il "pentito" ex-scagnozzo di Riccobono dichiara, infatti:

"Io ho visto che Bontade si incontrava con Purpi in una villa di Villagrazia, vicino Palermo, ma non ho mai sentito Bontade e Purpi parlare di Contrada".

Mutolo riferì ai giudici anche che, oltre che di Cassina, Bontade, per "avvicinare" e cercare di assoggettare personaggi per lui scomodi, si serviva anche dell'ex-ministro democristiano Giovanni Gioia, morto nel 1981.


1.4. Le dichiarazioni del "pentito" Francesco Marino Mannoia

1.

Francesco Marino Mannoia riferisce di un mai accertato incontro tra il suo capofamiglia Stefano Bontade e Giovanni Teresi (cognato dello stesso Bontade che, insieme a Enzo Sutera, come vedremo, era stato assunto per lavorare in un'impresa del gruppo facente capo al conte Arturo Cassina). In questo colloquio, Bontade e Teresi avrebbero parlato di un incontro da organizzare fra lo stesso conte e Bruno Contrada.
"Successivamente io sento di nuovo il nome del dottore Contrada durante una mia visita nella casa di Bontade, nella villa, esattamente eravamo vicino il baglio..." - racconta Mannoia nell'udienza del 29 novembre 1994 - "Bontade, lui era con Giovanni Teresi, detto ' 'u pacchiuni' (il grosso, nda), nostro consigliere di allora, e parlavano di Contrada e Cassina, del conte Cassina. Parlavano di appuntamenti, di riunioni, ma, come le dico, io non ho mai approfondito il tema della discussione, mai sono andato avanti per potere saperne di più, perchè completamente non mi interessava. (...) Io non ero interessato, sentivo solo loro parlare del dottore Contrada, del conte Cassina, di creare un appuntamento, vediamo in questi giorni di riunirci e di parlare ma non mi sono interessato di approfondire l'argomento prima perchè non mi interessava e secondo perchè non ero interessato (sic!, nda). Questo avvenne verso il 1979 circa."
Il 14 marzo 1983 Contrada e Cassina si sarebbero effettivamente incontrati in via Thaon de Revel, a Palermo, ma per una questione assolutamente ordinaria, come vedremo fra breve. E Bontade era già morto da due anni.
Sempre nell'udienza del 29 novembre 1994, il PM domanda a Mannoia:

INGROIA - "Lei è a conoscenza di rapporti tra Bontade e Cassina o tra Teresi e Cassina?"

MANNOIA - "Ci sono stati sempre dei... ne ho sentito parlare... ci sono stati ultimi rapporti, ma io non li ho mai visti insieme. Io appartenevo alla famiglia Bontade e quindi era un soldato alle sue dipendenze... io ero alle dirette dipendenze... i rapporti erano diretti... eravamo in dieci ad avere questi rapporti diretti col rappresentante Bontade. Come non ho mai conosciuto e visto in faccia il dottore Contrada."

INGROIA - "Lei sa come nacque il rapporto tra Stefano Bontade ed il dottore Contrada, cioè se vi fu un tramite tra Bontade ed il dottore Contrada?"

MANNOIA - "Fu quella discussione, io ho saputo che il tramite è stato Cassina... il tramite, diciamo, del dottore Contrada era Cassina perchè era Cassina che doveva creare l'appuntamento per vedersi."

INGROIA - "Era un appuntamento in cui Stefano Bontade si doveva incontrare col dottore Contrada, è esatto?"

MANNOIA - "Sì. Dovevano incontrarsi tutti e quattro, ma lui, Bontade, diceva a Teresi Giovanni ' 'u pacchiuni' di dire al conte Cassina di organizzare l'incontro con Contrada. Il luogo? No, questo non lo ricordo. Se questo incontro avvenne? No, non lo ricordo, non mi interessai."

Nel controinterrogatorio da parte della difesa, l'avvocato Sbacchi pone alcune domande precise e circostanziate a Mannoia:

AVVOCATO SBACCHI - "Lei sa se Contrada era amico di Bontade?"

MANNOIA - "So che erano amici, cioè... avevano rapporti... riferisco solo io che ho sentito, nè una parola in più nè una parola in meno... perchè Bontade, parlando con Giovanni Teresi, detto ' 'u pacchiuni', parlavano del conte Cassina e di Contrada di creare appuntamenti per vedersi. Ora non ho approfondito l'argomento, non mi interessava approfondirlo, più di questo non so."

AVVOCATO SBACCHI - "Quindi chiaramente lei non li ha mai visti insieme Contrada e Bontade?"

MANNOIA - "Non li ho mai visti insieme."

PRESIDENTE INGARGIOLA - "Che significa creare un appuntamento? E c'erano già stati incontri precedenti oppure no?"

MANNOIA - "Avevano necessità di vedersi. Ma non so per quali motivi. Incontri precedenti? No, questo non lo so."

Come al solito, una grande precisione. Degna di un orologio svizzero. Mannoia non ha mai visto Contrada e Bontade insieme. Dice testualmente "So che erano amici, cioè... avevano rapporti... (...) perchè Bontade, parlando con Giovanni Teresi, detto ' 'u pacchiuni', parlavano del conte Cassina e di Contrada di creare appuntamenti per vedersi", però non sa dove quel fantomatico incontro fra Contrada e Cassina avrebbe dovuto verificarsi, anzi, non sa neppure se avvenne o se ne avvennero altri perchè, come riferisce lui stesso con encomiabile brillantezza, "non mi sono interessato di approfondire l'argomento prima perchè non mi interessava e secondo perchè non ero interessato".
Forse, a parte la ridondanza lessicale, qui potremmo dargli ragione. Non era a tal punto interessato a quest'argomento che, tanto per cambiare, lo aveva completamente rimosso dalla sua mente e non ne aveva fatto alcun cenno ai magistrati inquirenti nell'interrogatorio del 27 gennaio 1994.
Un altro difetto di memoria. Forse dovrebbero pagarlo in fosforo. Abbiamo già ricordato, nel capitolo dedicato all'appartamento di via Guido Jung, la strana "amnesia" di Marino Mannoia del 2 e del 3 aprile 1993, quando dichiarò, rispettivamente ai magistrati nisseni e poi ai magistrati palermitani, di non sapere nulla sul conto di Contrada. Il 27 gennaio 1994, però, improvvisamente, Mannoia aveva ricordato tutto. O così sembrava. Chi poteva immaginare che la stanchezza, gli occhi sanguinanti, lo stress, la devastazione psicofisica, o chissà cos'altro, sarebbero tornati ad agire subdolamente anche il 27 gennaio 1994, quando ormai il miracolo della memoria ritrovata sembrava compiuto ed in procinto di essere vagliato dalla Santa Sede in persona? E invece in quel freddo gennaio del 1994 Mannoia ricorda prodigiosamente tante cose ma non riesce ancora a ricordare la storia dell'allegra brigata Bontade-Teresi-Cassina-Contrada: occorrerà qualche mese in più e la più mite aria autunnale del novembre dello stesso anno. Del 29 novembre, per l'esattezza.

"La spiegazione del comportamento di Mannoia" - scrivono gli avvocati Milio e Sbacchi nell'atto di impugnazione in appello della sentenza di primo grado "va ricercata in altre motivazioni che si ricollegano alla parte che ha avuto nel procedimento penale a carico di Contrada: di conferma e avallo di precedenti dichiarazioni di altri pentiti, anche per creare le condizioni per la configurazione della 'convergenza molteplice' delle accuse".
Analizzando gli atti processuali, infatti, si riscontra che:

a.

Il "pentito" Gaspare Mutolo, nell'udienza del 7 giugno 1994, ossia più di cinque mesi prima dell'udienza del 29 novembre 1994 in cui ha testimoniato Mannoia, aveva dichiarato: "... Il Riccobono mi dice, tramite il conte Cassina ed un'altra persona, che Stefano Bontade fu il primo ad avere questi contatti, diciamo amichevoli, con il dottore Contrada che dopo, insomma, si sono rafforzati anche con il Riccobono...";

b.

Il "pentito" Salvatore Cancemi, nell'udienza del 28 aprile 1994, ossia sette mesi prima dell'udienza del 29 novembre 1994 in cui ha testimoniato Mannoia, aveva dichiarato, come abbiamo visto poc'anzi, di aver appreso (sempre, ovviamente, da altri, ossia da Giovanni Lipari e Pippo Calò) che Contrada era "persona molto vicina a Stefano Bontade e a Rosario Riccobono" e aveva detto di averlo appreso dal 1976 in poi.

Se due più due deve continuare a fare quattro, la conclusione logica è la seguente, come scrivono ancora gli avvocati nell'atto di impugnazione della sentenza di primo grado: "Tutti sapevano di questo rapporto tra Contrada e Bontade tranne Marino Mannoia, uomo fidato di Stefano Bontade: infatti il 2 e il 3 aprile 1993 non ha detto nulla di Contrada; il 27 gennaio 1994 ha detto qualcosa di Contrada, ma nulla ha detto della cosa che più di tutte doveva essere a sua conoscenza, cioè il rapporto tra il suo capo Stefano Bontade ed il dottor Contrada, capo della Squadra Mobile e poi capo della Criminalpol. Soltanto dopo le propalazioni in pubblica udienza di Mutolo e Cancemi, Mannoia parla del rapporto Contrada-Bontade. Ma, mentre i primi due riferiscono notizie de relato (Mutolo avrebbe saputo del rapporto Contrada-Bontade da Riccobono e Cancemi da Calò, Lipari e altri), il Mannoia, invece, riferisce qualcosa di cui ha cognizione diretta, cioè la conversazione tra Bontade e Teresi per procurare l'appuntamento tra Contrada e Cassina. La testimonianza sull'argomento di Mannoia era necessaria per dare il crisma della verità alle dichiarazioni di Mutolo e Cancemi circa il rapporto Contrada-Bontade".

2.

Mannoia parla anche della patente di Stefano Bontade. Seguiamo pedissequamente il dialogo del "pentito" con la Difesa di Contrada nell'udienza del 29 novembre 1994:

MANNOIA - "L'ultima notizia che io apprendo dal Bontade è che Bontade ottiene la patente e che l'interessamento è avvenuto da parte del dottore Contrada (...)"

AVVOCATO SBACCHI - "Lei ha riferito che il dottore Contrada si è interessato per fare avere la patente a Stefano Bontade o sbaglio?"

MANNOIA - "Così ho appreso... da Stefano Bontade."

AVVOCATO SBACCHI - "Lei, nelle dichiarazioni che ha reso al Procuratore della Repubblica (il 27 gennaio 1994, nda), non ha parlato di alcuna patente che il dottor Contrada avrebbe fatto avere a Bontade. Ci può spiegare perchè?"

MANNOIA - "Ho ricordato questo successivamente... No, non ho parlato... L'ho detto oggi..."

AVVOCATO SBACCHI - "Allora una domanda più precisa: della patente che Bontade avrebbe ottenuto tramite il dottore Contrada, che cosa sa?"

MANNOIA - "Niente, solo che aveva ottenuto la patente per interessamento di Contrada."

Ancora vaghezze e genericità. Ancora una testimonianza de relato, una dichiarazione concernente qualcosa che il "pentito" non sa personalmente ma che gli è stata riferita da un altro. Ovviamente già morto e in avanzato stato di decomposizione, dato che Bontade è stato falciato dai mitra dei "corleonesi" nel 1981. Ma c'è di più.
Anche a proposito della patente di Bontade, come nel caso degli appuntamenti organizzati da Bontade e Teresi, Mannoia, il 27 gennaio 1994 (data del "prodigio" legato alla riacquisizione della memoria circa altri fatti), non riesce a superare la sindrome dell'aprile 1993. No. La memoria gli difetta ancora. Si ricorda di questo piccolo e insignificante particolare che chiunque potrebbe riporre in un recondito angolo della proprio cervello e scordare con facilità (il particolare, cioè, che il capo della polizia giudiziaria avrebbe fatto riavere la patente ad uno dei capi di Cosa Nostra, che per giunta era il capofamiglia dello stesso Mannoia) "soltanto" il 29 novembre 1994.
Ed il 29 novembre 1994 cade proprio sette mesi dopo il 28 aprile dello stesso anno, data in cui un altro "pentito", Salvatore Cancemi, aveva parlato della patente rilasciata a Bontade mercè un interessamento di Bruno Contrada. Anche in questo caso, come abbiamo visto a proposito dell'appartamento di via Jung, Mannoia non aggiunge nulla a quanto riferito dall'altro "pentito" con le cui parole la sua dichiarazione finisce con l'apparire "univoca e concorde". Ed anche in questo caso, come scrivono gli avvocati Milio e Sbacchi nell'atto di impugnazione in appello della sentenza di primo grado, "appare evidente che la propalazione accusatoria di Marino Mannoia 'Bontade mi ha detto di avere avuto la patente per l'interessamento di Contrada' è il 'frutto di pedissequo adeguamento ad altre risultanze processuali', così come verificatosi per l'altra propalazione accusatoria concernente la 'casa procurata a Contrada' di cui si è parlato".

3.

Con la stessa vaghezza mostrata nel caso della patente di Stefano Bontade, Mannoia aggiunge anche la possibilità che Contrada si sia interessato della patente di tale Pinè Greco. Anche di questo parleremo più sotto, ma vediamo, anzitutto, cosa ha dichiarato testualmente Mannoia nel suo show del 29 novembre 1994:

MANNOIA - "... L'ultima notizia che io apprendo dal Bontade è che Bontade ottiene la patente e che l'interessamento è avvenuto da parte del dottore Contrada e che non è solo la sua patente, io credo di ricordare, ma non vorrei fare errore, che il Bontade stesso insieme al Giovanni Teresi, o comunque o Bontade o Giovanni Teresi, si sono premurati per il piacere di portarla loro stessi, di propria mano, la patente ad un altro personaggio di Cosa Nostra, io credo di ricordare, ma ovviamente sono passati tanti anni, di ricordare anche quella persona si chiamava Pinè Greco, un uomo d'onore di Ciaculli."

AVVOCATO MILIO - "Pinè Greco era conosciuto da Contrada?"

MANNOIA - "Questo non lo so."

Anche qui il solito leit-motiv. Mannoia parla della patente di Pinè Greco soltanto nell'udienza del 29 novembre 1994: il 2 e il 3 aprile 1993 non aveva detto niente sul conto di Contrada, dunque non aveva parlato neppure di patenti e di Pinè vari, e il 27 gennaio 1994, quando già la memoria aveva cominciato a fare timidamente capolino, non aveva fatto alcun cenno sulla patente di Pinè Greco.
Anche in questo caso, Mannoia usa espressioni come "io credo di ricordare", "ma non vorrei fare errori", "ma ovviamente sono passati tanti anni", "ma non vorrei sbagliare il nome della persone", "io credo di ricordare Pinè Greco", "se non ricordo male". Espressioni che denotano carenza di ricordi precisi. Parole titubanti e dubbiose che in sede penale, ossia in quello che dovrebbe essere il regno incontrastato della certezza oltre ogni ragionevole dubbio, non possono fornire tale certezza, non riescono a dissipare il dubbio e dunque non possono servire come base per la formazione di una prova certa.
Ma, a parte questo, resta un dubbio. Dove trovava Bruno Contrada il tempo di condurre tutte le indagini che ha svolto e di stilare tutti i conseguenti rapporti giudiziari che ha redatto (che, come abbiamo visto, sono decine e decine) e di svolgere la sua documentata e brillante attività investigativa che gli ha fruttato decine di encomi a livello nazionale ed internazionale se doveva passare gran parte del suo tempo a risolvere le rogne burocratiche di boss e picciotti di vario cabotaggio?


1.5. Le dichiarazioni del "pentito" Gioacchino Pennino

Gioacchino Pennino è un mafioso particolare. Nipote del boss omonimo, fa parte di quella categoria di mafiosi che provengono dalla cosiddetta "alta società". E' infatti un medico, frequentatore di "salotti buoni", entrato a far parte della famiglia mafiosa di Brancaccio (ricadente nel mandamento gestito da Michele Greco) nel 1977, ma con una forma di affiliazione riservata, nel senso che della sua appartenenza a Cosa Nostra se ne doveva parlare il meno possibile, addirittura anche con altri mafiosi. Nonostante ciò, almeno all'interno della famiglia di Brancaccio la sua affiliazione era ben nota: egli stesso ha riferito che, durante la festa per l'incarico di capofamiglia assegnato a Giuseppe Savoca, si era trovato in compagnia di una ventina di uomini d'onore della famiglia di Brancaccio e che a costoro egli fu presentato come collega di cosca. Pennino ha inoltre dichiarato di aver conosciuto anche Enzo Sutera, uomo della cosca di Saro Riccobono, ma di non aver mai avuto modo di conoscere lo stesso Riccobono: addirittura Sutera avrebbe riferito a Pennino che il giudice Signorino "era nelle mani" della cosca di Riccobono e che "tra Riccobono e Signorino c'era un rapporto talmente intimo che il giudice si accompagnava a Riccobono, latitante, anche in auto, e ciò per tutelarlo con la sua presenza da eventuali controlli o fermo da parte di organi di polizia durante i percorsi".

Pennino ribadisce che il commissario Pietro Purpi, per anni dirigente del I Distretto di Polizia di Palermo, era in rapporti con Stefano Bontade e potè costituire un tramite fra il boss e Bruno Contrada.
Pennino, però, non è in grado di andare oltre un'accusa generica. Nell'udienza del 19 giugno 1995 nell'aula-bunker del carcere romano di Rebibbia, Pennino, infatti, dichiara:

PENNINO - "Ho conosciuto Piero Purpi intorno al 1975, quando dirigeva il Primo Distretto di Polizia di Palermo, che si trova nello stabile di via Roma, 111 dove io avevo il mio laboratorio di analisi. Il commissario Purpi divenne mio cliente. Io e Purpi andavamo spesso al bar vicino al laboratorio e un giorno vidi che, da un'auto che passava davanti al bar, Stefano Bontade rivolse un cenno di saluto: pensai che salutasse me (ma io non avevo risposto perchè ero con un poliziotto), ma poi vidi che Purpi rispondeva al saluto. Rimasi perplesso. Purpi stesso mi disse che conosceva Bontade e che Bontade era un uomo d'onore. Dei rapporti Purpi-Bontade so solo questo."

