Friday, May 25, 2007

IL CASO SINDONA




1. Breve storia di Michele Sindona, l' "avvocaticchio di Patti"


1.1. L'ascesa



Michele Sindona nasce a Patti, in provincia di Messina, l'11 maggio 1920.
La storia vuole che questo giovane e brillante avvocato, conosciuto agli inizi della sua carriera come l' "avvocaticchio di Patti", cominci la sua attività nel mondo del lavoro come autotrasportatore e venga raccomandato agli Alleati sbarcati in Sicilia nel 1943 addirittura dal boss Lucky Luciano. Sindona comincia ad intrattenere rapporti con l'AMGOT (il governo militare alleato). Compra grano dal capomafia Baldassarre Tinebra, che era stato nominato dagli americani sindaco di Regalbuto ed era socio del boss Calogero Vizzini, e lo rivende al governo militare alleato facendosi pagare non in denaro ma direttamente in armi. Le armi venivano rivendute poi da Sindona all'EVIS (l'esercito di Salvatore Giuliano). Nello stesso periodo, Sindona intrattiene rapporti anche con i servizi segreti inglesi nella persona di John McCaffery.
Nel 1946 Sindona si trasferisce a Milano. Nel 1952 si reca per la prima volta negli Stati Uniti, dove consolida le sue conoscenze all'interno di Cosa Nostra e allaccia rapporti anche con il mondo finanziario e con i servizi segreti d'oltreoceano. Tornato in Italia, Sindona comincia ad operare come incaricato d'affari di società statunitensi e, proprio in questa veste, entra in rapporti con Franco Marinotti, un ex-collaboratore di John McCaffery e in quel momento padrone della SNIA Viscosa: Sindona vende agli americani i brevetti di questa società per la fabbricazione di fibre. Attraverso Marinotti, Sindona entra in contatto con Ernesto Moizzi, titolare della Banca Privata Finanziaria, un piccolo istituto di credito con cui opera in Borsa proprio per conto della
SNIA Viscosa. Ben presto Sindona assumerà il totale controllo della Banca Privata Finanziaria. Moizzi possiede anche le Fonderie Vanzetti, piccola società di cui vuole liberarsi: Sindona gli trova sùbito un compratore pronto a pagare il triplo del valore dell'azienda, ossia Dan Porco, boss mafioso e rappresentante della Crucible Steel Of America (che fa parte del gruppo Colt Industries, ossia la grande multinazionale produttrice di armi).
Dopo circa dieci anni dalla sua partenza dalla Sicilia, Sindona è in grado di amministrare un patrimonio stimato intorno ai 300 miliardi di lire. Siamo nel 1956. In quell'anno, il boss statunitense Joe Adonis si reca a Milano, sotto le mentite spoglie di inviato di società americane incaricato di investire nel settore dei supermercati e degli impianti alberghieri, per coordinare l'insieme delle attività mafiose in tutta l'Europa centro-occidentale, in particolare il traffico di stupefacenti in Germania ed in Olanda. Sindona fa la conoscenza di Adonis e ne diviene una sorta di consulente fiscale, ricevendone anche l'incarico di svolgere alcune missioni di fiducia negli Stati Uniti. Pare che proprio l'amicizia con Adonis garantì a Sindona la possibilità di partecipare al famoso summit di Palermo
del 12 ottobre 1957, durante il quale gli emissari della Cosa Nostra statunitense, d'accordo con i loro referenti siciliani, decisero di dedicarsi al traffico degli stupefacenti e decretarono la condanna a morte di Albert Anastasia. Nel 1959, sempre su incarico di Adonis, Sindona torna negli Stati Uniti per sistemare la situazione contabile e fiscale delle società legate al boss Vito Genovese.
Di lì a poco, un'altra svolta epocale nella carriera dell' "avvocaticchio". Sindona entra, infatti, a far parte della loggia massonica P2 di Licio Gelli e qui conosce John McCone, repubblicano, direttore della CIA e fervente cattolico in rapporto con alti prelati. Grazie a questo tramite, nel 1962 Sindona viene incaricato dal Vaticano di curare gli affari della Chiesa negli Stati Uniti. Lo IOR (l'Istituto per le Opere di Religione, praticamente la Banca di Città del Vaticano), presieduto dall'arcivescovo Paul Marcinkus, entra con una partecipazione del 24,5% nella Banca Privata Finanziaria di Sindona: gli altri soci di minoranza sono
la britannica Hambròs Bank (il cui presidente è Jocelyn Hambro, un vecchio collaboratore di John McCaffery e di Franco Marinotti durante la Seconda Guerra Mondiale nonchè amico di Edgardo Sogno) e la statunitense Continental Illinois Bank (la banca di cui è presidente David Kennedy e che è la nona degli Stati Uniti per attività di bilancio nonchè una delle banche più utilizzate dalla CIA per le sue operazioni: David Kennedy, tra l'altro, è amico e concittadino di Marcinkus e di Dan Porco, ed è socio di Sindona anche nella Fasco A.G., la società con sede in Liechtenstein tramite la quale Sindona controlla il suo ormai vasto impero finanziario).
Nel 1970 la Banca Rasini di Milano (procuratore Luigi Berlusconi) assume una quota di capitale di una società finanziaria di Nassau, nella Bahamas, la Brittener Anstalt, che ha rapporti nell'isola con la Cisalpina Overseas Nassau Bank. Qui troviamo nel consiglio di amministrazione i nomi di Roberto Calvi, Michele Sindona, Licio Gelli e Paul Marcinkus. La Banca Rasini (che era stata fondata dal marito della nipote prediletta del boss Tommaso Buscetta) viene assorbita da un'altra banca.
Nel 1972 Sindona entra in possesso del pacchetto azionario di controllo della
Franklin National Bank di New York, una delle prime venti banche statunitensi.
Nel 1973 John Volpe, ambasciatore statunitense a Roma, in considerazione della notevole rilevanza economica acquisita negli Stati Uniti dalle numerose società collegate a Sindona, insignisce l' "avvocaticchio" del premio "Uomo dell'anno". L'anno dopo Sindona è sulla copertina di Successo del mese di marzo.
Ma proprio il 1974 segna l'inizio della fine.


