1. L'ACCUSA
Ancora una volta, in relazione al capo d'accusa che ci accingiamo a trattare, il processo Contrada ha assunto una incredibile valenza medianica. Hanno fatto parlare i morti, evocandone le ombre. Finendo, magari involontariamente, per palesare ben poco rispetto per la loro memoria e per il loro lavoro. Morti che non sono potuti venire in aula a ribadire o a sbeffeggiare le dichiarazioni che erano state loro messe in bocca.
Non soltanto Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Boris Giuliano, ma anche altre due illustri ed eroiche vittime della mafia, il vicequestore Ninni Cassarà ed il commissario Beppe Montana, avrebbero diffidato di Contrada. Sulla base di semplici opinioni riferite de relato da altri e contrastate in maniera evidente da fatti oggettivi riferiti da tutti coloro che hanno avuto occasione di conoscere Cassarà, Montana e Contrada e di lavorare a stretto contatto con loro.
Viene da chiedersi ancora una volta il motivo per cui si sono tirati in ballo personaggi decorati da medaglie al valore civile e da un indiscutibile alone di merito e di gloria personale. Personaggi le cui presunte accuse nei confronti dell'imputato, agli occhi dell'opinione pubblica, potevano venir rivestite da una suggestiva patina di attendibilità, da un particolare crisma di infallibilità: se qualcuno poteva obiettare che i "pentiti" erano comunque degli assassini e degli estortori di professione, quale macchia si sarebbe potuta riversare sulle parole di specchiati eroi vittime di Cosa Nostra?
Nessuna macchia, purchè quelle parole le avessero realmente pronunciate. E purchè tali accuse non fossero state smentite da una serie di fatti incontrovertibili di senso contrario.
2. LA DIFESA
Fatti, non parole. Come sempre è accaduto in questo processo, la difesa ha fatto leva su fatti, circostanze, date, atti e, soprattutto, su testimonianze dirette. Persone che hanno visto coi loro occhi e sentito con le loro orecchie, e non testimoni che, in buona fede o meno, hanno riportato parole pronunciate da altri che sono morti e non potevano venire in aula a confermare o a smentire. Lo abbiamo ripetuto tante volte nel corso di questo libro, ma è davvero successo troppe volte. Parole davvero significative, in quanto basate su fatti, sul rapporto tra Bruno Contrada e Ninni Cassarà le hanno, infatti, pronunciate tutti coloro che hanno lavorato con i due poliziotti.
Cominciamo con Antonio De Luca che nell'udienza del 28 ottobre 1994 ricorda:
DE LUCA - "I rapporti di Bruno Contrada con Ninni Cassarà erano ottimi. Contrada mise a disposizione di Cassarà l'auto blindata che Cassarà gli aveva chiesto per ispezionare di notte i luoghi indicatigli da Contorno. All'epoca delle minacce a Cassarà, testimone al processo per l'omicidio di Rocco Chinnici, dove aveva parlato dei Salvo, fu Contrada ad interessarsi presso l'Alto Commissariato Antimafia per fare mettere a casa di Cassarà porte e vetri blindati."
L'ex-ispettore Salvatore Nalbone, in servizio alla Sezione Investigativa della Squadra Mobile e alla Criminalpol di Palermo dal 1951 al 1981, nell'udienza del 20 gennaio 1995 ha ricordato:
NALBONE - "Ninni Cassarà aveva ottimi rapporti con Bruno Contrada. Fra i due non ci furono mai screzi nè contrasti. Cassarà spesso andava a trovare Contrada in ufficio per chiedere consigli e la porta rimaneva aperta, nessun problema."
L'ex-sovrintendente capo della Polizia di Stato Michele Sandulli, in servizio presso la Criminalpol palermitana dal 1970 al 1992, ha dichiarato nell'udienza del 14 febbraio 1995:
SANDULLI - "Il dottor Ninni Cassarà veniva spesso in ufficio a trovare il dottore Contrada. Fra i due c'erano ottimi rapporti. Anche il dottor Giuseppe Montana veniva spesso in ufficio a trovare il dottore Contrada. Anche fra loro due c'erano ottimi rapporti."
L'ex-sottufficiale della Squadra Mobile e della Criminalpol palermitane Alessandro Guadalupi, in servizio a Palermo dal 1965,
GUADALUPI - "I rapporti fra Bruno Contrada e Ninni Cassarà sono sempre stati ottimi. Fra i due c'è sempre stata grande collaborazione".