Sa solo questo. Ha visto solo questo. Un saluto. Un semplice saluto. Se consideriamo che, in quell'epoca, i boss erano, entro ovvi limiti, più "visibili" (lo stesso Pennino, nella deposizione sopracitata, aveva in precedenza detto: "ho conosciuto Bontade al circolo del tiro a segno di Palermo. Anche Michele Greco l'ho conosciuto lì, quando ci andavo da bambino con mio padre") nulla di strano che il commissario Purpi potesse aver conosciuto Bontade in qualche occasione "mondana". Salutare una persona è, in un luogo come la Sicilia, dove la forma prevale spesso sulla sostanza, un dovere irrinunciabile da "etichetta", che non presuppone necessariamente amicizia o confidenza ma può basarsi anche soltanto su una semplice conoscenza superficiale. E la conoscenza non è un reato. Che poi uno che viveva a Palermo sapesse che Stefano Bontade era un "uomo d'onore" è ovvio: uno degli scudi principali sotto i quali la mafia si è sempre trincerata, in fondo, è stato l'atteggiamento omertoso consistente nel far vedere che non si sa proprio ciò che tutti, in realtà, sanno benissimo. A parte questo, i poliziotti e i magistrati dell'epoca non sapevano forse anch'essi che Bontade era mafioso? Per quale motivo lo ricercavano? Perchè era bravo a giocare a tressette?
Ma, cosa più importante per noi in questa sede, Pennino, quel 19 giugno del 1995, dichiara ai giudici Ingargiola, Barresi e Puleo in trasferta a Roma per il processo Contrada, un'altra cosa:

"All'interno di Cosa Nostra non ho mai sentito fare il nome di Contrada. Non ho mai saputo nulla su Contrada. All'interno di Cosa Nostra non ho mai saputo niente nè circa rapporti tra Bontade e Contrada nè circa rapporti tra Riccobono e Contrada".

Addirittura, su precisa domanda del PM, Pennino così si esprime:

INGROIA - "Ha mai saputo dei rapporti, sempre all'interno di Cosa Nostra, di Bontade con altri funzionari di Polizia... con il dottore Contrada?"

PENNINO - "Assolutamente!"

INGROIA - "Lei ha mai saputo di rapporti di Rosario Riccobono con appartenenti alle forze dell'ordine, con il dottore Contrada? Lei del dottore Contrada non ha sentito parlare dentro Cosa Nostra, è giusto? Lei lo ha conosciuto il dottore Contrada?"

PENNINO - "Sì, io ho conosciuto il dottore Contrada. Mi fece domande circa l'assiduità del dottor Reina sulla frequentazione dell'ippodromo (Pennino si riferisce alle indagini che nel 1979 Contrada, in qualità di capo della Criminalpol della Sicilia Occidentale, condusse sull'omicidio del segretario provinciale della DC Michele Reina. In seguito, il padre di Gioacchino Pennino fu arrestato nell'àmbito di indagini sull'ippodromo di Palermo, nda)."

In altre parole, Gioacchino Pennino, considerato un "pentito" importante anche in altri processi, non ha reso nessuna dichiarazione accusatoria nei confronti di Contrada. Ma per i giudici della V Sezione Penale del Tribunale di Palermo non lo ha fatto soltanto perchè, in quanto affiliato "riservato", non sarebbe stato messo al corrente del ruolo svolto per conto di Cosa Nostra dallo stesso Contrada (v. pag. 1132 della sentenza di condanna di primo grado): i giudici sostengono che tutte le notizie in possesso di Pennino, frutto di conoscenze dirette o di confidenze da parte di altri uomini d'onore, rivelano i limiti delle sue informazione in ordine alle vicende interne dell'organizzazione mafiosa. Questo il pensiero dei giudici. Ma è plausibile pensare che il dottor Gioacchino Pennino, un affiliato di una delle più potenti famiglie mafiose, quale quella di Brancaccio, compresa nel mandamento di Michele Greco, nonchè soggetto che sin dalla più giovane età aveva vissuto in ambiente mafioso e a contatto con mafiosi di rilievo quali Stefano Bontade, Michele Greco, Tano Badalamenti, nonchè, ancora, nipote del potente boss Gioacchino Pennino, anch'egli affiliato alla famiglia di Brancaccio ed imputato nel "processo dei 114", ed infine uomo di assoluta fiducia e tenuto in grande considerazione dentro Cosa Nostra a tal punto da gestire anche rapporti a livello politico, è plausibile, si diceva, ritenere che un mafioso di tale importanza non fosse a conoscenza, nè direttamente nè de relato, del fatto che il capo della Polizia Giudiziaria di Palermo fosse "nelle mani" di Cosa Nostra? Nel corso dei suoi innumerevoli rapporti con mafiosi e con l'alta società palermitana, nonchè col mondo politico, Pennino non sarebbe mai dovuto venire a sapere del legame tra Contrada e gli uomini d'onore? Un legame di cui hanno detto di essere a conoscenza anche una congerie di uomini d'onore oggettivamente di secondo piano, come i "pentiti" Maurizio Pirrone o Gaetano Costa, certo non del rango e dell'importanza di Pennino dentro Cosa Nostra, e che sarebbe stato tenuto nascosto a un mafioso del calibro di Gioacchino Pennino, professionista di prestigio inserito in ambienti politici dominanti? Ciò appare sorprendente, e soprattutto in contrasto con quanto l'altro "pentito" Salvatore Cancemi aveva dichiarato, come abbiamo visto, nell'udienza del 28 aprile 1994, ossia che "in Cosa Nostra era come quando si dice pane e pasta che il dottore Contrada era nelle mani di Cosa Nostra". Un pane e una pasta che, evidentemente, Pennino non mangiava.
Forse per problemi di linea...
"La verità" - scrivono gli avvocati Sbacchi e Milio nell'atto di impugnazione in appello della sentenza di primo grado - "è che Pennino non accusa Contrada perchè non esistono i motivi per accusarlo. Il Pennino, ben addentro nelle cose di mafia della città di Palermo, se non altro per i suoi rapporti con l'omonimo parente e con altri mafiosi, non poteva non sapere che uno dei funzionari di Polizia più impegnati ed esposti nell'attività antimafia nel corso di oltre vent'anni era in effetti un poliziotto 'nelle mani' di Cosa Nostra qualora ciò fosse stato vero. Non lo ha saputo e non lo ha dichiarato, nè ha voluto, per pedissequo adeguamento, ripetere o avallare le accuse di altri 'pentiti', di cui, alla dato del 19 giugno 1995 (data dell'udienza in cui ha testimoniato), non poteva non essere a conoscenza. Non ha voluto calunniare o non ha ritenuto conveniente farlo, per motivi difficilmente definibili. Non è da escludere nemmeno l'ipotesi che il suo comportamento processuale di non dire nulla sul dottore Contrada, nulla sulla sua presunta collusione con mafia e mafiosi, nulla sull'appartenenza alla Massoneria (Pennino era massone), nulla sul vizio del gioco d'azzardo (Pennino era un giocatore d'azzardo) del dottore Contrada, sia stato determinato dall'esigenza di non correre il rischio di essere accusato di calunnie, essendo Pennino 'portatore di un ipotetico interesse a vendicarsi' del dottor Contrada, atteso l'arresto del padre nell'àmbito delle indagini sull'ippodromo di Palermo personalmente condotte dallo stesso Contrada."



2. LA DIFESA

Si può ben intuire che, sulle prime, ascoltando dichiarazioni come quelle sopra riportate e cercando di metterle insieme, i magistrati inquirenti abbiano ritenuto di aver aggiunto un altro tassello all'impianto accusatorio contro Bruno Contrada, che in quel momento si trovava in regime di carcerazione preventiva. Possiamo anche immaginare che chiunque di noi, non conoscendo ciò che sarebbe poi emerso a favore dell'imputato dal processo e non sapendo che dei riscontri oggettivi a quelle dichiarazioni non sarebbero mai stati trovati, sarebbe sobbalzato sulla sedia convinto di aver trovato finalmente chi aveva rubato la marmellata. Ma la legge impone di trovare dei riscontri oggettivi, e allora andiamo a vedere che cosa è stato appurato in seguito, dopo le dichiarazioni di Cancemi, Mutolo, Mannoia e Pennino.
Prima di esaminare partitamente ciò che la difesa riuscì a dimostrare circa le singole accuse, occorre ricordare che Salvatore Cancemi, entrato in Cosa Nostra nel 1976 come da lui stesso dichiarato, fu immediatamente arrestato per rapina dalla Squadra Mobile di Palermo guidata da Bruno Contrada (come risulta dal rapporto di denuncia firmato dallo stesso Contrada, come quest'ultimo ha dichiarato in aula nell'udienza del 13 ottobre 1994 e come hanno confermato tutti i funzionari ed agenti della Mobile che parteciparono all'arresto di Cancemi). Stessa sorte, poco tempo dopo e sempre per opera di Bruno Contrada e di Boris Giuliano, toccò a Gaspare Mutolo, arrestato nel 1976.


2.1. La presunta amicizia di Contrada con Stefano Bontade

1.

Buscetta dichiara nel 1994 di aver sentito da Bontade che "di Contrada ci si poteva fidare". Quando viene rilasciata questa dichiarazione, Bontade, ovviamente, è morto da tempo, essendo rimasto crivellato dai colpi dei kalashnikov dei corleonesi vincenti nel 1981. Tredici anni sono troppi per poter pensare che un cadavere possa ancora avere la forza di parlare per confermare o smentire parole che gli sono state messe in bocca da altri...
Dov'è il riscontro "oggettivo" a questa dichiarazione di Buscetta? Di oggettivo c'è soltanto, ed ovviamente in segno contrario a tale dichiarazione, che Contrada, giovane funzionario della Squadra Mobile di Palermo, fu il primo, nel 1963, ad individuare Stefano Bontade
come mafioso e a denunciarlo in un circostanziato rapporto. Questo ruolo importante di Contrada nel perseguire Bontade è stato confermato anche da tutti i colleghi dell'epoca, i quali hanno anche confermato quanto dichiarato dallo stesso Contrada nell'udienza del 13 ottobre 1994: "Fino al 1963, quando io fui il primo ad individuarlo come mafioso, Stefano Bontade era per tutti solo un tranquillo signorotto di campagna".

2.

All'alba del 20 febbraio 1978 la Squadra Mobile di Palermo effettua una perquisizione a casa di Stefano Bontade. A guidare l'operazione è il commissario capo Antonio De Luca, dirigente della Sezione Omicidi della Squadra Mobile di Palermo. In una nota, redatta in tarda mattinata ad operazione conclusa, De Luca dice di essere stato contattato dal maggiore Enrico Frasca, comandante del Nucleo Informativo dei Carabinieri: Frasca chiedeva a De Luca per quale motivo la Squadra Mobile avesse effettuato la perquisizione di quella mattina a casa di Bontade. Scrive De Luca nella nota: "Palermo, 20 febbraio 1978. Pro memoria. Ore 11. Il maggiore Frasca dei Carabinieri, comandante del locale Nucleo Informativo, è venuto a trovarmi in ufficio ed era interessato a conoscere le ragioni per cui stavo indagando sul conto di Bontade Stefano fu Francesco Paolo, nato a Palermo il 23 aprile 1938, noto esponente mafioso. L'ufficiale era infatti a conoscenza, e non so attraverso quali canali, che nelle prime ore di stamani avevo inviato una squadra nell'abitazione del predetto con lo scopo di procedere ad una dettagliata perquisizione domiciliare ed accompagnamento in ufficio del prevenuto. Il Bontade nella circostanza non è stato trovato, evidentemente perchè riuscito a fuggire attraverso il giardini retrostanti. La moglie agli agenti ha riferito che il marito era già uscito per recarsi in campagna. Ho riferito al maggiore Frasca che, in relazione al triplice omicidio di Ignazio Scelta, Rosario Vitale e Girolamo Siino, consumato in piazza Uditore la sera del 15 corrente, stavo controllando la posizione di alcuni esponenti mafiosi palermitani e, fra costoro, il Bontade Stefano. Ho avuto l'impressione che l'ufficiale dei Carabinieri si sia tranquillizzato quando ha appreso che il Bontade Stefano era da parte nostra oggetto di normale routine di indagini. Il commissario capo di PS, firmato De Luca". Nell'udienza dell'11 aprile 1995 viene ascoltato il maggiore Frasca. Vediamo cosa disse:

FRASCA - "Non è vero. Non è assolutissimamente vero. Mi dispiace, ma mai, mai, a parte il fatto che questo Stefano Bontade io non lo conoscevo."

AVVOCATO SBACCHI - "Lei non ha mai conosciuto Stefano Bontade?"

FRASCA - "No, no."

AVVOCATO SBACCHI - "Non si è mai interessato di Stefano Bontade?"

FRASCA - "Mai, mai."

AVVOCATO SBACCHI - "Nemmeno come polizia giudiziaria?"

FRASCA - "Mai. Non avevo motivo."

AVVOCATO SBACCHI - "Lei sa se Stefano Bontade è stato al soggiorno obbligato, se lo sapeva allora?"

FRASCA - "No, neppure."

INGROIA - "Lei esclude di essersi recato a domandare notizie in ordine alle indagini che la Polizia stava facendo su Bontade Stefano?"

FRASCA - "No. No. Lo escludo nella maniera più categorica. Per me è nuovo, è una cosa nuova."

Dopo questa contraddittoria testimonianza, e dopo l'acquisizione al fascicolo del dibattimento del pro memoria di De Luca, è lo stesso Contrada a spiegare la cosa con una dichiarazione spontanea: "Quello che c'è scritto nel pro memoria di De Luca" sostiene Contrada "è la prova certa che Mannoia e Cancemi mentono quando mi accusano di essere stato amico di Bontade e di averlo favorito. Infatti, se nel 1978 io avessi veramente avuto rapporti con Bontade, lui non avrebbe avuto motivo di rivolgersi a persona estranea alla Polizia di Stato, ossia al maggiore Frasca dei Carabinieri, per chiedere le ragioni della perquisizione della Squadra Mobile a casa sua, perchè è chiaro che Bontade parlò con Frasca, e dunque che Frasca conosceva Bontade, anche se lo stesso Frasca lo ha appena negato. Se fossi stato io ad avere rapporti con Bontade, quest'ultimo si sarebbe rivolto a me e non al maggiore Frasca, tanto più che l'operazione su cui Bontade voleva lumi era stata condotta dalla Polizia e non dai Carabinieri".

E' logico. Bontade non si rivolse nè a Bruno Contrada, all'epoca capo della Criminalpol della Sicilia Occidentale, nè ad uno degli amici e strettissimi collaboratori di quest'ultimo che prestavano servizio alla Squadra Mobile (Boris Giuliano, capo della Squadra Mobile, Vittorio Vasquez, vicecapo della Squadra Mobile e capo della Sezione Investigativa, Antonio De Luca, capo della Sezione Omicidi, Vincenzo Speranza, capo della Sezione Antirapine, Ignazio D'Antone, capo della Sezione Buoncostume e Narcotici, Giuseppe Crimi, capo della Sezione Antimafia, Paolo Moscarelli, Michele Cardella e Vincenzo Boncoraglio, addetti alle varie Sezioni) nè al questore Giovanni Epifanio. Come scrivono gli avvocati Milio e Sbacchi nell'atto di impugnazione in appello della sentenza di primo grado "Il mafioso Stefano Bontade, per conoscere i motivi per cui all'alba del 20 febbraio 1978 uomini della Sezione Omicidi della Squadra Mobile di Palermo si erano recati nella sua abitazione (...) si rivolge ad un ufficiale dei Carabinieri, il maggiore Enrico Frasca, comandante del Nucleo Informativo. Ciò significa, e nessuno può revocarlo in dubbio, che con lui aveva rapporti tali da chiedergli un simile interessamento. Se avesse avuto rapporti 'amichevoli' o 'collusivi' con il dottor Contrada (è opportuno rammentare ancora una volta che Cancemi, Mannoia e qualche altro hanno dichiarato che il dottore Contrada 'era nelle mani' cioè 'assoggettato' di Stefano Bontade sin dal 1975 o al più dal 1976) si sarebbe certamente rivolto allo stesso dottor Contrada per venire a conoscenza dei motivi dell'operazione di Polizia nei suoi confronti". E invece, per conoscere dettagli su un'operazione svolta dalla Squadra Mobile, Bontade si rivolge ad un carabiniere: se avesse avuto contatti o fonti informative in Polizia, non si sarebbe rivolto ad un carabiniere per conoscere motivi e dettagli di un'operazione svolta soltanto dalla Polizia di Stato. Anche volendo ammettere che Bontade non abbia voluto recarsi di persona dal suo "assoggettato" Contrada, perchè, se era vero che Contrada era "nelle sue mani", non ha chiesto al maggiore Frasca di recarsi direttamente da Contrada? La mattina del 20 febbraio 1978 Bruno Contrada era in sede, nel suo ufficio di dirigente della Criminalpol, sito peraltro nello stesso Palazzo Cairoli dove ha sede la Squadra Mobile: lo prova un'annotazione sulla sua agenda alla data di quella mattina, dove si legge: "Ha telefonato il dottor Rossi - Bologna - comunicato omicidio Garda Baldassarre - Santa Maria Co' di Fiore (Ferrara)". Sarebbe stato certo più facile e conveniente per Frasca recarsi da un "amico degli amici" quale l'accusa vuole che Contrada sia stato, per giunta amico e superiore in grado dell'uomo che aveva organizzato la perquisizione, ossia De Luca, che non recarsi dallo stesso De Luca, che poteva risultare meno "affidabile": infatti De Luca lasciò scritto quel famoso pro memoria.