1.2. Il declino



Il 10 maggio 1974, infatti, la
Franklin National Bank entra in crisi e nel mese di ottobre fallisce: il suo crack viene definito "il più grande fallimento nella storia del sistema bancario americano". Il 5 settembre, intanto, la Banca d'Italia presenta alla magistratura milanese un esposto in cui segnala un ammanco nella Banca Privata Italiana di circa 200 miliardi. L'indagine viene affidata al giudice istruttore Urbisci e al sostituto procuratore della Repubblica Caizzi. Il 28 settembre gli sportelli della Banca Privata Italiana vengono chiusi: l'avvocato Giorgio Ambrosoli viene nominato commissario liquidatore dell'istituto di credito.
Il ministro del Tesoro Ugo La Malfa rifiuta di concedere l'aumento del capitale della Finambro, società finanziaria del Gruppo Sindona. Il 9 ottobre, Michele Sindona viene raggiunto da un mandato di cattura per falso in scritture contabili ed illegali ripartizioni degli utili. Il comunicato diramato dall'ANSA alle 12,10 di quel 9 ottobre dà notizia che Sindona si trova a Ginevra. Il banchiere fugge negli Stati Uniti.
Il 16 ottobre 1974, alle ore 00,45, un comunicato dell'ANSA informa dell'apertura di un'inchiesta da parte della Procura della Repubblica di Milano su presunti finanziamenti a partiti politici da parte di Michele Sindona.
L'impero vacilla. Dopo un periodo interlocutorio, l'8 settembre 1976 Sindona viene arrestato a New York ma sùbito scarcerato dietro pagamento di una cauzione pari a mezzo miliardo di lire. L'anno seguente cominciano a circolare indiscrezioni sul cosiddetto "tabulato dei 500": cinquecento nomi di persone (che non si conosceranno mai) che, attraverso una banca di Sindona, hanno esportato all'estero valuta per 37 milioni di dollari.
Mentre pare che la Loggia P2 cominci a rivolgere le sue attenzioni ad un progetto vòlto a creare una concentrazione editoriale (sia per quanto riguarda la televisione che la carta stampata) e addirittura ad un processo secessionista della Sicilia (nasce, infatti, il partito-ombra di stampo indipendentista denominato L'Altra Sicilia), Michele Sindona rimane al sicuro negli Stati Uniti.
In seguito al mandato di cattura per falso contabile di cui abbiamo parlato prima, però, il 26 gennaio 1979 l'Italia chiede al governo di Washington l'estradizione di Sindona per poterlo processare. All'improvviso, una decina di persone invia ad alcuni magistrati statunitensi degli affidavit (ossia delle dichiarazioni giurate) nei quali viene apertamente affermato che Michele Sindona sarebbe perseguitato dai magistrati italiani soltanto per la sua comprovata fede politica anticomunista. Tra i firmatari di queste dichiarazioni giurate (come riportato in Storia d'Italia, Cronologia, De Agostini, 1991, pagina 704) compaiono i nomi di Carmelo Spagnuolo (presidente di sezione della Corte di Cassazione, che per questo motivo viene rimosso su iniziativa del CSM), di Edgardo Sogno e di Flavio Orlandi. Ma, in particolare, uno degli affidavit reca la firma di un ancora sconosciuto Licio Gelli, che scrive testualmente: "Nella mia qualità di uomo d'affari sono conosciuto come anticomunista e sono al corrente degli attacchi dei comunisti contro Michele Sindona. Per loro lui è un bersaglio e viene costantemente attaccato dalla stampa comunista. L'odio dei comunisti per Michele Sindona trova la sua origine nel fatto che egli è anticomunista e nel fatto che egli ha sempre appoggiato la libera impresa in un'Italia democratica".
Per salvare le sue banche Sindona tenta di trattare, non escludendo il ricorso a minacce, anche con il presidente di Mediobanca Enrico Cuccia, il quale, però, si oppone al piano di risanamento presentato dal banchiere di Patti.
Il 29 gennaio 1979 un commando del gruppo eversivo Prima Linea uccide il sostituto procuratore della Repubblica di Milano Emilio Alessandrini, che sta indagando sulla "pista nera" per la strage di Piazza Fontana e sul Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Del commando fa parte anche Marco Donat Cattin, figlio del noto esponente politico della DC.
La posizione di Sindona comincia a farsi meno stabile anche in territorio statunitense. Il 19 marzo 1979, infatti, un Gran Giurì federale lo incrimina per il fallimento della Franklin National Bank. Le accuse sono due: Sindona viene accusato formalmente di aver acquistato la Franklin nel 1972 con fondi illegittimi tolti da istituti bancari da lui controllati in Italia, e, inoltre, insieme al suo ex-collaboratore Carlo Bordoni, genero di Licio Gelli, viene accusato anche di aver distratto 45 milioni di dollari appartenenti alla Franklin per speculazioni sui cambi che costarono alla Banca una perdita di 30 milioni di dollari. Il 10 settembre Sindona dovrà comparire davanti ai giudici statunitensi.
Michele Sindona, fino a quel momento considerato uno dei più brillanti uomini d'affari del mondo, colui che, attraverso il controllo di un enorme numero di banche e di società finanziarie, era arrivato a controllare la metà dei titoli quotati in Borsa a Piazza Affari, è con l'acqua alla gola.
La notte dell'11 luglio 1979 l'avvocato Ambrosoli, il liquidatore della Banca Privata Italiana di Sindona, viene ucciso a Milano da William Arico con tre colpi di 357 magnum al petto: il killer, dopo il suo arresto, confesserà di essere stato assoldato dallo stesso Michele Sindona. Sul delitto, intanto, indagano il giudice istruttore milanese Giuliano Turone e il sostituto procuratore della Repubblica di Milano Gherardo Colombo. Due giovani magistrati di grande capacità e già di notevole esperienza. Giuliano Turone, infatti, era stato colui che era entrato di persona nella prigione di uno dei primi sequestrati italiani, l'imprenditore Luigi Rossi di Montelera, nonchè colui che, nel 1974, aveva fatto arrestare il responsabile, un siciliano che abitava a Milano, al numero 84 di via Ripamonti, e che rispondeva al nome di Luciano Liggio. Turone e Colombo sono anche i due magistrati che, come vedremo fra poco, il 17 marzo 1981 ordineranno la perquisizione nella villa di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi, scatenando definitivamente il caso della loggia massonica P2.


1.3. Il falso rapimento di Sindona



Gli eventi incalzano. Il 2 agosto 1979, poco più di un mese prima del processo americano, Sindona sparisce improvvisamente da New York per sfuggire all'arresto. Si parla di una sua fuga in Sicilia per sfuggire alle autorità statunitensi, ma all'apparenza Sindona sembra vittima di un sequestro. L'ANSA, con il comunicato delle 18,46 del 3 agosto 1979, rende noto che "Michele Sindona sarebbe stato rapito. La notizia è stata data questa sera a Roma dai legali del banchiere". Salta fuori addirittura un'improbabile rivendicazione da parte di un sedicente Gruppo Proletario di Eversione per una Giustizia Migliore.

Il consigliere istruttore di Milano, Antonio Amati apre un'istruttoria su questo presunto rapimento e ne assegna il relativo fascicolo agli stessi Turone e Colombo
, che, come abbiamo detto, stanno già indagando sul delitto Ambrosoli. Solo in seguito si scoprirà che il sequestro di Sindona è in realtà una montatura organizzata dalla mafia e dalla massoneria. Pare, infatti, che Sindona, pochi giorni dopo il falso rapimento, e precisamente intorno a ferragosto, si trovi già in Sicilia. Dapprima a Palermo, ospite di Joseph Miceli Crimi, un medico italo-americano massone ed esperto di riti esoterici e di chirurgia plastica; quindi a Caltanissetta, ospite del massone Gaetano Piazza, che pare sia stato presentato a Miceli Crimi dall'avvocato Salvatore Bellassai, capo della loggia massonica P2 per la Sicilia. Sindona viene ospitato, non tenuto in ostaggio: il suo sequestro è soltanto una messinscena.
Durante la quale, però, il 9 ottobre 1979, a Roma, viene arrestato il mafioso Vincenzo Spatola, fratello del boss Rosario e coinvolto nel finto sequestro di Sindona: Vincenzo Spatola si accingeva a consegnare una lettera all'avvocato di Sindona, Rodolfo Guzzi, già destinatario di numerose minacce. E' in questo momento che entra in gioco Bruno Contrada. La Squadra Mobile di Palermo, da lui in quel momento diretta "ad interim" dopo l'assassinio di Boris Giuliano (mentre Contrada rivestiva contestualmente anche la carica di capo della Criminalpol della Sicilia Occidentale), viene infatti allertata dalla Squadra Mobile di Roma, diretta da Fernando Masone, per ottenere informazioni su Vincenzo Spatola. Il 12 ottobre, il boss italo-americano John Gambino, cugino di Rosario e Vincenzo Spatola, e coinvolto anch'egli nel falso rapimento di Sindona, viene intercettato al Motel Agip di Palermo da un maresciallo della Squadra Mobile, e, con la supervisione di Bruno Contrada, viene fermato e condotto in Questura. Verrà rilasciato in un modo che i giudici del processo Contrada riterranno sospetto, ma, come vedremo nel capitolo successivo, approfondendo la vicenda, Contrada non potè far altro che rilasciare Gambino perchè in quel momento non c'erano elementi sufficienti per trattenerlo.
Il 16 ottobre
1979 l'ANSA comunica che "il finanziere Michele Sindona, scomparso ai primi di agosto in un presunto rapimento, si trova ricoverato al Doctors Hospital di New York per una ferita alla coscia sinistra da colpo di arma da fuoco. Lo ha riferito l'FBI, che non ha voluto aggiungere altri particolari". Verrà fuori, in seguito, che fu il dottor Joseph Miceli Crimi a sparare a Sindona, con perizia clinica, per cercare di rendere credibile la tesi del rapimento.
I giudici Turone e Colombo sequestreranno ben presto alcune carte di Miceli Crimi e, tra queste, troveranno un biglietto ferroviario Palermo-Arezzo, usato dal medico proprio in quella turbolenta estate del 1979. Miceli Crimi sostiene dapprima di essersi recato ad Arezzo per andare dal dentista presso cui era in cura, ma, messo alle strette da Turone e Colombo, ammette di essere andato a trovare ad Arezzo "un certo Licio Gelli per discutere con lui la situazione di Sindona".
I due magistrati milanesi tirano le fila. Pare che tutti i personaggi che ruotano intorno a Sindona e si dànno da fare per salvarlo finiscano tutti per ricondurre a questo misterioso Licio Gelli: l'avvocato Rodolfo Guzzi, legale del banchiere; il genero Pier Sandro Magnoni; Philip Guarino e Paul Rao, due massoni italo-americani che hanno incontrato Gelli poche ore dopo essere stati ricevuti da Giulio Andreotti. Troppo per poter costituire una semplice coincidenza. Ecco perchè il 17 marzo 1981 Turone e Colombo decidono di effettuare una perquisizione presso la villa di Gelli a Castiglion Fibocchi. Sarà, come vedremo in seguito, l'inizio dello scandalo della P2.