Il prefetto Giovanni Pollio, capo della Criminalpol centrale dal 1984 al 1987, ha ribadito nell'udienza 23 maggio 1995 una verità importantissima, decisiva per tagliare la testa ad ogni tipo di illazione accusatoria di un certo tipo che pure si era fatta strada nelle tortuose maglie del processo:
POLLIO - "Contrada aveva sollecitato il trasferimento di Ninni Cassarà da Palermo a Genova esclusivamente per proteggere Cassarà".
Il colonnello dei Carabinieri Titobaldo Honorati, già comandante del Nucleo Operativo dei Carabinieri di Palermo dal 1982 al 1984, sentenzia nell'udienza del 14 febbraio 1995:HONORATI - "Ero amico di famiglia sia di Ninni Cassarà che di Beppe Montana. Posso garantire che nessuno dei due sospettò mai di Bruno Contrada".
L'assistente capo della Polizia di Stato Lucio Toma, in servizio a Palermo dal 1971, ribadisce nell'udienza del 21 febbraio 1995:
TOMA - "I rapporti sia del dottor Ninni Cassarà che del dottor Giuseppe Montana con il dottor Bruno Contrada sono sempre stati buoni".
Filippo Peritore, già funzionario della Squadra Mobile di Palermo, prima alla Sezione Antirapine, quindi alla Sezione Omicidi e in seguito dirigente della Sezione Narcotici, dichiara nell'udienza del 24 gennaio 1995:
PERITORE - "Fra Bruno Contrada e Ninni Cassarà intercorrevano rapporti ottimi. Cassarà non si è mai lamentato di Contrada con nessuno."
2. SFIDA AL LETTORE
Le parole della vedova Cassarà contro i fatti addotti da coloro che lavoravano con Cassarà e con Contrada. Non è una questione di scelta di campo, come alcune èlites politiche e culturali hanno voluto che diventasse questo processo e, più in generale, la lotta alla criminalità organizzata: che non è patrimonio ideologico nè della destra nè della sinistra, ma è e deve essere una cultura di popolo, un forte sentimento radicato in tutti a prescindere da appartenenze ideologiche e tessere di vario genere. Non si tratta, in altre parole, di schierarsi, ma di valutare i fatti.
Chi scrive ha sempre nutrito il più alto rispetto e la massima solidarietà nei confronti delle vittime della mafia e dei loro parenti. Ma quel che bisogna valutare, a livello processuale, sono i fatti: cosa ancor più vera per chi quei fatti deve ponderarli al fine di emettere un giudizio. Se usiamo la vecchia, e a volte polverosa, bilancia che è il simbolo della giustizia, ci accorgeremo che su uno dei due piatti vi sono le parole della vedova Cassarà, intrise di ricordi, di dolore, dell'eco di una vita spezzata, di un trauma, quello di vedersi uccidere il marito davanti agli occhi, che è quasi impossibile superare: ma si tratta di parole basate soltanto su sentori, su opinioni che il trauma stesso subìto può amplificare e deformare, secondo un comprensibilissimo meccanismo umano. In più, tutto il battage scatenato intorno a Bruno Contrada nel periodo delle indagini a suo carico che avrebbero portato al suo arresto (e non certo dopo, quando degli scudi cominciavano ad ergersi in sua difesa...) e, dunque, per la vedova Cassarà l'idea di trovarsi di fronte ad un imputato che sarebbe la fantomatica, malefica e onnipotente "talpa" all'origine della rovina dello Stato di fronte alla mafia, dunque anche all'origine della morte del marito, potrebbero aver acuito quel quadro traumatico di cui sopra.
Comprensibile. Umano. Ma sull'altra bilancia sono stati pòsti dei fatti inconfutabili, contraltare oggettivo ed incontestabile di quelle che, dall'altra parte, sono state soltanto parole, per quanto la loro origine possa essere spiegata come dicevamo prima. E un giudice deve valutare i fatti. Se la vedova Cassarà sostiene che il marito diffidava di Contrada, a parte il fatto che essere oggetto di diffidenza non è un reato previsto dal Codice Penale, questa sua asserzione, soprattutto in quanto non suffragata dalla viva voce del marito, non può che cedere di fronte al ricordo di decine di colleghi che rammentano come Cassarà informasse sempre Contrada delle sue indagini e ne cercasse il parere, il consiglio di poliziotto più anziano ed esperto. E sempre a porte aperte.
1 comment:
necessita di verificare:)
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