2.2. La patente di Stefano Bontade

Poco prima di essere denunciato
ed inquisito nell'àmbito del processo derivante dal "rapporto dei 114" (stilato da Bruno Contrada insieme a Boris Giuliano e al capitano dei Carabinieri Giuseppe Russo), processo che si concluderà in primo grado il 29 luglio 1974 con la sua condanna a tre anni di reclusione per associazione a delinquere aggravata, Stefano Bontade viene sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con soggiorno obbligato con decreto del Tribunale di Palermo n. 69 del 21 marzo 1970 e subisce il ritiro della patente con decreto prefettizio dell'8 maggio 1970. Mentre Bontade si trova ancora al soggiorno obbligato, la I sezione penale della Corte d'Appello di Palermo, il 22 dicembre 1976, ribalta l'esito del "processo dei 114" e assolve Bontade dall'imputazione di associazione a delinquere "per non aver commesso il fatto". Terminata di fatto la misura di prevenzione del soggiorno obbligato il 23 febbraio 1977, il 28 febbraio seguente Bontade, assolto nel "processo dei 114" e ormai libero anche dal soggiorno obbligato, chiede al Prefetto Aurelio Grasso (che fu prefetto di Palermo dal 1973 al 31 dicembre 1977) un nuovo rilascio della patente, sostenendo di averne bisogno per lavoro in quanto, come proprietario terriero di appezzamenti disolocati in varie località, è costetto a spostarsi per sorvegliare il lavoro dei propri dipendenti (sul punto svolge gli accertamenti necessari il commissario Francesco Faranda). All'istanza viene allegato lo stralcio della sopracitata sentenza della Corte d'Appello di Palermo.
Ma, sùbito dopo tale sentenza, la Questura di Palermo aveva reagito prontamente. L'Ufficio Misure di Prevenzione della Questura medesima, con nota n. 90/169 M.P. inviata in data 24 dicembre 1976 alla Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo e alla Corte d'Appello di Palermo, si era infatti prontamente preoccupato di precisare che Bontade
(in procinto di cessare anche dalla misura del soggiorno obbligato) doveva in realtà, in quel momento, espiare ancora tre anni, quattro mesi e ventinove giorni di soggiorno obbligato.
Nonostante fosse forte della sentenza di assoluzione, dunque, Bontade viene decisamente ostacolato dalla Questura, il cui intervento determina il blocco del rilascio della patente: in questo momento, Bruno Contrada è a capo della Criminalpol della Sicilia Occidentale, ma lavora in perfetta sintonia sia con il Questore che con il capo della Squadra Mobile Boris Giuliano. Basandoci su fatti e documenti (principalmente il "rapporto dei 114", uno dei maggiori successi investigativi di Bruno Contrada, e poi tutti gli interventi della Questura nella vicenda del nuovo rilascio della patente a Bontade) appare chiara ed incontrovertibile la ferma azione persecutoria dello stesso Contrada e della Polizia palermitana nei confronti di Bontade. Come può, dunque, il "pentito" Salvatore Cancemi dichiarare che
già prima del maggio 1976 aveva saputo da Pippo Calò, Giovanni Lipari ed altri che "il dottore Contrada era nelle mani di Bontade"? Proprio un bel modo di aiutare un amico, non c'è dubbio, quello di ostacolare in tutti i modi il rilascio della sua patente...
Dopo circa un anno, la Prefettura, con nota del 13 dicembre 1977, chiede alla Questura se i motivi per i quali a Bontade era stata applicata la misura del soggiorno obbligato erano gli stessi per i quali l'interessato era stato assolto in appello per non aver commesso il fatto, ossia l'associazione a deliinquere. Se la Questura avesse risposto affermativamente, essendo stato Bontade assolto in appello, la patente avrebbe potuto essere rilasciata immediatamente. Ma la Questura, con nota n. 90/1534 M.P. del 16 gennaio 1978, a firma del questore Giovanni Epifanio, precisa che le due vicende sono diverse: la sentenza di assoluzione del 22 dicembre 1976 si riferisce a fatti emersi in epoca susseguente a quelli che avevano formato oggetto di valutazione in occasione dell'irrogazione della misura del soggiorno obbligato e del ritiro della patente, dunque, nonostante l'assoluzione, non appare opportuno che Bontade abbia di nuovo la sua patente.

Tuttavia, il 2 agosto 1978, il nuovo prefetto di Palermo, Girolamo Di Giovanni, succeduto al prefetto Grasso l'1 gennaio di quell'anno e che rimarrà in carica fino al 1981, rilascia la patente a Stefano Bontade. Si tratta di un "esperimento" di sei mesi. Nel fascicolo prefettizio della pratica relativa al nuovo rilascio è stato rinvenuto un pro memoria, intestato "Prefetto di Palermo", con su scritto: "Bontà Stefano - onorevole Ventimiglia - patente". Il prefetto Aurelio Grasso, che, come abbiamo visto, era in carica quando l'iter del rilascio era cominciato, ha dichiarato nell'udienza del 18 settembre 1995:

GRASSO - "Sì, l'appunto è scritto senz'altro da me... Questo appunto si riferisce presumibilmente a una segnalazione fattami dall'onorevole Ventimiglia circa la patente di guida..."

AVVOCATO MILIO - "Lei può dirmi se c'è stato un interessamento del dottore Contrada che sollecitava il rilascio di questa patente?"

GRASSO - "Debbo escludere. Non era nei rapporti di correttezza tra la Questura e la Prefettura, questo non poteva avvenire perchè la Prefettura operava sulla base dei rapporti ufficiali ricevuti dalla Questura, quindi non era ammissibile che un funzionario della Questura potesse poi sollecitare un provvedimento che non fosse basato su questi rapporti ufficiali.
Mi arrivò una lettera di raccomandazione per la patente di Stefano Bontade da parte dell'onorevole Ventimiglia.
Il dottore Contrada non c'entra niente con questa storia della patente di Bontade. Non ricevetti mai nessuna richiesta o raccomandazione per Bontade da parte del dottore Contrada neppure in altri casi. Posso confermare, anzi, che Contrada non mi chiese mai favori per nessuno."

Emerge, dunque, con palmare evidenza, non solo l'assoluta estraneità di Contrada a tutta la vicenda ma anche il nome e il cognome della persona che effettivamente raccomandò il mafioso, ossia l'allora deputato regionale Gioacchino Ventimiglia (che fu inquilino di Sala d'Ercole dal 1971 al 1981 e, per un certo periodo, anche vicepresidente dell'Assemblea Regionale Siciliana). Interrogato sul punto nell'udienza del processo Contrada del 26 maggio 1995, Ventimiglia ha confermato. Ecco ciò che disse testualmente:

"Ho conosciuto Stefano Bontade tra il 1971 e il 1976. Me lo presentò Giulio Enea, un imprenditore agricolo. In seguito, Bontade venne a trovarmi perchè aveva fatto istanza per la restituzione della patente e tale istanza era stata respinta. Io segnalai il caso al prefetto e, dopo circa sei mesi, lo stesso prefetto mi comunicò per lettera che l'istanza non poteva essere accolta perchè, proprio in quel periodo, Bontade era stato trovato alla guida di un'auto anche dopo che la patente gli era stata ritirata e dunque aveva commesso un reato".

Chiarito, dunque, che fu l'onorevole Ventimiglia e non Contrada a raccomandare Bontade in prefettura, ricordiamo, se ce ne fosse bisogno, che l'organo che rilascia la patente è il prefetto. E allora vediamo cosa dichiara il prefetto Di Giovanni, colui che firmò, appunto, il contestato rilascio, nell'udienza del 12 maggio 1995:

DI GIOVANNI - "Con una nota della prefettura si richiedeva il rilascio della patente a Stefano Bontade per necessità di lavoro, con un esperimento di sei mesi. Tutto partì dalla prefettura, Contrada non intervenne mai nella questione. (Di Giovanni si riferisce ad un parere del 24 settembre 1979 sulla continuazione del beneficio della patente per Bontade anche dopo l' "esperimento" di sei mesi: in questo parere non appare il nome di Bruno Contrada, nè si può evincere alcun elemento che riconduca, da un punto di vista amministrativo nè da altri punti di vista, allo stesso Contrada, nda)."

AVVOCATO SBACCHI - "A proposito di questa storia della patente, insomma, il dottore Contrada è intervenuto a segnalare qualcosa in qualche modo, a chiedere una decisione favorevole sul rilascio della patente a Stefano Bontade?"

DI GIOVANNI - "Assolutamente no! Nè d'altra parte... Ma lei comprende bene che un funzionario della Questura, fosse anche il Questore, ma un funzionario della Questura a un Prefetto insediatosi da pochissimi mesi pensa che possa venire a chiedere qualcosa a favore di un delinquente o di un mafioso? Ovviamente no..."

Una settimana prima di Di Giovanni era stato ascoltato anche Giovanni Epifanio, all'epoca questore di Palermo, carica che ricoprì dal 1976 al 1979. Nell'udienza del 5 maggio 1995 Epifanio dichiara quanto segue:

AVVOCATO MILIO - "Il dottore Contrada le ha mai segnalato o raccomandato qualcuno per agevolazioni nel rilascio, che so, di documentazioni o di autorizzazioni di cui lei era titolare della possibilità di rilascio o meno, o le ha mai chiesto interventi in favore di qualcuno, di mafiosi o non mafiosi?"

EPIFANIO - "No, no, assolutamente. Non era nello stile di Contrada. A me non ha chiesto, nei tre anni, mai nulla."

AVVOCATO MILIO - "Nella vicenda del rilascio di questa benedetta patente, il dottore Contrada quale ruolo ha svolto, se ne ha svolto uno?"

EPIFANIO - "Ma non aveva nessun ruolo, perchè non era dell'amministrativa, non era... Che poteva fare? Non ha chiesto il favore a me e io ho poi scritto in quel modo perchè se io avessi avuto qualche pressione o avessi subìto la pressione, avrei attenuato la questione 'mafioso', quello che ho scritto... Non c'entra Contrada qua."

Ancor prima, nell'udienza del 21 marzo 1995, era stato ascoltato il vicequestore Francesco Faranda, dal 1976 al 1980 dirigente del I Distretto di Polizia di Palermo, ossia il commissariato competente per l'assunzione di informazioni sul conto di Bontade ai fini del parere sul rilascio della patente:

AVVOCATO SBACCHI - "Quando a lei sono pervenute le richieste che lei ha firmato è in qualche modo intervenuto il dottore Contrada, anche per sollecitarle l'evasione di queste note informative?"

FARANDA - "No, che io ricordi, no!"

AVVOCATO SBACCHI - "Cioè Stefano Bontade le è stato segnalato, le è stato segnalato dal dottore Contrada?"

FARANDA - "No! No! No! Io lo escluderei, anche perchè segnalazioni il dottore Contrada a me non ne ha fatte mai. Nè di pregiudicati nè di altro... Potrei escluderlo perchè sollecitazioni il dottore Contrada a me non ne ha fatte mai per nessuno."

AVVOCATO SBACCHI - "Lei deve riferire se il dottore Contrada le ha mai telefonato per segnalarle una pratica. Le ha mai telefonato, lo ha mai cercato, lo ha mai incontrato per segnalarle una pratica?"

FARANDA - "No! No! Il dottore Contrada non mi ha nè mai segnalato neanche una pratica di carattere amministrativo, non so, cioè il rilascio di un porto di fucile... neanche questo. Quindi pensi un po' se..."

Andando ancora a ritroso nel tempo, nell'udienza del 13 gennaio 1995, il vicequestore Giuseppe Crimi, dirigente della Sezione Antimafia della Squadra Mobile di Palermo all'epoca dei fatti in oggetto, aveva dichiarato:

AVVOCATO MILIO - "Comunque, in relazione a questo, il dottore Contrada le disse di non rispondere, le disse di sospendere, le disse che andava lasciata correre la patente di Bontade?"

CRIMI - "No! No! Assolutamente! Tra l'altro, lui, in quel periodo, venne alla Mobile principalmente per occuparsi delle indagini di un certo livello, era dirigente ad interim, quindi il lavoro di routine, il lavoro di ordinaria amministrazione sfuggiva praticamente a lui..."

AVVOCATO MILIO - "Insomma, in sostanza, di ritardare la risposta non le fu detto da Contrada?"

CRIMI - "Nella maniera più assoluta no! La risposta fu ritardata perchè, essendo in corso indagini sul gruppo Bontade, si attendeva l'esito di esse per dare una risposta esauriente ai fini della sospensione della patente di Stefano Bontade."

Circa quest'ultimo punto, urge una precisazione. La richiesta cui si riferisce Crimi è quella formulata dall'Ufficio Misure di Prevenzione della Questura di Palermo con nota n. 90/11066 del 24 settembre 1979: con tale nota veniva chiesto alla Sezione Antimafia della Squadra Mobile un aggiornato rapporto informativo su Stefano Bontade ai fini dell'eventuale sospensione della patente. La nota porta il timbro di entrata alla Squadra Mobile in data 25 settembre 1979, con l'annotazione in calce "al dott. V", ossia al dottor Vittorio Vasquez, all'epoca vice-capo della Squadra Mobile diretta ad interim da Bruno Contrada: ma quel 25 settembre 1979 era, tragicamente, anche la mattina dell'assassinio del giudice Cesare Terranova e del suo autista Lenin Mancuso, sicchè, nella conseguente atmosfera di sgomento e di mobilitazione, l'ordinaria amministrazione era passata, ovviamente, in secondo piano. Alla richiesta del 24 settembre 1979 non venne, infatti, data risposta. L'Ufficio Misure di Prevenzione sollecitò nuovamente l'informativa con una nota del 3 aprile 1980, anche stavolta senza ottenere risposta, ed infine con una nota del 2 settembre 1980: in entrambi i casi il capo della Squadra Mobile non era più Bruno Contrada (tornato a dirigere soltanto la Criminalpol della Sicilia Occidentale) ma Giuseppe Impallomeni, ed il dirigente della Sezione Antimafia della Squadra Mobile (accorpata alla Sezione Investigativa) era Guglielmo Incalza. La richiesta del 2 settembre 1980 trova finalmente risposta: l'8 settembre 1980, infatti, la Sezione Investigativa della Squadra Mobile, con nota n. 90/7666, dà parere favorevole alla sospensione della patente di guida di Stefano Bontade. In seguito, tuttavia, fino alla data dell'uccisione di Bontade, avvenuta il 23 aprile 1981, dalla Questura (ossia dall'Ufficio Misure di Prevenzione, dalla Squadra Mobile o dal Questore) non arrivò mai alcuna risposta alla Prefettura per concludere l'iter burocratico relativo alla pratica della patente di Stefano Bontade.

Insomma, per ricapitolare, la vicenda della patente di Bontade comincia il 28 febbraio 1977 con l'istanza dello stesso Bontade indirizzata al prefetto Aurelio Grasso; il 2 agosto 1978 il prefetto Girolamo Di Giovanni rilascia la patente a Bontade. In questa prima fase del procedimento il nome di Contrada non è emerso per nulla, nè dai documenti nè delle testimonianze. Una seconda fase va dalla richiesta della Prefettura alla Questura circa informazioni aggiornate su Bontade, richiesta datata 11 luglio 1979, alla già citata risposta della Sezione Investigativa della Squadra Mobile all'Ufficio Misure di Prevenzione della Questura (8 settembre 1980) con il parere sfavorevole al mantenimento della patente da parte di Bontade. In questa seconda fase non solo il nome di Contrada continua a non venir fuori, ma lo stesso Contrada è nel frattempo tornato a dirigere soltanto la Criminalpol della Sicilia Occidentale. Una terza fase è individuabile tra l'8 settembre 1980 e il 23 aprile 1981, data della morte di Bontade: in questo lasso di tempo la pratica relativa alla patente di Bontade è rimasta ferma, senza alcuna ulteriore informativa alla Prefettura, presso l'Ufficio Misure di Prevenzione della Questura. Il nome di Contrada, ovviamente, non viene fuori, ed in più si può facilmente notare come la pratica si sia arenata e non abbia avuto esito favorevole.

Bell'interessamento davvero! La pratica si insabbiò nelle pastoie burocratiche e Bontade morì senza mai aver riottenuto la patente...
Ripercorrendo i dettagli delle testimonianze favorevoli a Contrada, si nota che:

1.
dai fascicoli della Prefettura, della Questura e della Squadra Mobile di Palermo, nonchè dal fascicolo "Categoria II" intestato a Stefano Bontade (documenti acquisiti agli atti del processo Contrada nelle udienze del 6 maggio 1994, 12 maggio e 19 maggio 1995) non è emerso un solo elemento oggettivo od anche indiziario da cui risulti un qualsiasi interessamento di Bruno Contrada alla pratica della patente di Bontade;

2.
ci sono, anzi, le concordi dichiarazioni dell'onorevole Gioacchino Ventimiglia, dei prefetti Girolamo Di Giovanni ed Aurelio Grasso, del questore Giovanni Epifanio e dei vicequestori Francesco Faranda e Giuseppe Crimi che scagionano totalmente Contrada. Una "convergenza del molteplice" anche questa. Ma Ventimiglia, Di Giovanni, Grasso, Epifanio, Faranda e Crimi non sono "pentiti". Di cosa avrebbero dovuto pentirsi, del resto?