1.4. La caduta



Intanto, con la ricomparsa di Sindona, il processo a suo carico negli Stati Uniti non può più essere evitato. Il 13 giugno 1980 il banchiere viene condannato a 25 anni di reclusione e 207 mila dollari di multa per il crack della Franklin National Bank. La giuria lo riconosce colpevole di 65 capi d'accusa sui 66 complessivi, che prevedevano, tra l'altro, associazione per delinquere, frode, falsa testimonianza ed uso fraudolento dei mezzi di comunicazione federali.
Il 12 febbraio 1981 la situazione critica di Michele Sindona si riverbera anche sulla Banca d'Italia. Facciamo ancora una volta appello all'ANSA per la cronaca della vicenda: "Roma - L'ex-governatore della Banca d'Italia Guido Carli avrebbe ammesso la sua partecipazione ad una riunione del 24 luglio 1974 presso la sede della Banca d'Italia con i dirigenti del Banco di Roma Ventriglia e Puddu per discutere l'opportunità di autorizzare la Banca Privata Italiana di Sindona, all'epoca stretta da un 'cordone sanitario' che le vietava qualsiasi operazione, a versare cinque milioni di dollari allo IOR. L'ammissione sarebbe stata fatta davanti alla commissione parlamentare d'inchiesta sulla vicenda Sindona, nel corso di un confronto con Puddu e Ventriglia" (comunicato ANSA del 12 febbraio 1981, ore 18,03). Ma Guido Carli contraddice Puddu sul fatto che, in quella riunione, si sia parlato dei nomi del già citato "tabulato dei 500".
Il 24 febbraio 1981 il segretario della DC Flaminio Piccoli, nel corso della trasmissione televisiva Tribuna Politica, definisce "una menzogna totale" la voce secondo la quale la DC avrebbe ricevuto da Michele Sindona un finanziamento di undici miliardi. Ancora l'ANSA ricorda, nel comunicato stampa delle ore 17,19 di quel 24 febbraio 1981, che "l'onorevole Piccoli ha detto che ili suo partito ha avuto due miliardi nel periodo del referendum sul divorzio e poi, per otto o nove mesi, una cifra tra i dieci e i quindici milioni al mese".
Il 20 maggio 1981 il presidente del Banco Ambrosiano Roberto Calvi viene arrestato per ordine della magistratura milanese. Nel mese di marzo, come abbiamo anticipato e come vedremo meglio fra breve, era saltato fuori anche il nome di Licio Gelli.
Calvi e Gelli. Due nomi legati a Michele Sindona. Due nomi che meritano, purtroppo non per ragioni liete, un inciso approfondito. Ne parliamo a parte nei due prossimi paragrafi, prima di tornare ad occuparci specificamente dell' "avvocaticchio di Patti".



