Friday, May 25, 2007

L'ENCOMIO DI FALCONE A CONTRADA



Giovanni Falcone si espresse in favore di Contrada scrivendo al Questore di Palermo:

“Mi è gradito esternarLe i miei più vivi ringraziamenti per la intelligente e fattiva collaborazione della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo nelle indagini istruttorie relative al procedimento penale contro Rosario Spatola
(poi pentitosi e trasformatosi in uno dei primi accusatori di Contrada, nda) ed altri, imputati di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti e di altri gravi delitti. Mi consenta di segnalare, in particolare, il dottor Bruno Contrada, dirigente della Criminalpol Sicilia, il dottor Ignazio D’Antone, dirigente della Squadra Mobile di Palermo, il vicequestore dottor Vittorio Vasquez… I quali, pur in mancanza di strutture adeguate rispetto alla gravità ed alle dimensioni del fenomeno mafioso, hanno portato allo scrivente continua e incisiva assistenza, rivelando, altresì, nel compimento di indagini delicate, ottime doti di capacità professionali”.

Sono forse queste le parole di una persona che diffida? Sono le parole che una persona rivolge ad un'altra dalla cui stretta di mano sentirà lo strano bisogno di pulirsi sui pantaloni? Ricordiamo che, come nel caso dell'encomio rivolto a Bruno Contrada dal giudice Ferdinando Imposimato, l'encomio medesimo non è un atto dovuto ma assolutamente discrezionale. Se lo si vuol fare lo si fa, altrimenti niente. Non ti costringe nessuno.
Falcone, come Imposimato, lo ha fatto e non è stato certamente costretto. E, naturalmente, un uomo come Giovanni Falcone, che non si è mai spaventato di fronte a niente e non si è mai arreso fino alla morte, non aveva certo quel tipo di carattere o di mentalità che indulge verso formalismi, convenzioni o, peggio, ipocrisie. Nè verso alcuna forma di piaggeria. Chiunque osasse crederlo commetterebbe un vero e proprio sacrilegio nei confronti di un magistrato e di un uomo eccezionale.
L'encomio di Giovanni Falcone a Bruno Contrada è agli atti del processo. La carta scritta sta lì, implacabile, a smentire i sospetti meramente verbali di quanti hanno favoleggiato di una diffidenza del magistrato verso il poliziotto. Anche il proscioglimento in istruttoria di Bruno Contrada dopo le prime, improbabili accuse di Tommaso Buscetta (sentenza-ordinanza del 7 marzo 1985, di cui parliamo in altre parti di questo libro), proscioglimento decretato dall'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo presieduto da Antonino Caponnetto e con la presenza di Giovanni Falcone tra le sue fila, crea una "convergenza del molteplice" virtuosa non fra dichiarazioni vaghe e mendaci di criminali rei confessi ma fra atti di magistrati che sono stati sempre al di sopra di ogni sospetto. Se Falcone avesse davvero diffidato di Contrada, e, soprattutto, se fosse stato di diversa pasta come giudice, non si sarebbe fatto sfuggire l'occasione di ricevere la testa di Contrada su un piatto d'argento tramite le dichiarazioni di Buscetta. Un Buscetta col quale Falcone intessè un rapporto professionale che portò ad altre conferme e ad altri successi giudiziari, come narra la storia. Un Buscetta che, però, non per questo Falcone considerava un novello oracolo di Delfi col crisma dell'infallibilità, sapendo discernere e passare al setaccio quanto la "gola profonda" più famosa della storia di Cosa Nostra diceva o sussurrava all'orecchio di uno Stato che cominciava a conoscere il "pentitismo". Ma ancora non conosceva il "pentitificio".

SALVO GIORGIO