3.
l'analisi dell'iter burocratico della pratica ha permesso di rilevare una serie di ritardi e disguidi che hanno interessato molti degli uffici preposti. Cosa che non sarebbe avvenuta se dietro a tutto ci fosse stata una regìa occulta che avrebbe, al contrario, permesso di superare negligenze ed intoppi di vario genere;

4.
questa improbabile regìa si sarebbe dovuta espletare nel seguente modo: Contrada sarebbe dovuto intervenire presso il dirigente del Distretto di Polizia competente affinchè esprimesse un parere favorevole sul rilascio della patente e, dunque, affinchè fornisse informazioni false su Bontade; quindi avrebbe dovuto consigliare al Questore di far proprie
le informazioni del Distretto di Polizia competente e trasmetterle al Prefetto senza variarle nella sostanza; avrebbe dovuto intervenire presso il dirigente dell'Ufficio Patenti della Prefettura onde indurlo a ritardare la richiesta di nuove informazioni da inoltrare alla Questura; avrebbe dovuto fare pressioni sul dirigente dell'Ufficio Misure di Prevenzione della Questura per convincerlo a soprassedere, sino all'uccisione di Bontade, dall'inviare in Prefettura il parere sfavorevole della Squadra Mobile; sarebbe dovuto intervenire presso il Prefetto al fine di orientare la sua facoltà discrezionale verso la concessione della patente; infine, avrebbe dovuto condizionare anche il dirigente della Sezione Antimafia della Squadra Mobile per far sì che indugiasse ad esprimere un parere sul mantenimento del beneficio già concesso a Bontade dal Prefetto.
A parte il fatto che tale azione sarebbe risultata troppo complessa ed articolata,
non si può non concludere che un "interessamento" del genere avrebbe destato sospetti in qualcuno dei funzionari ed impiegati coinvolti: ma nessuno di costoro ha mai testimoniato contro Contrada, anzi tutti hanno negato recisamente che Contrada si sia mai interessato della cosa o abbia fatto pressioni nei loro confronti;

5.
nessuno degli accusatori ha mai saputo precisare in che cosa, esattamente e concretamente, sarebbe mai potuto consistere questo "intervento" di Contrada per la patente di Bontade. Nè noi, o qualcun altro più sagace e competente di noi, siamo mai stati in grado di immaginarlo. Non solo non è emerso nulla nè dagli atti nè dalle testimonianze di coloro che non sono "collaboratori di giustizia" o "pentiti" ma semplicemente uomini delle istituzioni, ma nessuno è mai stato in grado di spiegare che cosa Contrada avrebbe fatto o dovuto fare per intervenire nell'iter burocratico della pratica. Iter che, peraltro, da ciò che risulta dagli atti, appare assolutamente ricostruibile senza misteri di sorta.

Verrebbe fatto di pensare che, dinanzi a cotal mole di elementi a difesa di Bruno Contrada, il Tribunale abbia fatto cadere l'accusa.
Pia illusione.
Alle pagine 725 e 726 delle motivazioni della sentenza di condanna in primo grado, i giudici Ingargiola, Barresi e Puleo scrivono: "Osserva il Tribunale che, se anche dalla risultanze acquisite non si è pervenuti alla prova autonoma dell'interessamento diretto da parte del dottor Contrada, ma si rammenta che tale prova, da un punto di vista giuridico, secondo la costante giurisprudenza della Suprema Corte più volte richiamata, non è affatto richiesta ai fini dell'integrazione della nozione di riscontro, è indubbio che le gravi anomalie ed i favoritismi oggettivamente emersi dall'esame delle pratiche esaminate unitamente agli altri evidenziati elementi indiziari, sono idonei ad assumere la valenza probatoria del riscontro alle dichiarazioni, peraltro convergenti, dei collaboratori di giustizia Cancemi e Mannoia in ordine allo specifico favoritismo pòsto in essere dall'imputato nei confronti del mafioso Stefano Bontade".
Sembra assurdo, ma purtroppo è tutto vero.
Non si è pervenuti alla prova autonoma dell'interessamento diretto di Contrada? Non fa nulla: secondo la Cassazione, questa prova non è richiesta per poter integrare la nozione di riscontro. E allora che cosa significa "riscontro"? Un secondo tamponamento nel giro di poco tempo?
Sono emersi "favoritismi" ed "anomalie" nell'àmbito delle pratiche relative alla patente di Bontade, ossia gli uffici competenti si sono limitati a chiedere o dare il parere richiesto o a emanare il provvedimento senza approfondire altri aspetti quali la possibilità di abuso del documento di guida da parte di Bontade? Ma dev'essere stato per l'intervento di Contrada, di chi altri? Che importa se gli uffici coinvolti erano tanti ed il personale in essi impiegato era costituito da tante persone, ognuna delle quali poteva commettere delle negligenze neanche tanto infrequenti nella storia d'Italia? Cosa importa che l'onorevole Ventimiglia abbia ammesso di essere stato lui a raccomandare Bontade? Che importa se lo stesso nome dell'onorevole Ventimiglia appare segnato su uno dei fogli della pratica relativa al nuovo rilascio della patente di Bontade? Cosa può mai contare il fatto che ben due prefetti di Palermo, Grasso e Di Giovanni, abbiano escluso categoricamente di aver ricevuto pressioni da parte di Bruno Contrada?
In buona sostanza atti e documenti dimostrano che Contrada non c'entra nulla e chiamano invece in causa altri nomi (segnatamente quello di Ventimiglia, che ha ammesso tutto), ma i giudici scrivono a pagina 750 delle motivazioni: "La circostanzache Bontade potesse fruire dell'interessamento di altri soggetti all'interno delle istituzioni non costituisce alcuna smentita al ruolo svolto dall'odierno imputato". Quale ruolo, se non è venuto fuori niente, anzi, per meglio dire, è venuto fuori proprio il contrario di quanto affermato dai "pentiti"?
Non contenti di ciò, i giudici rincarano la dose a pagina 1724 delle motivazioni: "Molte delle dichiarazioni richieste dalla difesa si sono rivelate, infatti, inattendibili, provenienti da indagati o imputati di reato connesso personalmente interessati a smentire le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia (il riferimento è a Pippo Calò e Giovanni Lipari che, chiamati in causa dal "pentito" Cancemi, si sono avvalsi della facoltà di non rispondere in quanto imputati di reato connesso), altre sono risultate palesemente mendaci e molte non indifferenti in quanto viziate dagli stabili rapporti di amicizia o di pregressa collaborazione intrattenuti con l'imputato, altre ancora sono apparse del tutto irrilevanti perchè fondate su generici attestati di stima, incapaci di confutare in modo specifico i temi di prova oggetto del processo".

Perfetto. Si accusano di mendacio alti funzionari dello Stato. Potrebbe capitare, per carità, ma come mai si pensa che questi funzionari possano aver mentito quando in realtà hanno fatto dichiarazioni assolutamente credibili e congruenti su fatti e vicende cui hanno preso parte in prima persona e non si sospetta, al contrario, che possa mentire il "pentito" che si limita ad "aver sentito dire" da altri che sono morti? E come mai non si denunciano per falsa testimonianza questi alti funzionari dello Stato che avrebbero dichiarato il falso? Secondo i giudici, inoltre, le loro dichiarazioni sarebbero state addirittura influenzate da rapporti di amicizia o di lavoro con Contrada. Lo difendiamo perchè è un nostro vecchio amico e collaboratore, certo. Sulla base di cosa i giudici affermano ciò? Perchè, allora, per converso, le dichiarazioni di quei (pochissimi) esponenti delle istituzioni che hanno accusato Contrada non potrebbero essere pregiudizialmente inficiate a loro volta da antipatie personali? Chi difende Contrada deve avere torto e lo fa solo perchè è stato suo amico o collaboratore (pensate nelle mani di che razza di personaggi sarebbe stata la nostra sicurezza per tanti anni...); chi lo accusa, invece, non può che avere ragione ed essere animato dalla massima rettitudine e purezza d'intenti. "Si pone la domanda su quali altri testimoni il dottore Contrada avrebbe potuto indicare perchè narrassero e spiegassero come si erano svolti i fatti concernenti una pratica di rilascio di patente ad un indiziato di mafia, se non i funazionari che di tale pratica si erano occupati, ognuno per la parte di specifica competenza. Se a priori le loro dichiarazioni devono essere considerate mendaci, irrilevanti, ininfluenti, inattendibili, ogni possibilità di difesa è annullata" scrivono, disarmati, gli avvocati Sbacchi e Milio nel loro ricorso in appello. Tanto valeva non convocare nessun testimone a discarico. E già, perchè, oltre a tutto quello che abbiamo detto prima, le dichiarazioni di coloro che così ingenuamente hanno difeso Bruno Contrada appaiono, a parere dei giudici, "irrilevanti" anche perchè "fondate su generici attestati di stima": non mi sembra che
escludere perentoriamente di aver mai ricevuto pressioni da parte di Contrada (come hanno fatto i due ex-prefetti Grasso e Di Giovanni) rappresenti una "generica attestazione di stima". E' piuttosto una frase precisa, inequivocabile, lapalissiana, che, checchè ne abbiano pensato i giudici, in realtà va, nella sua schietta e semplice sostanza, a confutare "i temi di prova oggetto del processo". Pensate: il "tema di prova" è la dichiarazione di "pentiti" che hanno appreso su un punto ben preciso (il rilascio della patente a Bontade) cose vaghe e generiche da altri che sono morti e non possono nè confermare nè smentire; e questo "tema" non può essere confutato dalle dichiarazioni assolutamente convergenti e coerenti di chi intorno a quel punto ben preciso ha lavorato, di chi ha visto e constatato di persona e non ha bisogno di rifarsi alle parole di altri o a fatti che non derivino dalla propria, concreta esperienza...
Il termine "teatro dell'assurdo" è stato già coniato dal critico Martin Esslin in una sua pubblicazione del 1961. Possiamo soltanto prenderlo umilmente in prestito.
Come altrimenti definire quel che abbiamo or ora letto nella sentenza e quanto scritto ancora dai giudici a pagina 709 delle motivazioni? Leggiamo anche quest'altra pagina mirabile. "Ciononostante" - scrivono i magistrati, appunto, a pagina 709 (e quel "ciononostante" la dice lunga sulle indicazioni di segno contrario al "tema di prova" che sono state raccolte in udienza) - "il Bontade era riuscito ad ottenere la patente e proprio in un periodo (1978) assolutamente compatibile con la data in cui sia Cancemi che Mannoia avevano appreso la notizia dell'avvenuto interessamento da parte del dottor Contrada per fargli ottenere la patente (1979-'80) ed in un contesto in cui il dottor Contrada, dirigente della Criminalpol, era il funzionario di maggior rilievo all'interno della Questura, quel 'punto di riferimento' da molti testi indicato ed i cui 'consigli' e 'suggerimenti' erano sempre ascoltati, il funzionario che più di ogni altro godeva la stima e la fiducia del prefetto Di Giovanni e del questore Epifanio (come i predetti testi hanno dichiarato nel corso delle loro rispettive deposizioni dibattimentali)". Proviamo a riassumere anche quest'ultima perla. Non ci sono prove dell'interessamento diretto di Bruno Contrada, ma il fatto che Bontade abbia riottenuto la patente nello stesso periodo in cui i "pentiti" Cancemi e Mannoia ambientano (per "sentito dire") il suo presunto intervento in materia (ossia il biennio 1979-198o) costituisce, per la Corte, una prova a carico. E se i "pentiti" avessero detto (sempre per "sentito dire") che Contrada aveva partecipato alla rivoluzione khomeinista o al primo, grande scandalo del calcioscommesse? In fondo, proprio nel 1979 l'ayatollah Khomeini prende il potere in Iran, detronizzando Reza Pahlavi, e proprio l'anno successivo le rivelazioni di altri due "pentiti" (stavolta in àmbito calcistico), ossia Alvaro Trinca e Massimo Cruciani, scoperchiano il calderone di pastette e imbrogli che coinvolgerà, anche lì in molti casi senza alcuna prova certa, diversi calciatori di fama, come Paolo Rossi, Lionello Manfredonia o Bruno Giordano. Basta trovare un riscontro cronologico da accoppiare alla dichiarazione di Mannoia e Cancemi per dar ragione ai due "pentiti": in altre parole, anche se la prova autonoma di un interessamento di Contrada per la patente di Bontade non c'è (e questo i giudici lo dicono, come abbiamo visto, a pagina 725), il periodo in cui Bontade riebbe la patente coincide con quello indicato dai "pentiti" come data della "raccomandazione". E questo è stato sufficiente perchè la Corte avvalorasse quanto detto da Mannoia e Cancemi.
Il fatto, poi, che in quel periodo Contrada fosse il "punto di riferimento" dell'intera Polizia palermitana e apparati circostanti per via della sua esperienza e del suo carisma guadagnati sul campo, fatto che, in un Paese normale, costituirebbe soltanto un enorme merito e basta, viene addirittura ritorto contro lo stesso Contrada. Secondo i giudici i suoi "consigli" e "suggerimenti" venivano sempre ascoltati. Complimenti per la stima riservata dai giudici alla logica ed ai prefetti Grasso e Di Giovanni, al questore Epifanio e ai vicequestori Crimi e Faranda. Costoro, pur essendo emerso il contrario, avrebbero comunque favorito il rilascio della patente ad un mafioso sol perchè glielo avrebbe "suggerito" Contrada (cosa, questa, che, come abbiamo visto, non è stata mai provata). Bruno Contrada era sì il "punto di riferimento" principale per poliziotti e altri appartenenti alle istituzioni, ma per le sue attività investigative contro la mafia e non certo per il rilascio di patenti a mafiosi...

Ancora una volta ci sono solo degli "elementi indiziari" (come gli stessi giudici li definiscono). Ma questi indizi, uniti alla pietra filosofale rappresentata dalle dichiarazioni convergenti di due "pentiti" e alle "anomalie e favoritismi" di cui sopra, servono a trasformare il vil metallo del semplice sospetto nell'oro della prova certa. Se porgiamo l'orecchio al vento che soffia sopra di noi, forse sentiremo Cesare Beccaria farsi una grassa risata dalla tomba...

In breve, al di là di ogni elucubrazione e di ogni sofisma (che Protagora ci perdoni), i fatti sono i seguenti. Il 27 gennaio 1994 Mannoia non dice nulla sulla patente di Bontade; il 28 aprile 1994 Cancemi, in udienza, parla del presunto interessamento di Contrada per questa patente (ovviamente lui non sa nulla per cognizione diretta ma ha saputo tutto da altri, ossia da Pippo Calò e Giovanni Lipari, che, guarda caso, essendo imputati di reato connesso, si sono avvalsi della facoltà di non rispondere nell'udienza del 14 ottobre 1994); il 29 novembre 1994, sempre in udienza, Mannoia ricorda improvvisamente tutto e parla anch'egli di un interessamento di Contrada per la patente di Bontade (anche Mannoia, manco a dirlo, non ha da riferire altro che le parole che avrebbe sentito dire da Stefano Bontade, morto e sepolto da anni). Si viene così a creare la necessaria "convergenza del molteplice". Che poi non si sia pervenuti al riscontro oggettivo delle dichiarazioni dei due "pentiti" e, quindi, alla prova autonoma di un interessamento reale di Contrada per questa patente, e che ci siano state testimonianze chiare e nette (e anch'esse "convergenti") che scagionavano del tutto l'ex-capo della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo, questo non è valso a nulla.
Viene da chiedersi che bisogno ci sia stato di celebrare un processo.


2.3. La patente di Pinè Greco

La vicenda della patente di Bontade avrebbe dovuto essere ormai chiara in tutte le sue sfumature: Contrada non c'entra niente con la patente di Stefano Bontade, anche se i giudici, ancora una volta, avvaloreranno di fatto l'accusa formulata da un "pentito". Ma i PM Ingroia e Morvillo, che, ovviamente, non possono ancora conoscere quale sarà l'orientamento del collegio giudicante in tema di patenti e affini, tentano di giocare un'ultima carta.
Sapendo che
Giuseppe "Pinè" Greco (fratello di Salvatore Greco "Ciaschiteddu" e dunque cugino di Michele Greco "il Papa" e Salvatore Greco "il Senatore") aveva dichiarato che proprio alla fine degli anni '70 (il buon Pinè non ricorda esattamente l'anno) la patente, ritiratagli dopo una diffida, gli era stata restituita grazie all'intercessione di Stefano Bontade, i PM cercano di scavare per trovare almeno in questa storia il nome di Contrada. Fruiscono in tal senso, come abbiamo visto, anche di una vaga dichiarazione del "pentito" Francesco Marino Mannoia. Ma il tentativo di coinvolgere Contrada nel permis de conduir del buon Pinè non sortisce, alla luce dei fatti, un esito positivo. Nell'udienza dell'1 giugno 1995 nell'aula-bunker del carcere di Rebibbia, a Roma, Pinè Greco dichiara:

"Per farmi riavere la patente si era interessato Pino Romano, che conosceva Stefano Bontade, ma non so se Bontade si interessò in prima persona. Riavuta la patente, la stracciai perchè avevo sentito dire che era irregolare".