1.5. Roberto Calvi



La sua carriera inizia nel 1947, quando entra al Banco Ambrosiano, una banca privata strettamente legata allo IOR, come semplice impiegato.
Nel 1968 conosce Michele Sindona e diviene suo socio in affari. Nel 1971 viene nominato direttore generale del Banco Ambrosiano. Passano quattro anni e, nel 1975, Sindona, dopo averlo presentato a Gelli, fa entrare Calvi nella Loggia P2 col numero di tessera 1624. In quello stesso 1975 Roberto Calvi scala il gradino più alto dell'istituto bancario dove aveva fatto il suo ingresso da impiegato e diventa presidente del Banco Ambrosiano.
La storia parla di un Calvi assolutamente spregiudicato, come il suo mentore Sindona: oltre ad appoggiare diverse iniziative benefiche della Chiesa (cosa che gli frutterà il soprannome di "banchiere di Dio"), Calvi procederà alla creazione di una fitta rete di società nei cosiddetti "paradisi fiscali" con la collaborazione dello IOR (tra queste la già citata
Cisalpina Overseas Nassau Bank alle Bahamas) e alla costituzione di società fantasma (in particolare a Panama) per aumentare gli introiti del Banco Ambrosiano e per far perdere le tracce delle sue transazioni con lo IOR, arrivando anche ad elargire finanziamenti ad alcune dittature del Sudamerica (anche se, nei primissimi anni '80, mercè il suo rapporto privilegiato con il Vaticano, Calvi finanzierà anche Solidarnosc, il sindacato polacco guidato da Lech Walesa che rappresenterà, dopo la rivolta ungherese guidata da Nagy nel 1956 e la "primavera di Praga" di Dubcek e Havel nel 1969, un nuovo, durissimo colpo, forse quello definitivo, inferto allo strapotere sovietico nell'Europa dell'Est). Tra finanziamenti ad iniziative religiose, sostegno economico allo IOR e operazioni meno chiare che di religioso hanno ben poco (per le sue strettissime relazioni con lo IOR e con il Vaticano, Heribert Blondiau lo definisce "il perno della politica internazionale della Santa Sede"), il potere di Roberto Calvi sembra comunque crescere ogni giorno di più. Proprio per consolidare questo potere, Calvi tentò, come fu detto, di diventare "l'unico padrone di se stesso": spese, infatti, ingenti cifre per acquistare personalmente la maggior parte delle azioni del Banco Ambrosiano che presiedeva e che era ormai diventato la più forte banca privata italiana.
Ma all'alba del 13 novembre 1977 Milano si risveglia tappezzata di manifesti in cui si denunciano presunte irregolarità del Banco Ambrosiano. E' la vendetta di Michele Sindona, che si era visto negare da Calvi i soldi necessari per tappare i buchi delle sue banche, ma non rimane un gesto isolato. Pochi mesi dopo, il 17 aprile 1978, prende avvio un'ispezione all'Ambrosiano da parte della Banca d'Italia e parte anche una segnalazione alla Procura della Repubblica di Milano. L'indagine giudiziaria subisce, purtroppo, un'atroce battuta d'arresto: il 29 gennaio 1979 il giudice Emilio Alessandrini, che si occupa della cosa, viene assassinato, come abbiamo visto, da Prima Linea.
Il 24 marzo dello stesso anno
il governatore della Banca d'Italia Paolo Baffi e il direttore generale Mario Sarcinelli, artefici dell'ispezione all'Ambrosiano, vengono accusati di alcune irregolarità dai magistrati romani Luciano Infelisi e Antonio Alibrandi e arrestati. Per Baffi, vista l'età più avanzata, scattano soltanto gli arresti domiciliari. Baffi e Sarcinelli verranno completamente scagionati nel 1983, ma, nel frattempo, l'imprevisto colpo di scena sembra giocare a favore di Calvi.
Ma il Banco Ambrosiano non naviga in acque tranquille. Calvi, in particolare, non riesce a recuperare le ingenti somme prestate allo IOR. Una prima crisi di liquidità viene risolta con finanziamenti per circa 150 milioni di dollari ricevuti da parte della Banca Nazionale del Lavoro e dell'ENI. Ancora l'ENI interviene, nel 1980, con un finanziamento di 50 milioni di dollari per fronteggiare una nuova crisi di liquidità: anni dopo verrà formulata l'accusa secondo la quale, per ottenere questo secondo finanziamento, Calvi avrebbe pagato delle tangenti a Bettino Craxi e Claudio Martelli.
La situazione precipita il 20 maggio 1981, quando il sostituto procuratore della Repubblica di Milano Gerardo D'Ambrosio ordina l'arresto di Roberto Calvi, che, in quel momento, oltre ad essere presidente del Banco Ambrosiano, presiede anche la Centrale Finanziaria, dell'ex-direttore generale del Banco Ambrosiano Cappugi, dell'ex-presidente della Centrale Finanziaria e presidente della Toro Assicurazioni Antonio Tonello, del presidente della Invest Carlo Bonomi, di Mario Valeri Manera e di Aladino Monciaroni. L'accusa è esportazione illecita di valuta.
Il 20 luglio 1981 Calvi viene condannato a 4 anni di reclusione e a 15 miliardi di multa, più 1 miliardo e mezzo di lire per pene accessorie. Per gli altri imputati, pene detentive che vanno da 1 anno e 10 mesi a 3 anni di reclusione e multe da 5 a 8 miliardi di lire. A tutti gli imputati vengono condonati 2 anni di reclusione e viene concessa la libertà provvisoria, in attesa del processo d'appello.
Calvi torna sulla sua scrivania di presidente del Banco Ambrosiano, ma il cerchio intorno a lui comincia a stringersi. Monsignor Marcinkus, l'alleato fedele, sembra abbandonarlo. Nel tentativo di trovare fondi per risanare il Banco, Calvi intreccia pericolosi rapporti con l'ambiguo finanziere Flavio Carboni, presentatogli dal
"faccendiere" Francesco Pazienza (uomo vicino ai servizi segreti) e sospettato di avere rapporti con il mondo del crimine organizzato. Pazienza e Carboni assumono in pratica il compito di sorvegliare Calvi. Contestualmente, il direttore generale dell'Ambrosiano, Roberto Rosone, scampa miracolosamente ad un attentato tesogli da Danilo Abbruciati, figura di spicco della famigerata Banda della Magliana: da poco, Rosone aveva espresso delle perplessità su alcuni finanziamenti concessi dall'Ambrosiano a Carboni senza la presenza delle garanzie necessarie. Non bastandogli l'appoggio di Carboni, Calvi bussa ancora alla porta dello IOR: ma il susseguirsi di processi e di fatti sanguinosi, come il tentato omicidio di Rosone, determinano un rifiuto degli alti prelati e fanno sì che quella porta non si apra.
Calvi adesso ha paura. Gira in un'auto blindata e con una guardia del corpo che non lo abbandona mai. Il 9 giugno 1982 Calvi organizza la sua fuga all'estero con la collaborazione di Carboni. Visto che, dopo la condanna
a 4 anni di reclusione a Calvi è stato privato del passaporto, Carboni gli fornisce un passaporto falso intestato a Gian Roberto Calvini. Il 12 giugno Calvi scompare dalla sua abitazione romana di piazza Capranica. Uno dei suoi avvocati presenta un esposto in Procura. Qualcuno, verrà fuori in seguito, comincia a pensare che Calvi possa improvvisamente decidere di rivelare qualcosa circa i finanziamenti da lui elargiti a Solidarnosc ed altri intrecci con la Banca Vaticana.
Il "banchiere di Dio" ripara in Jugoslavia e, attraverso l'Austria, ha intenzione di raggiungere la Svizzera, e precisamente Zurigo, dove (stando a quanto racconta il figlio Carlo) ha appuntamento con la figlia e dove ha depositato centinaia di milioni di dollari, soldi che potrebbero salvare il Banco Ambrosiano. Il suo vero lasciapassare, forse, non è il passaporto falso fornitogli da Carboni ma la valigetta che porta con sè, dove molti hanno ipotizzato che custodisse i documenti che possono provare l'attività del Vaticano nell'Europa dell'Est. Resosi conto dell'eco suscitata in Italia dalla sua improvvisa scomparsa, Calvi, come racconta ancora il figlio Carlo, cambia programma e decide di accettare il suggerimento di Carboni che lo invita a recarsi a Londra. A Londra Calvi ritiene di poter raggiungere il fine che lo aveva indotto a recarsi a Zurigo, ossia trovare i soldi necessari a salvare il Banco Ambrosiano, stavolta grazie a degli incontri con non meglio precisati investitori esteri.
A Londra Calvi alloggia al Chelsea Cloister, un anonimo albergo dal quale ritiene di potersi muovere con tranquillità e senza dare troppo nell'occhio. Un testimone, Cecil Coomber, ospite a sua volta dell'albergo, racconterà di aver ricevuto, la sera del 17 giugno, una strana visita da parte di "due italiani piuttosto eleganti" che bussarono alla sua porta, guardarono dentro la camera e se ne andarono. Calvi, all'ultimo istante, aveva deciso di cambiare camera. Coomber, sceso più tardi al bar con un amico, reincontra davanti all'ascensore
i due italiani, stavolta in compagnia di "un uomo di mezza età", e vede uscire i tre da una porta di servizio per salire su una Limousine che li attendeva fuori. L'uomo di mezza età potrebbe essere Roberto Calvi.
Il pomeriggio di quel fatale 17 giugno, intanto, in Italia, il consiglio di amministrazione del Banco Ambrosiano, "dopo aver esaminato l'eccezionale situazione determinata dai recenti eventi e al fine di impedire che possa derivare pregiudizio al Banco, agli azionisti, ai depositanti, alla clientela e ai dipendenti" (come si legge nel comunicato del CDA), aveva deliberato di chiedere, ai sensi dell'articolo 57 della Legge Bancaria, lo scioglimento degli organi amministrativi del Banco Ambrosiano e la nomina di un commissario. Il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta aveva accolto la delibera e aveva nominato commissario provvisorio Vincenzo Desario. Lo stesso giorno Teresa Graziella Carrocher, 55 anni, segretaria di Roberto Calvi, si era suicidata gettandosi dal quarto piano dell'edificio dove ha sede il Banco Ambrosiano. Aveva lasciato un biglietto, scritto con un pennarello rosso, dove diceva, riferendosi a Calvi: "Che vergogna, scappato. Sia stramaledetto per tutto il male che ha fatto al Banco e a tutti noi".
La mattina successiva a questi fatti e agli strani movimenti del Chelsea Cloister, Roberto Calvi viene trovato impiccato sotto il Blackfriars Bridge (il "Ponte dei Frati Neri") a Londra. E' il 18 giugno 1982. Scotland Yard parla di un "classico suicidio" ma osserva che "ci sono un mucchio di domande che aspettano risposta". Una di queste riguarda ciò che è stato trovato sul cadavere di Calvi: oltre al passaporto e ad un'ingente somma di denaro (diversi milioni di lire ma in varie valute), nelle sue tasche sarebbero stati trovati parecchi sassi. Per scoprire qualcosa, bisognerà attendere il 1988, quando una causa civile intentata in Italia porta alla conclusione che Calvi è stato ucciso e impone ad un'assicurazione il risarcimento di 3 milioni di dollari alla famiglia del banchiere. Poi, nel 1992, la Procura di Roma viene in possesso di nuovi elementi per riaprire il caso come omicidio premeditato. Nel 1997 il giudice per le indagini preliminari Mario Alberighi emetterà ordinanza di custodia cautelare per Flavio Carboni e per il boss Pippo Calò, accusati di essere i mandanti dell'omicidio: secondo l'accusa Calvi sarebbe stato fatto fuori perchè si sarebbe proditoriamente impossessato del denaro dello stesso Calò e di Licio Gelli, ma soprattutto perchè Cosa Nostra avrebbe temuto che, in un momento di disperazione come quello che stava attraversando, Calvi avrebbe potuto rivelare i segreti del sistema di riciclaggio messo in piedi attraverso il Banco Ambrosiano. Il processo inizia il 5 ottobre 2005 ma si conclude il 6 giugno 2007 con l'assoluzione di tutti gli imputati, tra i quali figurava anche Ernesto Diotallevi, ritenuto uno dei capi della Banda della Magliana. Nel frattempo, sul versante britannico, le cose erano tornate a muoversi: nel 2003, infatti, i magistrati inglesi avevano aperto a loro volta un nuovo processo sulla misteriosa morte avvenuta sotto il "Ponte dei Frati Neri".
Questo nuovo atto giudiziario consolida la tesi dell'omicidio con un argomento determinante. Quel tragico 18 giugno 1982 il medico legale, chiamato d'urgenza, stese in assoluta fretta, dato che doveva sposarsi proprio quel giorno, un certificato di morte dove parlò di suicidio per impiccagione. Rilevò, però, che la morte risaliva a circa cinque o sei ore prima: considerando che il corpo era stato scoperto da un passante intorno alle 6 del mattino e l'esame del medico legale era intervenuto poco dopo, la deduzione fu che l'impiccagione dovette avvenire intorno all'una di notte. Ma nessuno aveva riflettuto sul fatto che Calvi non avrebbe mai potuto impiccarsi a quell'ora perchè fino alle 5 del mattino è risaputo che il livello delle acque del Tamigi è più alto di un metro: dato che, all'atto del ritrovamento, i piedi di Calvi sfioravano l'acqua, questo avrebbe voluto dire che Calvi avrebbe dovuto impiccarsi con l'acqua che gli arrivava fin quasi alle spalle. Una morte lentissima, atroce, come quella cui, in Inghilterra, almeno fino al '700, erano destinati i pirati. Successive analisi dimostreranno che Calvi avrebbe dovuto praticamente andare con la testa sott'acqua, infilare la testa medesima nel cappio e aspettare il calare del livello dell'acqua per poter ottenere l'effetto desiderato.
Ma torniamo ai fatti immediatamente successivi alla misteriosa morte di Calvi. Il 6 agosto 1982 il Comitato Interministeriale per il Credito ed il Risparmio, riunitosi sotto la presidenza del ministro del Tesoro, mette il Banco Ambrosiano in liquidazione coatta. La decisione interviene dopo che i tre commissari straordinari hanno completato il loro lavoro, constatando una situazione di palese "anormalità". Viene precisato che i depositanti non corrono rischi perchè le sette banche del pool che si è assunto l'impegno di garantirli hanno anche preparato un progetto per la nascita di un Nuovo Banco Ambrosiano.
La anormalità di cui parlano i commissari straordinari consiste in una scopertura di circa mille miliardi. Una parte di questo buco viene colmata dai liquidatori attraverso una transazione con lo IOR.
Il 29 maggio 1990, dopo otto anni di indagini, comincia a Milano, davanti alla
la III sezione penale del Tribunale, il processo per l'insolvenza del Banco Ambrosiano e per il reato di concorso in bancarotta fraudolenta a carico di personaggi dai nomi altisonanti. Che, il 16 aprile 1992, vengono tutti condannati. La condanna più elevata, 19 anni di reclusione, viene inflitta ad Umberto Ortolani, uno dei vertici della Loggia P2: fra gli altri, seguono Licio Gelli con 18 anni e 6 mesi, quindi Flavio Carboni con 15 anni, Francesco Pazienza con 14 anni e otto mesi, Roberto Rosone con 12 anni, Bruno Tassan Din (l'ex-direttore generale del Corriere della Sera, iscritto alla P2 così come l'editore Angelo Rizzoli) con 8 anni e 8 mesi, Orazio Bagnasco con 7 anni e 6 mesi e Anna Bonomi Bolchini con 7 anni e 6 mesi. Condanne anche per Carlo De Benedetti (6 anni e 4 mesi) e Giuseppe Ciarrapico (5 anni e 6 mesi), entrati nel processo in una fase successiva. In particolare, De Benedetti, che era stato prosciolto dal giudice istruttore, vide questo proscioglimento impugnato dal pubblico ministero, secondo il quale il presidente della Olivetti, dopo aver ricoperto per due mesi la carica di vicepresidente del Banco Ambrosiano, avrebbe ottenuto un utile di circa 28 miliardi per tacere su quanto sapeva circa l'effettiva situazione del Banco medesimo. Ciarrapico, invece, fu rinviato a giudizio per un finanziamento di 39 miliardi con il quale acquistò il pacchetto dell'Ente Terme Fiuggi: restituì la somma con gli interessi.
Malgrado le pesanti condanne, nessuno degli imputati finirà in prigione.
E la morte di Roberto Calvi rimane avvolta nel mistero.



1.6. La Loggia
P2


Il 17 marzo 1981 entra ufficialmente in scena Licio Gelli, l'ex-materassaio di Pistoia che aveva cominciato la sua carriera nella famosa ditta Permaflex;
colui che fu definito il "gran burattinaio" e che si autodefinì a sua volta il "confessore di questa Repubblica"; l'uomo che, dopo essere stato fascista e repubblichino, aveva fatto il doppio gioco con la Resistenza, aveva collaborato con i servizi segreti inglesi e statunitensi in funzione anticomunista ed era poi entrato nei servizi segreti dell'Italia repubblicana; l'uomo che mandava telegrammi che finivano sempre con la frase "Viva la Resistenza, viva l'Italia"; l'uomo che, nell'àmbito del fallito golpe Borghese del 1970, pare avesse l'incarico di penetrare dentro il Quirinale e arrestare l'allora presidente della Repubblica Giuseppe Saragat; l'uomo per ottenere udienza dal quale moltissimi facevano la fila davanti alla porta della suite dell'Hotel Excelsior di via Veneto, a Roma, dove egli spesso risiedeva; l'uomo che era stato amico intimo di Josè Lopez Rega, oscuro personaggio che fu ministro del Benessere Sociale nel governo di Juan Domingo Peron e in seguito guidò l'Argentina alla fine degli anni Settanta; l'uomo che era stato invitato al giuramento del presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan nel 1981; l'uomo che, nominato consigliere diplomatico con tanto di passaporto speciale, divenne, per "fratellanza massonica", amico e depositario dei segreti di Michele Sindona, da tempo latitante. Sindona gli presentò Calvi, il presidente del Banco Ambrosiano e "uomo di tutte le transazioni targate P2" (come si legge nel comunicato dell'ANSA delle ore 21,20 di quello stesso 13 settembre 1982 in cui Gelli, come vedremo fra breve, verrà arrestato).
Il 17 marzo 1981, si diceva, un'incursione della Guardia di Finanza nella villa di Gelli a Castiglion Fibocchi, in provincia di Arezzo, consente di svelare i nomi dei 962 iscritti alla loggia P2. L'ordine della perquisizione viene dato, come abbiamo visto prima, da Turone e Colombo, i due giudici milanesi che hanno indagato sul delitto Ambrosoli e si sono occupati anche delle indagini sul falso rapimento di Michele Sindona, giungendo, tramite Joseph Miceli Crimi ed altri ambigui personaggi, al nome di Licio Gelli.
Il coordinamento dell'operazione sul campo spetta al colonnello della Guardia di Finanza Vincenzo Bianchi. Contemporaneamente, vengono effettuate perquisizioni anche presso altri quattro indirizzi relativi a Gelli, trovati annotati su un'agenda sequestrata a Michele Sindona dalla polizia di New York: Villa Wanda, ad Arezzo (la dimora principale di Gelli), la già ricordata suite presso l'Hotel Excelsior di via Veneto, a Roma, un'azienda di Frosinone (che risulterà essere un vecchio indirizzo non più utile) e gli uffici della Giole, una fabbrica di abbigliamento di Castiglion Fibocchi. Le perquisizioni presso questi quattro indirizzi non sortiscono alcun risultato, eccezion fatta per la sede della Giole, dove vengono trovate alcune carte. La villa di Castiglion Fibocchi, invece, riserva una clamorosa sorpresa. Un comunicato dell'ANSA delle ore 12,18 di quel 17 marzo annuncia: "La villa di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi, in provincia di Arezzo, è stata perquisita dai Carabinieri per ordine dei magistrati milanesi Gherardo Colombo e Giuliano Turone (i magistrati che, come abbiamo visto prima, avevano indagato anche sul delitto Ambrosoli e sul falso rapimento di Sindona, nda). Sembra che si sia trovata, tra l'altro, una lista di 962 iscritti alla Loggia, denominata P2, di cui Licio Gelli è 'maestro venerabile' ".
E la lista viene trovata. Gelli no: pare che, in quel momento, sia all'estero, a Montevideo.
La perquisizione è ancora in corso quando a Bianchi arriva, via radio, una chiamata del generale Orazio Giannini, comandante della Guardia di Finanza. Come si scoprirà ben presto, il nome di Giannini, come quello del suo predecessore, generale Raffaele Giudice, e come anche quello del capo di Stato Maggiore della Guardia di Finanza, il generale Donato Lo Prete, figura negli elenchi trovati a Castiglion Fibocchi.
Oltre agli elenchi degli affiliati alla loggia, vengono sequestrate anche 33 buste sigillate tra le quali alcune recano le seguenti intestazioni: "Accordo ENI-PETROMIN", "Calvi Roberto - Vertenza con Banca d'Italia", "Documentazione per la definizione del Gruppo Rizzoli", "On. Claudio Martelli".
Sembra, inoltre, che Licio Gelli sia anche in possesso di una copia dei fascicoli personali che, per ordine del governo, il SIFAR (il vecchio servizio segreto precedente al SID) avrebbe dovuto bruciare nell'inceneritore di Fiumicino il 10 agosto 1974: e proprio per questo Gelli, il 22 maggio 1981, viene colpito da un mandato di cattura insieme all'ex-ufficiale dei Carabinieri Antonio Viezzer, per procacciamento di notizie sulla sicurezza dello Stato.
Le carte sequestrate vengono portate a Milano. I giudici Turone e Colombo conservano gli originali nel fascicolo dell'inchiesta; una prima copia la affidano ai finanzieri, con l'incarico di custodirla in un luogo sconosciuto persino agli stessi giudici; una seconda copia viene nascosta, sotto la falsa intestazione di "Formazioni Comuniste Combattenti", tra i fascicoli di un altro giudice, Pietro Forno.
Turone e Colombo si recano a Roma il 25 marzo per informare il presidente del Consiglio Arnaldo Forlani. Ad accoglierli a Palazzo Chigi c'è il capo di gabinetto di Forlani. "Ci siamo guardati negli occhi in silenzio" - ricorderà in seguito Gherardo Colombo - "il funzionario davanti a noi era il prefetto Mario Semprini, tessera P2 1637". I giudici parlano direttamente con Forlani, il quale avanza il dubbio che le carte trovate possano non essere autentiche: i magistrati gli mostrano la firma autografa del ministro di Grazia e Giustizia Adolfo Sarti sulla domanda d'iscrizione alla loggia e gli chiedono di confrontarla con un qualsiasi documento firmato dal ministro. Effettuato il confronto, Forlani chiede tempo per riflettere. Ma la Loggia P2 è ormai stata scoperta.