In realtà, infatti, Pinè Greco non riebbe mai legalmente la patente. Come risulta dalla documentazione inserita nel fascicolo del dibattimento con ordinanza del Tribunale nell'udienza del 9 maggio 1995, ed in particolare dalla copia del fascicolo "Categoria II" e dalla copia del fascicolo "Misure di Prevenzione - II divisione" esistenti negli archivi della Questura di Palermo, e inoltre dal fascicolo in originale della Prefettura di Palermo, tutti atti a nome di Giuseppe Greco, il decreto prefettizio n. 694 dell'11 marzo 1972 ordinò, ai danni di Giuseppe "Pinè" Greco, indiziato di appartenenza a Cosa Nostra, il ritiro della patente di guida categoria C n. 2943 rilasciatagli il 7 dicembre 1960. Il ritiro effettivo, o meglio la sospensione della patente a tempo indeterminato, avvenne l'11 ottobre 1972. Da allora, e sino ad oggi, Pinè Greco non è più rientrato legalmente in possesso della patente di guida, non avendo l'autorità competente emesso alcun provvedimento di revoca del decreto di sospensione, nè altro provvedimento di restituzione o di nuovo rilascio della patente. Al contrario, il Prefetto di Palermo, con decreto n. 45003 del 26 aprile 1990 ha disposto la revoca in via definitiva della patente di guida categoria C n. 2943 intestata a Giuseppe Greco. Dunque, se la patente del buon Pinè non fu mai restituita al titolare e finì definitivamente stracciata, di cosa si sarebbe interessato Contrada? Di fargliela strappare con cura, probabilmente. Negli atti sopracitati, invece, il nome di Contrada appare soltanto in direzione inequivocabilmente contraria agli interessi di Pinè Greco. Ricostruiamo l'iter burocratico.

1.

Il 20 agosto 1979 Pinè Greco presenta istanza per la restituzione della patente;

2.

il 12 dicembre 1979, con fonogramma n. 90/5261, il dirigente dell'Ufficio Misure di Prevenzione della Questura di Palermo, Carmelo Emanuele, chiede al I Distretto di Polizia di Palermo informazioni circa la richiesta inoltrata da Greco. Il fonogramma venne inviato da Emanuele anche se reca in calce la firma del questore Epifanio: ciò in quanto tutta la corrispondenza della Questura verso altri uffici, per prassi costante, risultava a firma del Questore anche se per l'ordinaria amministrazione, come nel caso in esame, non veniva nè scritta nè visionata dal Questore medesimo. A conferma di ciò vi è il fatto che sul fonogramma c'è la firma del Questore ma non la sua sigla.
Ma come mai tra la richiesta di Greco (agosto 1979) e il fonogramma (dicembre 1979) interviene un lasso di tempo di quattro mesi? L'istanza di Greco del 20 agosto risulta, infatti, protocollata con visto d'ingresso in Questura soltanto l'11 dicembre 1979. Poichè gli atti che pervengono alla Questura vengono timbrati e protocollati con visto d'ingresso lo stesso giorno della ricezione, ciò lascia arguire che l'istanza sia rimasta nelle mani di Pinè Greco dal 20 agosto all'11 dicembre e che sia stata presentata soltanto in quest'ultima data. Questo particolare vale per provare che Greco non poteva nutrire alcuna aspettativa favorevole per il buon esito della sua istanza: perchè, infatti, se Greco avesse davvero contato su un interessamento di Contrada o, magari, di Epifanio, avrebbe dovuto aspettare tanto tempo per inoltrare la sua istanza, col rischio di non potere più godere del presunto favore per via della possibilità che, frattanto, uno dei due potesse essere trasferito (come avvenne proprio per Epifanio e come, per quanto ne sapeva Greco, sarebbe potuto accadere anche per Contrada)?
Ma c'è un'altra osservazione da fare. Se il questore Epifanio, di sua spontanea volontà o mercè l'interessamento di Contrada o di altri, avesse avuto l'occasione e il motivo di favorire Greco, avrebbe potuto chiedere al dirigente del I Distretto di Polizia una risposta immediata onde poter, a sua volta, inoltrare sùbito alla Prefettura l'istanza di Greco con parere favorevole al rilascio per un motivo qualsiasi, ad esempio perchè la patente occorreva all'interessato per motivi di lavoro. Cosa che non ha fatto, pur sapendo che il 16 dicembre 1979 avrebbe lasciato l'incarico di Questore di Palermo;

3.

la risposta del I Distretto di Polizia con la firma del dirigente Francesco Faranda interviene, infatti, sedici giorni dopo il fonogramma, ossia il 28 dicembre 1979, data in cui Epifanio, appunto, non era più Questore di Palermo da dodici giorni;

4.

nel gennaio del 1980, nel fascicolo della Questura di Palermo concernente la pratica della patente di Giuseppe Greco viene inserito un promemoria redatto dall'Ufficio Misure di Prevenzione della Questura di Palermo ai fini del parere da esprimere e riferire alla Prefettura in ordine all'istanza inoltrata da Giuseppe Greco il 20 agosto 1979 per ottenere la restituzione della patente. Il promemoria contiene l'indicazione dei precedenti penali dello stesso Greco e del suo stato di diffidato in quanto indiziato di appartenenza a Cosa Nostra, e in esso si rileva la seguente esplicita annotazione:

"sentito il dirigente della Squadra Mobile e il dirigente dell'Ufficio Misure di Prevenzione, poichè il Greco è ritenuto capace di abusare della richiesta patente, non si esprime parere favorevole".

C'è bisogno di sottolineare che nel gennaio 1980, mentre il dirigente dell'Ufficio Misure di Prevenzione, come abbiamo visto, era Carmelo Emanuele, il dirigente della Squadra Mobile, sia pure "ad interim" dopo l'omicidio di Boris Giuliano, era proprio Bruno Contrada?

Ecco, dunque, due validi argomenti per dimostrare l'innocenza di Contrada.
Primo: nell'iter burocratico della pratica relativa alla patente di Pinè Greco appare il nome e l'intervento di quattro alti funzionari dello Stato: il prefetto di Palermo Girolamo Di Giovanni, il questore di Palermo Giovanni Epifanio, il dirigente dell'Ufficio Misure di Prevenzione della Questura di Palermo Carmelo Emanuele, il dirigente del I Distretto di Polizia di Palermo Francesco Faranda. Se Contrada avesse dovuto favorire Greco, avrebbe dovuto dapprima spingere il dottor Emanuele a chiedere immediatamente (e non dopo quattro mesi) informazioni al dottor Faranda del I Distretto di Polizia, poi avrebbe dovuto chiedere a quest'ultimo di rilasciare informazioni favorevoli e pilotate e Faranda avrebbe dovuto accettare di rispondere nei termini richiesti, quindi Contrada avrebbe dovuto chiedere al questore Epifanio di inoltrare al prefetto Girolamo Di Giovanni l'istanza con parere favorevole e, per buon ultimo, avrebbe dovuto fare pressioni sullo stesso prefetto per ottenere il rilascio della patente. Dunque, se fosse rispondente alla realtà la ricostruzione della pratica in argomento fatta nella sentenza di condanna di Contrada in primo grado da pagina 619 a pagina 637, il Tribunale avrebbe dovuto giungere alla conclusione che, per favorire Pinè Greco, ci sarebbe voluto l'accordo dei cinque alti funzionari suddetti, ossia Di Giovanni, Epifanio, Contrada, Emanuele e Faranda, nonchè la connivenza o, quanto meno, la tacita condiscendenza del personale subalterno dell'Ufficio Misure di Prevenzione della Questura di Palermo, del I Distretto di Polizia e dell'Ufficio Patenti della Prefettura. Tutto ciò per un mafioso tutto sommato "di mezza tacca" come Pinè Greco, commerciante ortofrutticolo a Bologna, anche se fratello e cugino di ben più rilevanti esponenti di Cosa Nostra.
Secondo: l'esito della pratica della patente di Greco fu negativo perchè nessun funzionario tra quelli suindicati si dichiarò disposto a volergliela rilasciare. Anzi, come abbiamo visto, lo stesso Contrada, esplicitamente e in perfetto accordo con Emanuele, esprime in maniera inoppugnabile il suo parere contrario al rilascio.

La conclusione, come somma degli addendi rappresentati dai fatti ("è la somma che fa il totale", diceva il buon principe De Curtis), si palesa in maniera evidente: anche in questo caso Contrada non c'entra nulla.
E pensare che qualche giornalista, brillante e insuperabile conoscitore del processo Contrada, ha evocato anche la patente di Pinè Greco, oltre alla patente e al porto d'armi di Bontade e ad altre fole del genere, come inquietante spettro che aleggerebbe sull'onestà e sulla lealtà alle istituzioni del dottor Bruno Contrada della Questura di Palermo...
Ma forse non è tutta colpa del giornalista in questione. Costui potrebbe aver letto o ascoltato quella parte della requisitoria in cui il PM Ingroia, nell'udienza del 14 dicembre 1995, ha riesumato il misero capitolo di Pinè Greco, affidandogli una valenza sproporzionata. Dice Ingroia: "La sparizione della patente di Pinè Greco dal fascicolo della prefettura e le dichiarazioni in cui egli afferma di avere ottenuto la restituzione del documento (da lui, però, sùbito dopo distrutto perchè era convinto che non fosse regolare) confermano in pieno le dichiarazioni di Marino Mannoia. L'istanza di restituzione venne presentata in Questura e non in Prefettura, perchè è lì che si predisposero le carte per accontentare la richiesta proveniente, secondo il collaboratore di giustizia, da Bontade. Ma la presenza del questore Immordino mandò a monte tutto: il questore negò, infatti, la restituzione, rilevando che Greco era indiziato di mafia. Allora si agì sul versante della prefettura. Analoghe anomalie sono emerse nella procedura di concessione del passaporto a Pinè Greco, avvenuta con singolare velocità, senza attendere il parere dell'Ufficio Misure di Prevenzione e senza annotare chi lo ritirò materialmente". I giudici, alle pagine 632-633 delle motivazioni della sentenza di condanna di primo grado, avallano quest'impostazione, scrivendo: "Tuttavia, nel corso del procedimento avviato all'interno della Questura per la pratica Greco, il dottore Contrada era stato interpellato, nella sua qualità di dirigente della Squadra Mobile, dal questore Immordino: dalla documentazione non si rileva il parere espresso - se negativo o positivo - dall'imputato in ordine alla restituzione della patente in esame".
Non è possibile.
Aristotele sosteneva che il cuore era il centro del sistema nervoso, ma, una volta, Galileo, sezionando un cadavere, mostrò ai suoi studenti che al cuore arrivava soltanto un sottilissimo nervo: i suoi studenti gli risposero che vedevano e constatavano, sì, ma ipse dixit, Aristotele aveva detto diversamente, dunque bisognava credere al filosofo di Stagira. Qua siamo di fronte alla medesima situazione. C'è un atto dove, in maniera icastica ed incontrovertibile, il dirigente della Squadra Mobile Bruno Contrada si dichiara sfavorevole
Ricapitolando: Pinè Greco non riebbe mai legalmente la sua patente, la riottenne solo in modo irregolare ed il nome di Contrada viene fuori solo come autore di un parere assolutamente contrario alla restituzione della patente medesima a Greco. Il "pentito" Mannoia la pensa, però, diversamente e "deve" avere ragione. Ragione su che cosa? Sul fatto che Pinè Greco riebbe la patente per vie traverse perchè raccomandato da Bontade? E questo, più o meno, lo ha sostenuto anche Pinè Greco. Ma Contrada che c'entra? Ed è qui che viene fuori il "teorema" accusatorio, l' "impalcatura" di cui abbiamo più volte parlato, che non si basa su fatti certi ma su illazioni e sospetti: siccome qualcuno raccomandò Pinè Greco, e forse fu Bontade, e siccome ad un certo punto dell'iter burocratico ci si imbatte nella Questura, ecco che, per magia, senza che nessuno l'abbia fatto esplicitamente, aleggia comunque nell'aria, etereo ed evanescente, il nome di Bruno Contrada, che della Questura di Palermo, in quel momento, è un alto dirigente. E che, per l'accusa, dato che lo hanno detto i "pentiti", "deve per forza" conoscere Bontade. In altre parole, non è stato accertato che Pinè Greco sia stato raccomandato da Bontade (
"Per farmi riavere la patente si era interessato Pino Romano, che conosceva Stefano Bontade, ma non so se Bontade si interessò in prima persona" dice Pinè Greco: dunque, lui sa solo che Pino Romano conosceva Bontade, non ha mai detto di sapere nè che Bontade incaricò esplicitamente Romano nè che si interessò in prima persona); il nome di Contrada non salta fuori in nessun modo; ma, poichè i "pentiti" hanno detto che Contrada conosceva Bontade, allora "è plausibile" che, se Bontade si interessò di questa benedetta patente, lo fece tramite Contrada.
Quanti "se"! Quanti "forse"! E bastano per avvalorare un'accusa, che dovrebbe andare, invece, "oltre ogni ragionevole dubbio"? Questo modo di ragionare (che farebbe rivoltare nella tomba Aristotele e altri sostenitori della logica) è stato applicato praticamente in tutto il processo, costellato di ipotesi tramutate necessariamente in tesi, di "sentito dire" che diventa "verità", di voces populi che diventano acriticamente vox dei.
Non solo. Il PM tira in ballo, stavolta in un coro di angioletti e circonfuso da un'aura di moralizzatore, il questore Immordino. Anche qui si riaffaccia la cultura del sospetto. Nulla da dire su Immordino. Ma, siccome il suo nome è stato contrapposto a quello di Contrada per la vicenda dell'indagine su Michele Sindona del 1980 e del blitz del maggio di quell'anno (fatti di cui parliamo in un altro capitolo), fa gioco contrapporre ancora una volta il nome di Immordino (della cui opposizione al rilascio della patente a Pinè Greco non v'è alcun motivo di dubitare) a quello di Contrada (che, al contrario, non viene fuori per nulla nella vicenda di questa patente). Ma, a tal proposito, c'è un'ultima nota di colore (fosca) in questo che sembrava un capitolo marginale del processo ma che si è riusciti a far diventare un ginepraio. Pinè Greco riebbe in qualche modo la sua patente. Non potè riaverla, come abbiamo visto, per vie legali, anzi c'è un parere nettamente ed esplicitamente sfavorevole espresso da Bruno Contrada contro il rilascio della patente medesima. Sentite, allora, come si esprimono i giudici alle pagine 633 e 634 delle motivazioni della sentenza di condanna di primo grado: "Ritiene il Collegio che tra tale illecita sottrazione ed il pregresso avviamento della pratica con rara celerità presso gli Uffici della Questura vi sia una certa connessione, ove si consideri che, secondo quanto dichiarato
nell'udienza del 15 marzo 1995 dal teste Piero Mattei (che ha prestato servizio presso la Prefettura di Palermo dal 1985 al 1990 e nuovamente dal gennaio 1993 ad oggi) il personale di polizia ha normalmente accesso agli archivi esistenti presso l'Ufficio Patenti della Prefettura e solo in tempi recenti è stata instaurata la prassi di formalizzare una richiesta scritta per la consultazione, di cui rimane traccia agli atti". Traduzione: poichè Bruno Contrada non sarebbe riuscito a far ottenere a Pinè Greco la restituzione della patente per vie legali in quanto era, nel frattempo, giunto a Palermo il questore Immordino, lo stesso Contrada sarebbe ricorso allora alla sottrazione materiale del documento giacente presso la Prefettura. In breve, il capo della Criminalpol della Sicilia Occidentale si sarebbe abbassato fino a diventare un topo d'archivio e un ladruncolo per favorire un mafioso di quart'ordine che faceva il commerciante ortofrutticolo. Sia detto con tutto il rispetto per gli impiegati dei vari archivi d'Italia e per tutti i commercianti di frutta e verdura, ma questo appare davvero al di fuori di ogni realtà che si voglia definire tale. Persino un nichilista inveterato terrebbe in considerazione i punti di riferimento che si sono delineati nel panorama della vicenda, e che sono tutti a favore di Bruno Contrada. Il collegio giudicante, invece, non lo ha fatto: se Contrada non ha potuto favorire Pinè Greco da un punto di vista burocratico, allora si è messo una bella calzamaglia nera con tanto di maschera, si è introdotto nottetempo negli uffici della Prefettura e, commesso il furto, si è allontanato rombando sulla macchina di Macchia Nera. E' superfluo far notare che, anche a voler dare un minimo di credito a questa che è e rimane una supposizione, non esistono, ovviamente, fatti che possano comprovarla: i giudici non trasformano, a onor del vero, tale supposizione in un'accusa formale, ma il solo fatto di enunciarla in quel modo significa portare ancora acqua al mulino di quella famosa "impalcatura" di sospetti e veleni che costituisce il leit-motiv di tutto il processo. E, senza voler necessariamente scomodare John Locke o Cesare Beccaria, si può, in tutta sincerità, condannare qualcuno sulla base di un' "impalcatura"?

Spine-chilling, direbbero gli inglesi. Ma stavolta il brivido di freddo che attraversa la schiena non dipende dall'articolata trama di un thriller avvincente. Dipende dalla triste e, appunto, agghiacciante consapevolezza della pertinacia con cui si deve a tutti i costi sostenere una tesi accusatoria anche quando i suoi fondamenti si rivelino d'argilla.