La Loggia P2 (sigla che sta per "Propaganda 2"), nata ai primi del '900, era la loggia più esclusiva di tutto il Grande Oriente d'Italia in quanto i "fratelli" spesso non si conoscevano fra di loro ed erano esentati dal partecipare a riunioni. Gelli era diventato segretario organizzativo della P2 nel 1972, poco prima che il Gran Maestro dell'epoca, Lino Salvini, decidesse di chiuderla. Gelli ricostituisce la P2 nel 1975. E' una palingenesi. La loggia si ramifica ben presto a livello internazionale, in particolare in Sudamerica, con affiliati che operano in Uruguay, Brasile e Argentina: fanno parte della P2 l'ammiraglio Emilio Massera, capo di Stato Maggiore della Marina Argentina, il già ricordato Josè Lopez Rega, il ministro degli Esteri argentino Alberto Vignes, l'ammiraglio Carlos Alberto Corti e altri militari. La Loggia P2 diventa importante a tal punto che lo stesso Gelli ne parla definendola, sic et simpliciter, "l'Istituzione".
Il 6 maggio 1981 il sostituto procuratore della Repubblica di Roma Domenico Sica ordina ai Carabinieri di perquisire la sede della massoneria italiana a Palazzo Giustiniani, nel cuore della Capitale. Il procuratore della Repubblica di Roma, Achille Gallucci, dopo aver sollevato il conflitto di competenza e aver ottenuto ragione dalla Corte di Cassazione il 2 settembre, porta l'indagine a Roma e apre un'inchiesta ufficiale su Licio Gelli e sulla Loggia P2, con l'intenzione di accertare la fondatezza delle numerose accuse che negli ultimi tempi sono state rivolte da quotidiani e settimanali alla Loggia medesima. Ma l'inchiesta non procede come sperato: "mi è arrivata sulla scrivania già morta", dirà Elisabetta Cesqui, il pubblico ministero incaricato di seguire la nuova inchiesta.
Piccolo inciso: il 17 marzo 1983 verrà depositata la sentenza-ordinanza con la quale verranno prosciolti o amnistiati tutti gli imputati perchè il fatto, all'epoca della loro associazione, non era previsto come reato; Licio Gelli verrà amnistiato per la truffa ai danni degli iscritti alla P2 e per quanto riguarda l'accusa di rivelazioni di segreto d'ufficio in concorso con Roberto Calvi; verranno stralciati
solo alcuni fatti sui quali dovranno essere svolti ulteriori accertamenti, come l'omicidio del direttore della rivista OP Mino Pecorelli (piduista con tessera numero 1750, ma piduista "anomalo" che pare volesse giocare in proprio: si addensano i sospetti su Gelli come mandante del delitto, avvenuto a Roma il 20 marzo 1979) e l'accusa di cospirazione politica mediante associazione, che continua a pendere sul capo del "Venerabile Maestro" nella sua veste di capo assoluto e manovratore unico della P2.
Tornando al 1981, il capo del governo Forlani decide di bandire ogni esitazione. Il 21 maggio di quell'anno cruciale l'ufficio stampa della Presidenza del Consiglio dei Ministri distribuisce l'elenco dei nomi degli iscritti alla P2: nella lista ci sono 52 alti ufficiali dei Carabinieri, 50 alti ufficiali dell'esercito, 37 alti ufficiali della Guardia di Finanza (tra cui il comandante generale), 29 alti ufficiali della Marina, 11 Questori, 5 Prefetti, i vertici dei servizi segreti, 70 imprenditori (tra i quali spicca il nome di un giovane Silvio Berlusconi, numero di tessera 1816), 10 presidenti di Banche, 3 Ministri in carica, 2 ex-Ministri, il segretario di un partito di governo, ossia Pietro Longo, segretario del Partito Socialdemocratico, 38 parlamentari, 14 magistrati, direttori di giornali, giornalisti e persino un aspirante monarca. L'erede al trono d'Italia Vittorio Emanuele di Savoia risulta infatti iscritto alla P2 con numero di tessera 1621.
Una settimana dopo, il governo Forlani si dimette.
Il tenente colonnello della Guardia di Finanza Luciano Rossi, l'ufficiale che era stato chiamato a testimoniare sulla Loggia P2 e sul ritrovamento dei documenti a Castiglion Fibocchi, viene rinvenuto cadavere al secondo piano della sede del Nucleo Centrale di Polizia Tributaria in via dell'Olmata, a Roma. Il colpo di pistola sparato alla tempia con la sua calibro 9 d'ordinanza fa archiviare il caso come suicidio.
Il 4 luglio 1981, all'aeroporto di Fiumicino, nel doppio fondo di una valigia di Maria Grazia Gelli, figlia del "Venerabile Maestro", viene sequestrato anche un documento intitolato Piano di rinascita democratica. In esso si legge, fra l'altro, che "l'aggettivo democratico sta a significare che sono esclusi dal presente piano ogni movente od intenzione anche occulta di rovesciamento del sistema" e che "il piano tende invece a rivitalizzare il sistema attraverso la sollecitazione di tutti gli istituti che la Costituzione prevede e disciplina" pur prevedendo "alcuni ritocchi alla Costituzione successivi al restauro delle istituzioni fondamentali". Nel piano vengono indicati "i partiti politici democratici, dal PSI al PRI, dal PSDI alla DC al PLI (con riserva di verificare la Destra Nazionale)" e si indica anche "la stampa, escludendo ogni operazione editoriale, che va sollecitata al livello di giornalisti attraverso una selezione che tocchi soprattutto Corriere della Sera, Giorno, Giornale, Stampa, Resto del Carlino, Messaggero, Tempo, Roma, Mattino, Gazzetta del Mezzogiorno, Giornale di Sicilia, per i quotidiani; e per i periodici: Europeo, Espresso, Panorama, Epoca, Oggi, Gente, Famiglia Cristiana. La RAI-TV va dimenticata: bisognerà dissolverla in nome della libertà d'antenna". "I partiti politici" - si legge ancora nel documento - "la stampa e i sindacati costituiscono oggetto di sollecitazioni possibili sul piano della manovra di tipo economico-finanziario. (...) Ai giornalisti acquisiti dovrà essere affidato il compito di simpatizzare per gli esponenti politici come sopra".
In un'intervista a L'Indipendente del febbraio 1996, Licio Gelli dirà di Silvio Berlusconi: "Ha preso il nostro Piano di Rinascita e lo ha copiato quasi tutto". Nel documento, infatti, a parte il discorso sulla "libertà d'antenna", si prevede di "usare gli strumenti finanziari per l'immediata nascita di due movimenti, l'uno sulla sinistra e l'altro sulla destra"; tali movimenti "dovrebbero essere fondati da altrettanti clubs promotori".