2.4. Il passaporto di Pinè Greco

La losca attività pseudoburocratica di Contrada, secondo quanto emerso dal processo, avrebbe potuto riguardare anche il passaporto di Pinè Greco. A costui la Questura di Palermo rilasciò effettivamente il passaporto il 16 marzo 1978. A tal proposito, basterebbe rilevare che nella pratica relativa a quel passaporto non v'è traccia di alcun interessamento a qualsiasi titolo da parte dello stesso Contrada, ma questo tipo di argomenti, come abbiamo visto prima e come vedremo, purtroppo, anche in seguito, non è servito a convincere il collegio giudicante.
Si aggiunga, allora, che, secondo quanto stabilito dalla legge, il rilascio del passaporto non è una concessione ma un diritto del cittadino, e il diniego è possibile solo in casi previsti in via tassativa quali pene da espiare, procedimenti penali in corso, sottoposizione a misure di prevenzione e così via. Il 16 marzo 1978 Pinè Greco non si trovava in nessuna di queste condizioni e aveva, dunque, pieno diritto al rilascio del passaporto senza bisogno di alcuna raccomandazione: tant'è vero che l'Ufficio Misure di Prevenzione della Questura di Palermo non espresse alcun parere, in quanto doveva soltanto comunicare se, in atto, Greco fosse sottoposto a misure di prevenzione. Il che non era.
Ma, ciò premesso e considerato anche che nè Pinè Greco nè Mannoia hanno fatto cenno ad un eventuale interessamento di Contrada per il passaporto dello stesso Greco, il collegio giudicante scrive a pagina 637 delle motivazioni della sentenza di primo grado: "Da quanto sopra detto consegue che le dichiarazioni di Marino Mannoia hanno trovato adeguato riscontro ab extrinseco nelle risultanze processuali esaminate che hanno dimostrato l'esistenza di anomalie nelle pratiche relative alla patente di guida ed al passaporto del Greco, sintomatiche di interessamenti nei suoi confronti provenienti dagli Uffici della Questura di Palermo ove operava, con funzioni di dirigente, l'imputato". Ovvero, ancora il mosaico di sospetti e di veleni che si intersecano per formare una forzata verità mai dimostrata. Basta pensare che le "anomalie nelle pratiche" siano sintomatiche di "interessamenti provenienti dalla Questura" e aggiungere che Contrada, in quel momento, era un alto dirigente della Questura medesima, per poter, in sede penale, ossia in quella che dovrebbe essere la sede della certezza oggettiva ed incontrovertibile, dedurre che sia stato Contrada e non un altro delle centinaia di impiegati, funzionari e dirigenti della Questura ad interessarsi di quelle pratiche. Si deve necessariamente ricollegare la vicenda burocratica del passaporto di Pinè Greco (dalla quale non traspaiono evidenti anomalie) alla vicenda, oggettivamente più intricata, della patente dello stesso Greco, ma il collegamento avviene sempre (chiediamo scusa a Platone) nell'iperuranio del sospetto e della supposizione non avallata dai fatti.

Si potrebbe aggiungere anche un'altra nota. 16 marzo 1978. Questa data vi ricorda qualcosa? A me sì, come ho scritto anche nell'introduzione di questo libro. In quella terribile mattinata, lontano da Palermo ma non troppo, il maresciallo Oreste Leonardi, l'appuntato Domenico Ricci, la guardia di PS Giulio Rivera, il brigadiere di PS Francesco Zizzi e la guardia di PS Raffaele Iozzino cadevano, in quel di via Fani, a Roma, per difendere l'onorevole Aldo Moro, che, dopo la strage della sua scorta, veniva rapito dalle "Brigate Rosse". Tutti sappiamo, purtroppo, come andò a finire. Ma lo choc di quella mattina è qualcosa che non si dimentica facilmente. Pensate: in quell'atmosfera di choc nonchè in uno stato di allarme generale, quasi a livello di una guerra civile o di un colpo di stato in atto, con un'Italia pronta a barricarsi in casa, frastornata, o a scendere in piazza (come era plausibile potesse accadere), con il pericolo di altre azioni terroristiche che potevano aver luogo ovunque (non si sapeva, infatti, se l'agguato di via Fani potesse far parte di una strategia più estesa ed articolata), e con tutte le forze di Polizia conseguentemente mobilitate sull'intero territorio nazionale, un alto dirigente di Polizia come Bruno Contrada, capo della Criminalpol della Sicilia Occidentale, invece di preoccuparsi dell'ordine pubblico, avrebbe trovato il tempo di occuparsi del passaporto di un fruttivendolo...


2.5. Il porto d'armi di Stefano Bontade

Udienza del 28 aprile 1994: il "pentito" Salvatore Cancemi accusa Bruno Contrada di essersi interessato anche per far riavere a Stefano Bontade il porto d'armi. Queste le sue parole:

CANCEMI - "... Lui, Giovanni Lipari, mi ha detto espressamente che il dottor Contrada si aveva interessato, tramite il suo interessamento ci aveva fatto prendere la patente di guida a Stefano Bontade e il porto d'armi. (...) E poi mi ricordo nel tempo, quando poi sono uscito dal carcere, nel 1979 siamo ritornati poi sull'argomento..."

In realtà, la vicenda è ben diversa. Per capirla, bisogna partire dall'inizio.
Il porto d’armi fu rilasciato a Stefano Bontade a Palermo nel 1960. Bruno Contrada, in quel momento, prestava ancora servizio alla Questura di Latina: fu trasferito a Palermo soltanto due anni dopo, verso la fine del 1962. E' noto a tutti, penso, che la competenza territoriale per le raccomandazioni alla Questura di Palermo spetta alla Questura di Latina, no?
Bruno Contrada arriva a Palermo, dunque, due anni dopo il rilascio del porto d'armi a Stefano Bontade. E il suo primo approccio col "principe di Villagrazia" può essere definito in tutti i modi tranne che con l'aggettivo "amichevole". Nel marzo del 1963 una volante ferma a Falsomiele, un quartiere alla periferia di Palermo, una Giulietta con a bordo Nicolò Greco, Paolo Greco (fratello di Salvatore Greco "l'Ingegnere") e Stefano Bontade (figlio del boss Francesco Paolo Bontade, detto Paolino, ed ancora incensurato). Tutti e tre sono armati. Paolo Greco, l'unico a non avere il porto d'armi, viene arrestato. Stefano Bontade, invece, esibendo il suo regolare porto d'armi (rilasciatogli, come abbiamo detto, nel 1960) e risultando, appunto, incensurato, viene rilasciato per ordine della Sezione Investigativa della Squadra Mobile. Contrada, in quel momento, dirige la Sezione Catturandi ma sta già indagando a fondo su Cosa Nostra: avendo rilevato per primo la pericolosità di Stefano Bontade, il 29 marzo 1963 segnala immediatamente alla Sezione Investigativa, al capo della Squadra Mobile Umberto Madia e al questore l’inopportunità che un personaggio così ambiguo abbia un regolare porto d'armi. Proprio a seguito di questa iniziativa di Contrada, la Sezione Investigativa propone e ottiene la revoca del porto d'armi di Bontade. Di lì a poco, nel mese di maggio del 1963, Contrada inserisce il nome di Stefano Bontade nel "Rapporto dei 37", e nel luglio dello stesso anno, sulla base di nuove indagini, lo denuncia esplicitamente come mafioso nel "Rapporto dei 54": "Inserii il nome di Bontade nel 'Rapporto dei 37' " - ricorda lo stesso Contrada durante il processo a suo carico, nell'udienza del 22 novembre 1994 - "solo per la sua amicizia con Paolo Greco. Sùbito dopo lo denunziai direttamente nel 'Rapporto dei 54' ". In seguito, sempre per merito delle segnalazioni di Bruno Contrada, il 24 settembre del 1963 Stefano Bontade viene sottoposto a diffida quale "elemento socialmente pericoloso".

Uno dei primi atti di Contrada come funzionario della Squadra Mobile di Palermo, dunque, contestualmente all'individuazione di Bontade come mafioso, fu privare lo stesso Bontade di un documento che gli consentiva di girare tranquillamente armato. E fu proprio grazie all'intuizione di Contrada che Stefano Bontade non solo non potè mai più ottenere un porto d'armi ma entrò definitivamente nel mirino della Polizia. Contrada, sia pure arrivato da poco a Palermo, aveva cominciato ad intralciare pesantemente il cammino a Stefano Bontade e ad altri boss. Più tardi, nel 1971, Contrada denuncerà Bontade nel famoso "Rapporto dei 114", in seguito al quale, nel 1974, i giudici condanneranno il "principe di Villagrazia" a 3 anni di reclusione: Bontade verrà assolto in appello nel 1976, ma resterà al soggiorno obbligato fino al febbraio del 1977.
L'attività investigativa di Contrada ai danni di Stefano Bontade è, dunque, palese e meritoria e ha sortito effetti positivi anche in àmbito giudiziario. Altro che favori relativi a patenti e porto d'armi: Contrada ha non soltanto individuato per primo Stefano Bontade come mafioso, ma lo ha sempre, tenacemente, perseguito.
Proprio ciò che ogni "amico" fa nei confronti di un altro "amico"...

Ma i giudici, a pagina 738 delle motivazioni della sentenza di primo grado, scrivono: "In conclusione deve rilevarsi che nella materia in esame (porto d'armi a Bontade) non è stato possibile, a causa della lacunosa documentazione reperibile, trovare elementi di riscontro alle dichiarazioni del Cancemi, ma va parimenti osservato che non sono emersi nemmeno dati o fatti che possano in qualche modo smentire le affermazioni del collaborante".
Sic! Non sono stati trovati riscontri alle dichiarazioni di Cancemi, dunque quanto da lui affermato in materia non dovrebbe essere considerato attendibile. Invece, con uno sforzo di fantasia, i giudici sostengono che non sono stati trovati nemmeno dati che contrastino con quanto Cancemi ha dichiarato. Non troviamo la prova che la marmellata sia stata rubata? Ma non abbiamo trovato neanche la prova che il vasetto sia rimasto al suo posto. Non c'è la prova nè del bianco nè del nero, dunque, pur di non smentire il "pentito", bisogna credere ad un nero non provato, ancorchè stemperato nei fumosi toni di un grigio che non significa assolutamente nulla. Ma, in realtà, il bianco appare provato. Gli elementi di riscontro alle dichiarazioni di Cancemi in materia non sono stati trovati non per la lacunosità della documentazione reperibile ma per l'inesistenza di qualsiasi documentazione sull'argomento, visto che dopo il 1963, anno in cui gli fu revocato su impulso di Bruno Contrada, il porto d'armi Bontade non lo riottenne più. Punto e basta. Come è stata trovata traccia del porto d'armi rilasciato a Bontade nel 1960 (quando Contrada era in servizio alla Questura di Latina e Stefano Bontade non era ancora noto agli inquirenti come mafioso), a maggior ragione si sarebbe senz'altro trovata traccia di eventuali nuovi titoli o rinnovi del medesimo porto d'armi nel corso degli anni '70 e '80, quando Bontade era ormai noto a tutti come uno dei capi di Cosa Nostra. Invece, Bontade il suo porto d'armi non lo rivide mai più, nè il porto di pistola (nessun titolo del genere gli fu trovato addosso quando fu ucciso, pur essendo, in quel momento, in possesso di una pistola calibro 7,65 con matricola abrasa), nè il porto di fucile per uso di caccia: la Questura di Palermo non rilasciò più alcun porto d'armi al "principe di Villagrazia". Questo fatto è stato confermato da tre rilievi ben precisi:

1) l'esame dei fascicoli e degli schedari della Questura di Palermo (Archivio Generale, Archivio Pregiudicati, Divisione di Polizia Amministrativa, Divisione di Polizia Giudiziaria, Ufficio Misure di Prevenzione) e del Commissariato di Polizia competente per territorio, ossia il Commissariato Oreto-Stazione (già Primo Distretto);

2) le dichiarazioni dei funzionari che per legge sarebbero stati preposti al rilascio del porto d'armi, vale a dire il dirigente del Commissariato di Polizia competente per territorio, cioè il Commissariato Oreto-Stazione (già Primo Distretto), per quanto concerne il porto di fucile, ed il questore di Palermo, per quanto concerne il porto di pistola. Negli anni 1977-'79 (quelli in cui Bontade avrebbe potuto richiedere il rilascio del porto d'armi, non essendo pensabile che potesse farlo fino al 1977, quando si trovava al soggiorno obbligato: sono gli anni, tra l'altro, ai quali si riferisce Cancemi nelle sue dichiarazioni) il dirigente del Commissariato Oreto-Stazione era il vicequestore Francesco Faranda e il questore di Palermo era Giovanni Epifanio. Entrambi hanno dichiarato che Bruno Contrada non è mai intervenuto presso di loro non solo per il porto d'armi di Stefano Bontade ma nemmeno per altre pratiche amministrative o per chiedere favori di alcun genere per nessuno. Il questore Epifanio, su precisa domanda se Contrada avesse mai esercitato su di lui pressioni per il rilascio di documenti o altri tipi di favori per mafiosi o non mafiosi, dichiara, infatti, nell'udienza del 5 maggio 1995:

EPIFANIO - "No, no, assolutamente; non era nello stile di Contrada. A me non ha chiesto, nei tre anni, mai nulla."

Ad analoga domanda, il vicequestore Faranda risponde, nell'udienza del 21 marzo 1995:

FARANDA - "Il dottor Contrada non mi ha mai segnalato neanche una pratica di carattere amministrativo. (...) No, no, no. Segnalazioni il dottor Contrada a me non ne ha fatte mai. Nè di pregiudicati, nè di altri. Sollecitazioni il dottor Contrada a me non ne ha fatte mai per nessuno."

Faranda aggiunge, poi, circa questa fantomatica istanza di rilascio di un nuovo porto d'armi da parte di Bontade:

FARANDA - "No, no, sicuramente. Guardi, avrebbe avuto parere negativo, perchè il porto d'armi non è come la patente, il porto d'armi risponde a dei requisiti precisi che sono nell'articolo 11 e nell'articolo 43 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza e nei corrispondenti articoli del regolamento. Ci sono casi in cui è assolutamente vietato dalla legge, non c'è neanche la facoltà di rilasciarlo. E, visti i precedenti di Bontade, non credo che si potesse rilasciare un porto, nè di fucile nè di pistola."

Del resto, se il dirigente del I distretto di Polizia o il questore avessero concesso il porto d'armi ad un soggetto con lo "stato di servizio" di Stefano Bontade (già diffidato, condannato al soggiorno obbligato, arrestato, processato e condannato in primo grado, ancorchè poi assolto in appello) avrebbero commesso un reato;

3) ci sono, infine, le dichiarazioni del capitano dei Carabinieri Luigi Bruno, che ha esposto i risultati dei suoi accertamenti nelle udienze del 18 ottobre 1994 e del 12 ottobre 1995. Vediamo cosa afferma il capitano Bruno, in particolare, in quest'ultima udienza:

INGROIA - "Quindi, dalla documentazione rinvenuta presso il Commissariato Oreto-Stazione, territorialmente competente per le pratiche di Stefano Bontade, c'era o non c'era traccia di autorizzazione di porto d'arma a favore di Stefano Bontade?"

CAPITANO BRUNO - "No, non vi è stata, non abbiamo rinvenuto traccia di documentazione relativa al porto d'armi o comunque a titoli di polizia rilasciati per il periodo in questione a Bontade Stefano. (...) Io ho già risposto che, nel periodo interessato alla vicenda, non ho trovato tracce di autorizzazioni di polizia rilasciate a Stefano Bontade. (...) Risulta presso i registri del Commissariato competente per territorio come titolare di fucile e anche pistola, sia arma lunga che arma corta."

INGROIA - "In quale periodo?"

CAPITANO BRUNO - "Gli anni '60, da fine anni '50... fine anni '50, anni '60."

In poche parole, Bontade non riottenne più il suo porto d'armi. "Bontade mai avrebbe potuto ottenere, per il suo stato di mafioso accertato, una licenza di porto d'armi" - scrivono gli avvocati Milio e Sbacchi nell'atto di impugnazione della sentenza di primo grado - "Qualora avesse inoltrato una istanza intesa ad ottenerla, risulterebbe, senza alcun dubbio, unitamente ai relativi pareri, dagli atti del fascicolo A, Categoria II della Questura. Voler revocare in dubbio una certezza del genere, con speciose e pretestuose argomentazioni circa fascicoli andati al macero o disservizi burocratici della Questura in ordine alla tenuta di documentazione o registri, significa soltanto non voler ammettere ad ogni costo la verità e cioè che Cancemi, nel dire che il dottore Contrada alla fine degli anni '70 si era interessato acchè al Bontade venisse rilasciata una qualsiasi licenza di porto d'arma (pistola o fucile che sia) ha detto il falso".
Invece i giudici,
a pagina 736 delle motivazioni della sentenza di primo grado, scrivono: "(...) Che non smentisce la possibilità che al predetto (a Bontade, nda) possa effettivamente essere stato rinnovato, anche nel periodo di interesse, quanto meno il porto di fucile (...) E' possibile ritenere che nel periodo d'interesse fosse munito quanto meno del porto di fucile per uso caccia". Ciò soltanto perchè Tommaso Buscetta, nell'udienza del 25 maggio 1994, aveva dichiarato che a lui risultava che ogni mattina Stefano Bontade andava a caccia portando con sè dei fucili... Figuriamoci! Un uomo come Bontade che non aveva scrupoli nel rubare o far uccidere altre persone e sul cui cadavere è stata rinvenuta, come abbiamo visto, una pistola calibro 7,65 con matricola abrasa ma senza porto di pistola, si sarebbe pòsto lo scrupolo di andare a caccia con dei fucili pur senza avere il porto di fucile...


2.5. Il porto d'armi del principe Vanni Calvello

Se nel processo Contrada hanno fatto rientrare un Ordine Equestre come quello dei Cavalieri del Santo Sepolcro di Gerusalemme, non poteva non esserci posto, come in ogni film di cappa e spada che si rispetti, anche per del sangue reale. Non il sangre real che Dan Brown e altri ritengono l'etimo originario della locuzione Sacro Graal (beh, anche in quel caso c'entrano Priorati d'israelitica origine...) ma un sangue reale più "terreno" e di origini europee. Sia detto per inciso, io sono tra quelli che è propenso a credere che le ipotesi di Dan Brown possano avere un fondamento: bisogna essere sempre aperti a nuove possibilità di conoscenza. L'ironia di cui sopra ovviamente si riferisce non al "Codice daVinci" ma al processo Contrada, del quale, forse, un giorno si occuperà o Dan Brown o qualcun altro, certamente ben più autorevole del sottoscritto.
Ma andiamo ad analizzare con ordine parole e fatti.

Il nome del principe Alessandro Vanni Calvello Mantegna di San Vincenzo (per quanto "blu" possa essere, non è questo il "sangue reale" a cui ci riferivamo prima) viene fatto per la prima volta dal "pentito" Leonardo Vitale il 30 marzo 1973. Basandosi su queste dichiarazioni, il 15 novembre 1974, con una nota inviata al questore, Contrada invita la Questura a valutare se sia il caso di revocare al principe il porto d'armi: in seguito alla nota di Contrada, un decreto prefettizio del 4 maggio 1975 revoca il porto d'armi al principe.
Nel 1979, durante le indagini sull'omicidio di Boris Giuliano, il nome del principe torna in evidenza, mentre, poco tempo dopo, è il nome di Pietro Vanni Calvello Mantegna di San Vincenzo a emergere, stavolta nell'àmbito delle indagini sul falso rapimento di Michele Sindona. Alessandro e Pietro Vanni Calvello Mantegna di San Vincenzo avevano costituito una società di fatto con Francesco Di Carlo, boss di Altofonte (piccolo paese a pochi chilometri da Palermo), per la gestione del ristorante e discoteca "Il Castello" di San Nicola L'Arena, un paesino vicino Trabia, ad una trentina di chilometri da Palermo. Di Carlo, già condannato a 25 anni di carcere per un traffico internazionale di droga che egli stesso gestiva dalla Scozia, dopo aver scontato circa metà della pena nelle carceri britanniche, si "pente", torna in Italia e, grazie alla sua collaborazione con la giustizia, ottiene progressivamente la libertà. Una libertà che deve, però, guadagnarsi. Ed ecco che il 6 febbraio 1999, tre anni dopo la sentenza di primo grado che condannava Bruno Contrada a 10 anni di reclusione, Di Carlo entra in scena come "pentito" nel processo Contrada, giunto in fase d'appello.
Ecco il suo racconto. Il 20 ottobre 1980, Elisabetta II Windsor, regina d'Inghilterra, e il principe consorte Filippo di Edimburgo (eccolo, il "sangue reale" di cui sopra) approdano col panfilo reale "Britannia" al porto di Palermo. Partecipano ad un pranzo in loro onore, organizzato dal Ministero degli Esteri, dalla Presidenza della Regione Siciliana e dalla Prefettura di Palermo a Palazzo Ganci di Valguarnera, storica dimora dei prìncipi Vincenzo di San Vincenzo e Stefania Ganci nel cuore del centro storico di Palermo. Di Carlo racconta ai magistrati che il dottor Contrada, all'epoca capo della Criminalpol della Sicilia Occidentale, rimane terribilmente offeso per non essere stato invitato al pranzo di gala a Palazzo Ganci e incolpa di questo atroce misfatto il principe Alessandro Vanni Calvello Mantegna di San Vincenzo, figlio del padrone di casa. Secondo Di Carlo, Contrada, subìto l'affronto, giura di farla pagare cara al principe. La notizia si sparge nell'ambiente della mafia e Di Carlo, preoccupato per il principe, suo ex-socio in affari, sostiene di esser ricorso addirittura al boss Saro Riccobono perchè scongiurasse il pericolo. Ascoltiamo le alate e auliche parole del "pentito" Di Carlo: "Ci aveva detto che era offeso perchè ci era stata la visita a casa di questo mio amico Alessandro a Palazzo Ganci, la visita della Regina d'Inghilterra col marito, avevano pranzato là e che non era stato invitato... e ce la avrebbe fatto pagare al principe Alessandro... Io sapevo che il Contrada era intimo con Saro Riccobono, io vado a dirci a Riccobono di stare attento a Contrada cosa aveva con il principe di San Vincenzo, la prima occasione che ho avuto con Saro ci ho detto: 'vedi che le cose stanno così e così, dicci a Contrada che non ha niente da farci pagare altrimenti ce la faccio pagare io'. Saro mi ha visto un po' incavolato e mi ha detto: 'tu sai chi mi tocca Alessandro io ci tolgo la vita' ". Alla domanda "Lei, signor Di Carlo, avrebbe ammazzato Contrada se avesse toccato il principe di San Vincenzo?” il "pentito" risponde: "Ma non io, Saro Riccobono stesso, perché prima viene uno di Cosa Nostra e poi veniva il dottor Contrada, anche per il Riccobono stesso. Cosa Nostra lo avrebbe ammazzato se avrebbe (sic!, nda) fatto qualcosa a uno di Cosa Nostra!. E' inutile dire che gli strafalcioni non sono frutto di errori di stampa ma parto diretto e plurigemellare della profonda cultura umanistica del "pentito"...

Analizzando bene le parole di Francesco Di Carlo, si può evincere che, tra il sacrificio del nobile mafioso, per mano del dottor Contrada, e quello del presunto amico Contrada, don Saro Riccobono non avrebbe avuto alcuna esitazione ad optare per il secondo e ad uccidere il poliziotto. Perdendo, in questo modo, per una questione d' "onore", quello che, secondo i "pentiti", sarebbe stato il suo collegamento più valido e prezioso tra le forze dell'ordine. La cosa, ovviamente, appare contraddittoria: un capomafia come Riccobono, pregiudicato, ricercato attivamente dalle forze dell'ordine e, in quel periodo, anche nel mirino dei "corleonesi" emergenti (che lo avrebbero fatto fuori meno di due anni dopo), sarebbe stato disposto a perdere un appoggio importante in un momento estremamente critico della sua vita e della sua carriera mafiosa per una sorta di devozione da romanzo cavalleresco. Non risulta molto credibile.

E Contrada? Vediamo come la "fece pagare cara" al principe. Il 22 marzo di quel medesimo 1980, cioè pochi mesi prima della visita dei Reali d'Inghilterra a Palermo, Contrada aveva scoperto che al principe Alessandro era stato restituito il porto d'armi (revocato, come abbiamo visto, nel 1975 proprio su impulso di Contrada) e, in una nuova nota al Questore, aveva chiesto, proprio come cinque anni prima, se fosse il caso di revocarlo. In una nota successiva, datata 18 ottobre 1980 (due giorni prima dell'approdo del "Britannia" a Palermo), Contrada riassume le indagini della Questura di Palermo sul principe Alessandro, dalle quali emergono contatti sospetti del principe ma nessuna prova determinante: Contrada ed il questore Giuseppe Nicolicchia, in pieno accordo, decidono di lasciare il porto d'armi a Calvello al solo scopo di non insospettirlo, ben sapendo che, in ogni caso, glielo possono revocare in qualsiasi momento. Il 22 ottobre 1980 (quindi due giorni dopo il pranzo a Palazzo Ganci) il questore Nicolicchia spedisce una nota sull'argomento al prefetto Girolamo Di Giovanni: anche il prefetto conviene sull'opportunità di lasciare al principe il suo porto d'armi.
Ed ecco, dunque, l'atroce "vendetta" di Contrada nei confronti di Calvello: Contrada, che già prima dell' "onta" del mancato invito si era occupato del principe a livello di atti di polizia giudiziaria, concorda col questore di lasciare il porto d'armi al nobile. Bella vendetta, non c'è che dire. Se, invece, avesse voluto favorirlo, probabilmente si sarebbe offerto direttamente di pulirgli e lubrificargli l'arma. Pensate che incosciente! In caso di duello, lo trovava già armato...


2.6. I rapporti tra Contrada e il conte Cassina

"Il rapporto tra Bontade ed il conte Cassina" - spiega il PM Antonino Ingroia nella requisitoria (udienza del 24 novembre 1995) - "era il tipico rapporto che intercorre fra mafioso e imprenditore contiguo. Il primo assicura protezione ed il secondo contraccambia con favori. Cassina non si limitava a subir ma consapevolmente si serviva di questo rapporto per i suoi interessi (...). Alcuni uomini di Bontade, come Giovanni Teresi ed Enzo Sutera, sono stati assunti dalle imprese del gruppo Cassina (come ricordato dal capitano dei Carabinieri Luigi Bruno nell'udienza del 18 ottobre 1994, Giovanni Teresi, cognato di Bontade, svolgeva mansioni di capo operaio per il conte Cassina dal 1967, poi dal 1975 al 1984 fu assunto dalla "LESCA", facente capo a Luciano Cassina, figlio del conte, come rappresentante legale; Enzo Sutera non era un diretto dipendente di Cassina, ma dal 1981 al 1982 ha lavorato alla "Faxura", ditta facente capo a Luciano Cassina, nda). Erano formalmente dipendenti, ma non andavano a lavorare. Controllando i registri delle buste paga, abbiamo scoperto che spesso non risulta la loro firma. Comunque, lo stipendio lo percepivano lo stesso".
Questo, secondo i PM, proverebbe i rapporti tra il conte Cassina e Stefano Bontade. E' anche assodato che Contrada conoscesse il conte Cassina (chi non conosceva una delle figure più importanti dell'imprenditoria siciliana nonchè uno dei personaggi di spicco del cosiddetto jet-set palermitano?). Ma perchè due più due dovrebbe fare cinque? Ossia perchè, se Contrada conosceva Cassina e Cassina conosceva Bontade, bisogna ammettere, in una sorta di perversa proprietà transitiva, che Contrada dovesse necessariamente conoscere Bontade e diventare addirittura suo amico?
Comasco di origine (è nativo di Cernobbio), il conte Arturo Cassina si trasferisce a Palermo nel 1938. La leggenda vuole che fu l'interessamento dello stesso Galeazzo Ciano, potente genero di Benito Mussolini e Ministro degli Esteri, a consentire al conte di aggiudicarsi l'appalto per la manutenzioine delle strade e delle fognature a Palermo. Da allora tale appalto fu r
innovato ogni nove anni dall'amministrazione comunale per tacito consenso generale, ed il "commendatore" (come il conte ha sempre preferito farsi chiamare) ha sempre dato i lavori in subappalto a piccole cosche mafiose di quartiere, percependo dal comune di Palermo compensi notevolmente più alti della media nazionale. La prima gara d'appalto per la manutenzione delle strade e delle fogne palermitana, indetta nel 1971 in seguito ad un ricorso presentato contro la gestione Cassina dal gruppo consiliare comunista alla Commissione Provinciale di controllo, vide la partecipazione dell'impresa di Cassina, dell'ICES di Roma e della LESCA. Esclusa l'ICES, su parere della giunta comunale, perché non in possesso di una solida fidejussione bancaria, fu la LESCA ad aggiudicarsi l'appalto. Soltanto qualche tempo dopo si scoprì che la LESCA era controllata dalla società "Arborea", in mano a Cassina per il 95%, che ne era presidente Pasquale Nisticò, genero del commendatore e che tra i suoi collaboratori più capaci essa annoverava addirittura Luciano Cassina, figlio di Arturo: non cambiarono molte cose, dunque, anche perchè la LESCA continuò a mantenere i subappalti a tutti i capizona mafiosi. Il conte Cassina era stato, nel frattempo, anche presidente della Palermo Calcio e nel 1969 era stato nominato Cavaliere del Lavoro dal presidente della Repubblica Giuseppe Saragat con la seguente motivazione: "Sin dal 1930 si è dedicato al settore dell'edilizia e particolarmente a quello delle costruzioni stradali realizzando opere di grande rilievo in Italia e all'estero. Nel 1946 ha dato vita in Sicilia a numerose iniziative industriali, tra cui una allora particolarmente nuova per la produzione di materie prime per l'edilizia: inerti e conglomerati bituminosi e cementizi. Ha realizzato altresì modernissimi stabilimenti per la produzione dì calce idrata particolarmente ricercata nei mercati mediterranei nazionali ed esteri. Ha realizzato la creazione di un quartiere residenziale autosufficiente, tra i comuni di Palermo e Monreale, completo di infrastrutture e opere di urbanizzazione. A fianco dell'attività edilizia ha dato vita a numerose altre realizzazioni anche in diversi settori, come quello editoriale, nel quale ha realizzato uno dei più efficienti stabilimenti tipografici del Mezzogiorno e in quello armatoriale, dove ha creato una società fornita di navi frigorifero costruite secondo i criteri più aggiornati della tecnica moderna e dotate dei mezzi più progrediti per la pesca oceanica. Nelle sue molteplici attività ha impegnato migliaia di collaboratori e maestranze". Il conte diventerà presto anche azionista di due banche, la Banca Industriale di Trapani e la Banca Popolare di Palermo.

Tracciato questo breve profilo del nobile imprenditore comasco e palermitano di adozione, vediamo allora quali furono le occasioni in cui Contrada ebbe a che fare con il conte Arturo Cassina. Occasioni spesso annotate nelle agende di Contrada (che soleva annotare tutto, non potendo immaginare che questa normalissima abitudine gli sarebbe stata rivoltata contro: del resto, se avesse compiuto qualcosa di illecito, l'avrebbe annotata su un'agenda?). E' lo stesso PM Ingroia che, in requisitoria, rileva: "Esaminando le agende del dottor Contrada, abbiamo rinvenuto dieci annotazioni, tra il 1982 ed il 1985, che fanno riferimento ad incontri o telefonate fra lui ed il conte Cassina. Altre sei annotazioni, fra il 1983 ed il 1988, si riferiscono al factotum di Cassina, Gaetano D'Agostino". Ribadisco il concetto: se avesse commesso qualcosa di losco, Contrada sarebbe stato tanto stupido da annotarlo su un'agenda che poteva cadere nelle mani di chiunque? E, in ogni caso, non avrebbe successivamente distrutto quelle agende?


a. Il sequestro di Luciano Cassina

Nel 1972 la "Commissione" di Cosa Nostra, riformatasi da poco dopo il processo di Catanzaro, vede a capo un triumvirato formato da Gaetano Badalamenti, Stefano Bontade e Luciano Liggio, sostituito pro tempore (in realtà definitivamente) da Totò Riina. Quest'ultimo ha già cominciato a tessere le sue trame per corrodere il prestigio di Bontade e Badalamenti all'interno di Cosa Nostra e scardinare il loro potere. Mentre i due sono temporaneamente in carcere, e lo è anche Liggio, Riina organizza il rapimento di Luciano Cassina, figlio del conte Arturo, che è ritenuto vicino a Bontade, senza darne preventivamente notizia né a Badalamenti nè a Bontade. Luciano Cassina viene rapito a Palermo, in via Principe di Belmonte. L'obiettivo principale di Riina non è solo incassare i soldi del riscatto, ma soprattutto mostrare a Badalamenti e Bontade che si può colpire un loro presunto "protetto" in qualunque momento. Il riscatto viene riscosso da un prete, padre Agostino Coppola, mafioso della famiglia di Partinico. Dopo il rilascio di Luciano Cassina, Bontade e Badalamenti, appresa la notizia, reagiscono in maniera furibonda, ma Luciano Liggio li mette a tacere dicendo che oramai tutto è stato risolto ed è acqua passata.
Bruno Contrada, all'epoca dirigente della Sezione Investigativa della Squadra Mobile di Palermo, indaga sul rapimento ed individua una pista. Il questore di Palermo, Li Donni, che volle un contatto diretto e personale con il padre del sequestrato, chiede esplicitamente a Contrada di accompagnarlo alla villa del conte Cassina, a Poggio Ridente. E' questo il motivo del primo incontro di Contrada con il conte Arturo Cassina.
Nel corso delle indagini, poi, Contrada si imbatterà nel nome di Leonardo Vitale, che, meno di un anno dopo, diventerà il primo "pentito" della storia della mafia.


b. L'incontro al Circolo Ufficiali della Legione Carabinieri di Palermo

Il secondo incontro avviene poco tempo dopo al Circolo Ufficiali della Legione Carabinieri di Palermo, in occasione di un ricevimento. In quell'occasione, è presente anche il colonnello Carlo Alberto Dalla Chiesa, all'epoca comandante della Legione Carabinieri di Palermo.


c. Un altro incontro al Circolo Ufficiali della Legione Carabinieri di Palermo

Il terzo incontro si verifica, intorno al 1976, ancora al Circolo Ufficiali della Legione Carabinieri di Palermo, in occasione di un ricevimento organizzato dal tenente colonnello Giuseppe Russo.


d. L'appartenenza all'Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro

"... Cioè, che il dottore Cassina, il conte Cassina con il dottor Contrada, cioè erano una specie di massoneria, insomma, che erano scritti là in una loggia là a Monreale, non lo so come si chiama, insomma, quelli che fanno ogni anno, insomma, la festa, insomma è una loggia, una specie di consacrazione che c'è a Monreale...".

Così parla (anche se "parlare" è una parola grossa...) Gaspare Mutolo nell'udienza del 7 giugno 1994, infarcendo il suo già claudicante idioma con parole che non riesce neppure a spiegare: allude ad "una specie di massoneria" (fa sempre il suo effetto, come un cameo su un abito da sera), parla di "consacrazione", di "festa" e di altre amenità legate a sfocate immagini di non meglio precisati rituali e ammantate da un etereo alone di vaghezza.
L'unico trait d'union fra Bruno Contrada ed il conte Cassina che gli inquirenti riescono a rintracciare e che possa incastonarsi nell'atmosfera settaria e quasi fiabesca evocata da Mutolo è rappresentato dall'Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro.
Con animo non scevro da curiosità storiche (le uniche prurigini davvero vellicate dall'oscura allocuzione del "pentito"), andiamo a vedere che tipo di terribili segreti e di inenarrabili nefandezze nascondono le quasi millenarie insegne di questo "misterioso" ordine.