Il 24 luglio 1981 il nuovo governo, presieduto dal repubblicano Giovanni Spadolini, il primo governo della Repubblica guidato da un non democristiano, decide lo scioglimento della Loggia P2, applicando le norme che puniscono le società segrete ed i loro appartenenti. I capi dei servizi di sicurezza vengono licenziati. Il 9 dicembre successivo verrà nominata la commissione parlamentare d'inchiesta sulla P2, commissione formata da 20 deputati e 20 senatori e presieduta da Tina Anselmi. La relazione di questa commissione, il 9 maggio 1984, confermerà quanto segue: "Le liste trovate nella villa di Gelli nel 1981 sono autentiche. Licio Gelli faceva parte dei servizi segreti fin dal 1950. La P2 è un'organizzazione che aspira non alla conquista del potere nelle sedi istituzionali ma al controllo di esse in forma surrettizia (...) La loggia di Gelli entra come elemento decisivo in alcune vicende finanziarie, quella di Sindona e quella di Calvi, che hanno interessato il mondo economico italiano in modo determinante. In questo contesto la Loggia P2 ha anche acquisito il controllo del maggior gruppo editoriale italiano, mettendo in atto nel settore primario della stampa quotidiana un'operazione di concentrazione di testate non confrontabile ad altre analoghe e riconducibile a sia pur preminenti centri di potere economico". Tina Anselmi conclude ponendosi un interrogativo per il quale non possa esistere "una sproporzione tra l'operazione complessiva e il personaggio, Licio Gelli, che di essa appare l'interprete". Il 10 luglio 1984 la commissione, alla sua 147esima seduta, chiude ufficialmente i suoi lavori, approvando la relazione a larga maggioranza, con 31 voti favorevoli e 4 contrari. Il commissario democristiano Padula afferma, in sede di dichiarazione di voto, che "la DC non ritiene preclusi ulteriori approfondimenti sulla vicenda P2".
Frattanto, Gelli fugge all'estero ma viene arrestato a Ginevra il 13 settembre 1982, mentre sta prelevando 180 miliardi da un conto bancario. Rinchiuso nel carcere elvetico di Champ Dollon, ne evade il 10 agosto 1983. Qualcuno pensa addirittura che Gelli sia stato rapito o addirittura ucciso. Il 19 agosto il governo svizzero concede un'inutile estradizione di Gelli in Italia. Il 21 settembre 1987 Gelli si costituisce, sempre in Svizzera, a Ginevra, e viene estradato in Italia nel 1988, anche se solo per alcuni reati: per gli altri non potrà essere processato, sebbene il suo nome sia stato coinvolto, come abbiamo visto, nell'omicidio Pecorelli, nell'affare Sindona e persino nella strage di Bologna del 2 agosto 1980.
Se per alcuni reati c'era stato un proscioglimento nel 1983, per altri, come abbiamo detto prima, le indagini erano proseguite. Il 19 novembre 1991 Licio Gelli viene rinviato a giudizio, insieme ad altre quindici persone (tra le quali Umberto Ortolani, il generale Franco Picchiotti, il generale Gianadelio Maletti, il generale Raffaele Giudice, il generale Pietro Musumeci, il generale Giulio Grassini, il colonnello Antonio Vezzier e il capitano Antonio Labruna) per cospirazione politica, attentato contro la Costituzione, spionaggio e millantato credito. In realtà, il giudice istruttore si vede tecnicamente costretto a disporre il non luogo a procedere contro
Gelli per cospirazione politica perchè l'ex-"venerabile maestro" non è stato estradato per quel reato. Gelli viene prosciolto anche dalle imputazioni di procacciamento di notizie riguardanti la sicurezza dello Stato, di rivelazioni di segreti d'ufficio e di estorsione ai danni di Roberto Calvi: risponderà, invece, di millantato credito nei confronti dei magistrati di Milano in relazione all'inchiesta sul dissesto del Banco Ambrosiano e di calunnia nei confronti degli stessi magistrati.
Il 16 aprile 1994 la Corte d'Assise di Roma sentenzia che la Loggia P2 non fu una struttura che cospirò contro lo Stato e assolve gli imputati, perchè il fatto non sussiste, dall'accusa di cospirazione politica mediante associazione. Licio Gelli viene comunque condannato a 17 anni di reclusione (di cui cinque condonati) per millantato credito, calunnia e procacciamento di documenti contenenti notizie riservate, reato, quest'ultimo, per il quale il generale Gianadelio Maletti viene condannato a 14 anni di reclusione
(di cui cinque condonati).
Tutto, però, si conclude con un nulla di fatto. Alla fine dell'enorme polverone sollevato dalla perquisizione di Castiglion Fibocchi, infatti, tra problemi tecnici di vario genere e la prescrizione, che frattanto sopraggiunge prima dell'arrivo del processo in Cassazione, nessuno pagherà realmente per le accuse che erano state formulate.
"Vent’anni dopo, in Italia è tempo di revisioni. Anche sulla P2" - scrive Gianni Barbacetto sul sito Internet denominato societacivile.it - "E' stato un legittimo club di amiconi, magari con qualcuno che ne approfittava un po’ per fare affari. Gelli? Un abile traffichino che millantava poteri che in realtà non aveva. Ma era proprio questo, la P2? Vista con distacco, appare invece il luogo più attivo per l’elaborazione di strategie di potere del grande partito atlantico in Italia, almeno tra il 1974 e il 1981. Centro d’incontro tra politica, affari, ambienti militari. Nella loggia segreta è confluito il partito del golpe, reduce dalla stagione delle stragi 1969-74, ma con una nuova strategia, più flessibile, più attenta alla politica. E ai soldi, che possono comprarla: come suggerisce, appunto, il Piano di Rinascita".