L’Ordine Equestre dei Cavalieri del Santo Sepolcro di Gerusalemme fu fondato da Goffredo di Buglione nel 1099, dopo la prima Crociata, nel corso della quale era stata espugnata Gerusalemme e liberato il Santo Sepolcro. In Sicilia l’Ordine trae le sue origini sin dal 1106 con la costituzione del primo Priorato Crociato. Con la bolla di papa Celestino II in data 10 gennaio 1144, i Cavalieri del Santo Sepolcro vennero accolti sotto la protezione della Santa Sede.
Il conte Cassina è sempre stato un fervente religioso, non di rado ha seguito il Papa nei suoi viaggi all'estero ed ha rilanciato in grande stile nella Sicilia Occidentale l'Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro, di cui è stato luogotenente per la Sicilia e Gran Bali; dietro sua insistenza si sono vestiti del mantello bianco con le cinque croci rosse personaggi di spicco a Palermo come il questore Nino Mendolia, il Procuratore Capo della Repubblica Vincenzo Pajno, il Cavaliere del Lavoro Gaetano Averna e molti altri. Dell'Ordine hanno fatto parte anche il commendator Guido Savagnone (successore proprio di Cassina in qualità di luogotenente generale per la Sicilia), l'arcivescovo emerito di Palermo, cardinale Salvatore Pappalardo (in qualità di Gran Priore), il suo successore all'arcivescovado palermitano, il cardinale Salvatore De Giorgi (in qualità di Priore della Sezione di Palermo) e praticamente tutti gli arcivescovi siciliani. Per nessuno di questi, però, l'appartenenza a questa confraternita (invero più pittoresca che altro) ha mai costituito motivo per l'inserimento in un fascicolo giudiziario o causa di ammanettamento. Per Bruno Contrada, invece, che ha sempre dichiarato di non aver mai partecipato neppure ad una riunione e di non essersi iscritto di sua volontà ma di essere stato semplicemente "insignito" da altri di un titolo che è meramente formale e del quale non ha mai tenuto conto, l'appartenenza all'ordine è stata motivo di udienze processuali, escussione di testimoni, accuse farneticanti.
La storia, ricostruita nel processo di primo grado, andò così. Nel gennaio 1982, pochi giorni prima del passaggio di Contrada al SISDE, il maresciallo della Polizia Procopio La Mattina, in servizio presso l'ufficio politico della Questura di Palermo, su iniziativa del conte Cassina, fece avere a Contrada l'onorificenza di Cavaliere del Santo Sepolcro senza che Contrada l'avesse mai richiesta. L'11 novembre 1994 Contrada dichiara in udienza: "Mi fece piacere ricevere l'onorificenza, ma non ho mai desiderato appartenere ad un'associazione. E' per questo che ho sempre rifiutato le offerte fattemi dai Lions o dal Rotary". "Fu il maresciallo La Mattina, mio sottufficiale, che era iscritto all'Ordine insieme alla moglie" dichiara ancora Contrada nell'udienza del 12 novembre 1994 "a iscrivermi, pensando di farmi cosa gradita. Mi offrì l'onorificenza e io accettai di buon grado, ma non partecipai mai ad una riunione nè versai una lira per le opere di beneficenza in Terra Santa". Lorenzo Lo Monaco, dirigente della Corte d'Appello di Palermo e tesoriere dell'Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro, in seguito approdato alla luogotenenza dell'Ordine per la Sicilia, conferma tutto nell'udienza del 18 aprile 1995, dicendo a chiare lettere: "Contrada non ha mai partecipato alle riunioni dell'Ordine. Non ha partecipato neanche alla cerimonia di investitura". Sulla stessa lunghezza d'onda anche un altro membro illustre dell'Ordine, il generale dei Carabinieri Ignazio Milillo, che, nell'udienza del 29 giugno 1995, afferma: "Contrada non ha mai partecipato alle riunioni dell'Ordine nè ha mai pagato le quote associative". Nel settembre 1982 Gaetano D'Agostino e il maresciallo La Mattina consegnano a Contrada la pergamena dell'Ordine, come formalizzazione dell'iscrizione avvenuta nel gennaio precedente: a questo punto, pur continuando a non interessarsi più di tanto alla vita dell'Ordine, Contrada, da gentiluomo, sente il dovere di ringraziare il conte. E ricorda, infatti: "La quarta volta che incontrai il conte Cassina fu tra la fine del 1982 e i primi del 1983 per ringraziarlo dell'onorificenza dell'Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro. Non ricordo con precisione se questo incontro avvenne negli uffici dell'Alto Commissariato per la lotta alla mafia oppure nell'ufficio dello stesso Cassina, in via Principe di Belmonte, a Palermo".
Per
fugare nel lettore eventualmente suggestionabile qualunque dubbio sulla natura "innocente" dell'Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro (niente Massoneria, Beati Paoli, Mano Nera, Compagni di Baal o altro), basta ascoltare le parole dello stesso conte Arturo Cassina, sentito come testimone al processo Contrada nell'udienza del 9 settembre 1994 e che così risponde alle domande del PM Antonino Ingroia:

CASSINA - "Non ricordo se Contrada abbia partecipato in qualche occasione alla Messa mensile o alle altre attività dell'Ordine per la raccolta di soldi da inviare in Terra Santa."

INGROIA - "Tra gli iscritti c'erano vincoli massonici?"

CASSINA - "Per carità!"

INGROIA - "Si traevano vantaggi?"

CASSINA - "Piuttosto dei fastidi..."

INGROIA - "Perchè, allora, ci si iscriveva all'Ordine?"

CASSINA - "Era un'associazione di prestigio. C'erano prefetti, questori. In tanti aspiravano ad avere il distintivo."

INGROIA - "Anche qualche mafioso?"

CASSINA - "Lo escludo."

Ma l'appartenenza all'Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro non costituiva oggetto di sospetti neppure per le forze dell'ordine. Lo dimostra quanto dichiara nell'udienza del 24 gennaio 1995 Antonino Nicchi, vicedirigente dal 1985 della Squadra Mobile di Palermo diretta da Salerno e quindi capo del medesimo ufficio tra il 1986 ed il 1988:

NICCHI - "Nell'àmbito delle indagini sull'omicidio di Giuseppe Insalaco (l'ex-sindaco di Palermo assassinato dalla mafia nel 1988, nda) stilammo un rapporto 'tecnico', quindi affidai la redazione di un secondo rapporto a Montalbano, dirigente della Sezione Investigativa. Nella 'lista dei cattivi' di Insalaco avevamo trovato, tra gli altri, anche i nomi del conte Cassina, di Bruno Contrada, del giudice Pajno, del giudice Carrara e dell'onorevole Aristide Gunnella. Dal rapporto di Montalbano tolsi due cose, nonostante lui non fosse d'accordo: uno, che Contrada apparteneva all'Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro; due, omisi il nome del giudice Carrara, accusato di essere un uomo di Ciancimino solo perchè il suocero era cianciminiano. Circa Contrada, non eravamo per nulla sicuri che appartenesse all'Ordine sopracitato: e poi quest'Ordine non era mica un'organizzazione criminale!"


e. L'incontro di via Thaon de Revel

Il 14 marzo 1983 Contrada annotava sulla sua agenda: "Telefonato Arturo Cassina. Incontro Prefetto. Questione gare sei appalti". Il PM Ingroia chiosa in materia: "Abbiamo individuato questo fatto anche grazie ad un involontario scivolone di un testimone della difesa, Paolo Splendore, funzionario della Prefettura. E' stato lui ad indicarci, durante la sua deposizione, alcune telefonate e incontri fra Cassina, il suo factotum D'Agostino e Contrada, aventi ad oggetto l'affitto di alcuni locali di proprietà di Cassina da parte della Prefettura di Palermo". I locali in questione si trovavano in via Thaon de Revel, una traversa di via Ammiraglio Rizzo, a Palermo, poco distante dalla sede della Fiera del Mediterraneo. Secondo l'accusa, Contrada, allora capo di gabinetto dell'Alto Commissario Antimafia, che era anche il Prefetto di Palermo, ossia Emanuele De Francesco, si sarebbe interessato alla trattativa, pur non avendone titolo. Lo dimostrerebbero, oltre alle agende di Contrada e alle parole di Splendore, anche alcune documentazioni conservate negli archivi della Prefettura, relative al sopralluogo, alla scelta effettuata da una commissione prefettizia ed alla richiesta della società editrice "Telestar" (titolare dell'omonima emittente televisiva locale sita in uno degli immobili oggetto della vicenda): le date indicate negli atti amministrativi coincidono con quelle delle annotazioni sull'agenda di Contrada. "Segno che Contrada si interessò alla vicenda" declama il PM Ingroia, salvo, poi, aggiungere: "Non vogliamo dimostrare che si trattò di un interessamento illecito. Ciò che interessa è che Contrada e Cassina abbiano negato che ci fu, anche in questo caso, qualsiasi rapporto fra loro".
Cosa dire? Non è reato interessarsi di una trattativa immobiliare. Era, tra l'altro, abbastanza ovvio che il prefetto De Francesco potesse delegare la faccenda ad un funzionario come Contrada, in cui riponeva la massima fiducia e del cui criterio di giudizio si fidava in ogni occasione. Il problema, secondo Ingroia, è che Contrada e Cassina negano che ci fu qualsiasi rapporto fra loro.
Questo non è del tutto esatto. Ecco, infatti, cosa dice lo stesso Bruno Contrada in proposito: "In tutti gli anni in cui ho prestato servizio a Palermo, cioè dal 1962 al 1985, io ho incontrato Arturo Cassina non più di tre o quattro volte". Contrada, dunque, ammette di aver conosciuto ed incontrato il conte: è lui stesso che ricorda l'indagine sul rapimento di Luciano Cassina, i ricevimenti alla Legione dei Carabinieri e la vicenda dei Cavalieri del Santo Sepolcro. Quello che non poteva ammettere (in quanto non rispondente a verità) era che in questi incontri fosse accaduto qualcosa di losco o, peggio ancora, che il conte lo avesse messo in contatto con Stefano Bontade.


2.7. I rapporti tra Contrada ed il commissario Pietro Purpi

Bruno Contrada, nell'udienza del 13 ottobre 1994, dichiara: "Ho conosciuto Pietro Purpi nel novembre del 1962, quando fui trasferito da Latina a Palermo. Purpi dirigeva la Sezione Antirapine della Squadra Mobile di Palermo. Nel 1971 è andato a dirigere il Commissariato del Primo Distretto, nel 1977 è passato a dirigere il Commissariato del Secondo Distretto. L'ho conosciuto certamente, anche se non abbiamo mai compiuto indagini insieme. Non mi risulta che si sia mai occupato di mafia. Non mi ha mai parlato di Stefano Bontade nè di vicende legate alla mafia. Mi chiedo piuttosto perchè non sia mai stata contestata a Purpi l'accusa di essere amico di Bontade".
Pietro Purpi, già gravemente malato all'epoca delle dichiarazioni di Gaspare Mutolo, è morto a Roma il 28 marzo 1995 e ormai da lui non si potranno avere più chiarimenti.





3. SFIDA AL LETTORE

Due pentiti, Salvatore Cancemi e Gaspare Mutolo, arrestati da Contrada in passato, dunque plausibilmente desiderosi di vendicarsi del poliziotto; un terzo, Francesco Marino Mannoia, che nel 1993 aveva dichiarato di non sapere nulla di Contrada e nel gennaio 1994, improvvisamente, "si ricorda" del dottor Bruno Contrada e conferma le accuse di Mutolo; un quarto pentito, Gioacchino Pennino, il "medico della mafia", che, pur rivelatosi importante per altri processi, in questo processo non è mai riuscito ad andare al di là di una vaghezza assolutamente disarmante.
Costoro sostengono che Contrada fosse amico di quello stesso Stefano Bontade che, invece, come risulta da testimonianze di poliziotti e carabinieri e da rapporti di denuncia, fu sempre tenacemente perseguito da Contrada sia quando era alla Squadra Mobile sia quando dirigeva la Criminalpol palermitana. Valga per tutti la testimonianza di Tonino De Luca nell'udienza del 28 ottobre 1994:

DE LUCA - "Non mi risultano rapporti tra Contrada e Stefano Bontade. Contrada e io lo ritenevamo un mafioso di primissimo grado. Contrada non ha mai ostacolato alcuna indagine contro Bontade nè contro altri. Contrada non ha mai fatto nulla per far avere patente o porto d'armi a Bontade e a nessun altro."

Ed è vero. Contrada fu il primo, nel 1963, ad accusare Bontade di essere un mafioso, e questo viene confermato da tutti i suoi colleghi del tempo, mentre i suoi colleghi di epoche successive hanno confermato di non aver mai notato cedimenti nell'azione di Contrada contro Bontade nemmeno in seguito. Non solo, ma da una considerevole mole di atti e documenti prodotti dalla difesa, risulta che proprio negli anni '70 (periodo in cui è ambientata la telenovela dei documenti di Bontade) la Polizia palermitana profuse un enorme impegno al fine di tenere il più possibile sotto controllo Stefano Bontade: a tal fine non mancarono, anzi furono determinanti, l'impulso e la supervisione di Bruno Contrada, che all'epoca era già passato a dirigere la Criminalpol della Sicilia Occidentale, ma lavorava a strettissimo contatto con il suo successore alla guida della Squadra Mobile, Boris Giuliano, e con il questore Giovanni Epifanio. Tutti i funzionari di polizia in servizio a Palermo in quel periodo hanno confermato che non ci furono mai cedimenti nell'azione di persecuzione nei confronti di Stefano Bontade.

A chi dobbiamo, dunque, credere? A dei pentiti che mettono in bocca delle parole a dei morti o a poliziotti che rischiavano la loro vita per la nostra tranquillità in un periodo in cui, se andavi in giro per le strade di Palermo a parlare di mafia, molta gente fuggiva di corsa oppure ti guardava come una sorta di folle e ti rispondeva: "la mafia? La mafia non esiste!". A dire il vero, c'era una terza possibilità. I più còlti ed informati rispondevano: "la vera mafia non è qui: è a Roma".
Il commissario Pietro Purpi, presunto amico di Stefano Bontade e presunto tramite tra quest'ultimo e Contrada, è morto nel marzo del 1995, proprio poco dopo essere stato tirato in ballo dai pentiti. Non potrà più smentire non solo il fango che, usando il suo nome, è stato gettato in faccia a Contrada, ma neppure quello che è arrivato proditoriamente in faccia a lui. Ma un'altra domanda è d'obbligo, e la pone ai giudici, senza peraltro ricevere risposta, lo stesso Bruno Contrada, in sede di dichiarazioni spontanee dell'imputato durante l'udienza
dell'1 giugno 1995 nell'aula-bunker del carcere di Rebibbia, a Roma: "perchè i magistrati inquirenti non hanno ascoltato Purpi come teste al mio processo prima che morisse? Forse perchè poteva smentire Mutolo, Mannoia e Pennino e dire qualcosa a mio favore...".
E' stato trovato il nome di colui che si interessò realmente per far avere la patente a Stefano Bontade, ossia l'ex-deputato regionale Gioacchino Ventimiglia. E' acclarato (in questo caso come nel caso della famosa perquisizione a casa Bontade del 20 febbraio 1978) che, quando Bontade aveva necessità per qualcosa, non si rivolgeva al dottor Bruno Contrada o ai suoi colleghi ma ad altri (nel caso della patente all'onorevole Ventimiglia, nel caso della perquisizione al maggiore dei Carabinieri Enrico Frasca): se avesse avuto Contrada a disposizione, come sostengono i "pentiti", non si sarebbe rivolto direttamente a lui? I due prefetti del tempo, che si succedettero nel corso dell'iter della pratica relativa al rilascio della patente al "principe di Villagrazia", Grasso e Di Giovanni (quest'ultimo colui che firmò il rilascio), hanno dichiarato di non aver mai ricevuto raccomandazioni o pressioni da parte di Contrada. L'accusa di Cancemi, che certamente non lavorava in Prefettura, viene automaticamente a cadere. Il PM Ingroia, però, anzichè registrare questo insuccesso, parte da vicende come questa per poter partorire un assioma che non voglio neanche definire perchè si commenta da sè: in poche parole, Ingroia ha sostenuto, in requisitoria, che è chiaro (anzi, quasi quasi lui ne era certo) che non si sia trovato nulla in casi come la patente di Bontade o altro, perchè Contrada è stato talmente furbo, astuto e diabolico da agire nell'ombra più totale senza lasciare tracce e magari facendo "sporcare" altri. Il callido Odisseo al confronto era un ingenuo. Certo, così è molto semplice: se troviamo le prove che incastrano l'imputato, bene, se non le troviamo o, meglio ancora, troviamo delle prove certe che lo scagionano completamente e indicano altri nomi, allora vuol dire che l'imputato è una sorta di Belfagor che ha agito talmente bene in modo tale da fregare tutti. Inoltre, come mai nessuno ha pensato di contestare a Ventimiglia, Grasso e Di Giovanni, i cui nomi appaiono ufficialmente nella vicenda, quanto da loro fatto e di condannarli per ciò? Forse per la prescrizione? Per la stessa vicenda, Contrada, che invece non c'entrava nulla, è stato condannato...

Patenti, porti d'armi, passaporti per questo e per quello. Evidentemente Bruno Contrada, in una Palermo sconvolta dai delitti "eccellenti" oltrechè dal tradizionale tasso di delinquenza e malaffare, aveva così poco da fare che poteva dedicare tanto tempo ad incombenze burocratiche. Oddio, per essere precisi, un favore in fatto di passaporti Contrada lo fece, effettivamente. Lo ha ricordato Lillo Adamo, titolare della concessionaria Alfa Romeo Sicilauto di Palermo, nell'udienza del 25 ottobre 1994: "Una volta stavo prendendo l'aereo, dal passaporto mancava una marca da bollo e mi rivolsi a Contrada per farmi aiutare a sistemare velocemente la cosa". Ce n'è abbastanza per comminare un ergastolo...


SALVO GIORGIO

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