1.7. Gli ultimi mesi di Michele Sindona


Tornando a Sindona e al 1981, il 9 luglio di quell'anno Roberto Calvi tenta il suicidio in carcere: assume dei barbiturici e si taglia il polso destro con una lametta da barba. Rinvenuto dopo cinque ore, alle sette del mattino, viene ricoverato al Mangiagalli di Milano e dichiarato fuori pericolo. Quella mattina avrebbe dovuto presentarsi dal sostituto procuratore della Repubblica di Milano Gerardo D'Ambrosio.
Il 25 settembre 1984 Sindona viene finalmente estradato dagli Stati Uniti in Italia. Il 18 marzo 1986 viene condannato all'ergastolo, insieme a Roberto Venetucci, come mandante del delitto Ambrosoli e rinchiuso nel supercarcere di Voghera: due giorni più tardi, il 20 marzo, un caffè avvelenato con sali di cianuro conduce Michele Sindona alla morte. Il 3 novembre dello stesso anno il giudice istruttore Di Donno dichiara di "non doversi procedere ad azione penale in relazione al decesso di Michele Sindona, essendosi trattato di suicidio". La conclusione del magistrato, per l'esattezza, è quella di un "suicidio attraverso la simulazione di un omicidio": anche il disperato grido lanciato da Michele Sindona dopo aver bevuto il caffè ("mi hanno avvelenato!") faceva parte, secondo il giudice, di un piano preordinato.




2. L'ACCUSA


Torniamo al processo Contrada.
Il nome di Bruno Contrada incrocia (rectius viene incrociato con) quello di Michele Sindona per due motivi ben precisi quanto pretestuosi. Analizziamoli partitamente.

2.1. Strane cancellazioni

Alla fine degli anni '70 Contrada stava indagando da tempo sulla mafia siculo-americana e sulle famiglie Gambino, Spatola e Inzerillo. Nel 1979 si era verificato anche il fermo di John Gambino (di cui parliamo più diffusamente nel capitolo omonimo). L'arrivo a Palermo del questore Vincenzo Immordino, il 6 dicembre 1979, aveva dato l'avvio ad una serie di contrasti e di tensioni dovuti alla vera e propria rivoluzione attuata dal nuovo questore, soprattutto dopo la nomina di Giuseppe Impallomeni a capo della Squadra Mobile l'1 febbraio 1980. Ne parliamo in dettaglio nel capitolo Il contrasto fra Contrada e Immordino e il blitz del 5 maggio 1980. Qui basti ricordare (ci scusiamo della reiterazione col lettore sed repetita iuvat) quanto asserito dall'allora vicecapo della Squadra Mobile, Tonino De Luca, e dall'ispettore generale capo del Ministero degli Interni Guido Zecca nell'udienza del 28 ottobre 1994:

DE LUCA - "
Con l'avvento di Immordino, quella che lui definiva la 'vecchia polizia giudiziaria', cioè noi, fu messa da parte. Immordino voleva dimostrare di aver fatto piazza pulita perchè, secondo lui, dopo la morte di Giuliano la Squadra Mobile di Palermo non valeva più niente. (...) Immordino voleva soltanto fare colpo, come diceva lui, 'arrestando una cinquantina di mafiosi'. Per questo cominciò a premere per sveltire le indagini e le assegnò ad altri funzionari, certamente inesperti, togliendole a me, Contrada e Vasquez. Insomma, Immordino fece di tutto per sottrarre le indagini su Spatola a noi vecchi funzionari della Mobile e metterci da parte. Perchè? L'ho già detto. Soltanto perchè voleva fare colpo, ma non perchè sospettasse che io, Contrada, D'Antone o Vasquez fossimo collusi con la mafia."

ZECCA - "Il dottor Contrada non se la sentiva di firmare una denunzia che non riteneva ancora completa, ma Immordino premeva, premeva... Contrada fece notare a Immordino che molti informatori della Polizia erano stati fatti fuori e dunque dovevano esserci delle fughe di notizie dalla Squadra Mobile, e Contrada stesso era preoccupato per la sua incolumità. (...) Immordino aveva dato direttive perchè tutto avvenisse all'insaputa di Contrada soltanto perchè, secondo Immordino, Contrada ritardava a presentare le sue conclusioni adducendo la presenza di lacune nelle sue indagini, ma non c'erano altri motivi o sospetti."

Come spieghiamo nel capitolo sul contrasto tra Contrada ed Immordino, Contrada, in quel momento, sta indagando anche sul coinvolgimento di Michele Sindona con la mafia, ma semplicemente non ha ancora raccolto tutte le prove necessarie. Viene accusato di aver cancellato il nome di Sindona dal suo rapporto di denuncia, ma non c'è nulla di più falso: in realtà non fu Contrada ma Giuseppe Impallomeni ad eliminare il nome di Sindona dal proprio rapporto. E' Giovanni Rinaldo Coronas, all'epoca Capo della Polizia, a ricordare nell'udienza del 21 marzo 1995:

CORONAS - "Decisi di mandare l'ispettore Guido Zecca a Palermo perchè chiarisse perchè e come il capo della Mobile Impallomeni aveva cancellato il nome di Michele Sindona dal proprio rapporto di denuncia".

Perchè Contrada avrebbe dovuto agevolare Sindona? Nessun nesso è mai stato trovato, neppure nel fantasmagorico processo di cui è stato vittima, fra Contrada e Sindona o fra lo stesso Contrada ed altri personaggi interessati a favorire Sindona.
Come diceva il poeta, tutto il resto è silenzio.


2.2. Iniziali equivoche

C'è poi un altro punto sul quale gli inquisitori di Bruno Contrada hanno voluto far leva. Costoro hanno dato per scontato che, poco prima di morire, Boris Giuliano si stesse occupando di Michele Sindona e perfino dell'omicidio dell'avvocato Giorgio Ambrosoli, il liquidatore della Banca Privata Italiana di Sindona, ucciso a Milano, come abbiamo visto, la notte dell'11 luglio 1979. Boris Giuliano verrà freddato dalla pistola di Leoluca Bagarella non più tardi di dieci giorni dopo: questa sinistra coincidenza cronologica ha fatto sospettare ai sopracitati inquisitori che fosse stato proprio l'interessamento di Giuliano alle vicende di Sindona ad accelerare la sua fine.
Quello che l'attento cronista o spettatore del processo Contrada può dire è che non sono emersi validi motivi per ritenere che Giuliano avesse deciso di vederci chiaro anche nell'oscuro mondo di Michele Sindona. Ci sono, anzi, delle precise testimonianze in senso contrario, come quella di Tonino De Luca, per anni funzionario di punta della Squadra Mobile palermitana e strettissimo collaboratore sia di Contrada che di Giuliano. Nell'udienza del 28 ottobre 1994 De Luca precisa senza alcuna ombra di dubbio:

DE LUCA - "Poco prima di essere assassinato, siamo intorno alla metà di luglio del 1979, Giuliano ricevette in ufficio una telefonata. Un giornalista gli chiedeva dell'omicidio di Giorgio Ambrosoli. Lui lo licenziò bruscamente, poi mi disse: 'che ne so io? Lo chieda alla Squadra Mobile di Milano!'. Se Boris Giuliano si fosse occupato del caso Ambrosoli io l'avrei certamente saputo, lo avremmo saputo tutti noi perchè a quell'epoca alla Squadra Mobile si lavorava in equipe nel vero senso della parola."



SALVO GIORGIO


2 comments:

Anonymous said...

"Condanne anche per Carlo De Benedetti (6 anni e 4 mesi) e Giuseppe Ciarrapico (5 anni e 6 mesi), entrati nel processo in una fase successiva. In particolare, De Benedetti, che era stato prosciolto dal giudice istruttore, vide questo proscioglimento impugnato dal pubblico ministero, secondo il quale il presidente della Olivetti, dopo aver ricoperto per due mesi la carica di vicepresidente del Banco Ambrosiano, avrebbe ottenuto un utile di circa 28 miliardi per tacere su quanto sapeva circa l'effettiva situazione del Banco medesimo."

Non dici che De Benedetti è stato prosciolto nel 1998.
Se non andavo a controllare, sarei rimasto convinto che aveva una condanna.
Se vuoi fare tutta la narrazione storica, menzionando gente che non c'entra nulla con Contrada, almeno dai le notizie complete.

http://archiviostorico.corriere.it/1998/aprile/23/Condanna_annullata_per_Benedetti_co_0_9804231920.shtml

Anonymous said...

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