Friday, May 25, 2007

LE TRE ALFA ROMEO E LA STRENNA NATALIZIA





1. Premessa generale (valida ogniqualvolta ci si riferisca alla presunta amicizia fra Bruno Contrada ed il
boss Rosario Riccobono)



In questo capitolo apriamo la trattazione delle generiche accuse che i "pentiti" Gaspare Mutolo e Francesco Marino Mannoia hanno rivolto a Bruno Contrada circa il presunto sentimento di "amicizia" che quest'ultimo avrebbe nutrito nei confronti del pericoloso boss di Partanna Mondello, al secolo Rosario Riccobono. Un boss che da più parti all'interno di Cosa Nostra veniva soprannominato "lo sbirro", essendo sospettato di mantenere contatti con la Polizia. Che questi contatti ci siano stati o meno non ci è dato saperlo, ma una cosa è certa: sulla base di quanto emerso dal processo appare inconfutabile che, se questi contatti ci furono, non furono certamente con Bruno Contrada. Riccobono non intrattenne mai alcun rapporto amichevole con Contrada, il quale lo perseguitò, anzi, immancabilmente e con particolare accanimento. I fatti, di cui parleremo tra breve, e anche le continue contraddizioni dei "pentiti" dicono questo. Perchè i giudici abbiano deciso diversamente, ad essere sinceri, non lo abbiamo capito.

Gaspare Mutolo, detto Asparino oppure " 'u baruni" (il barone: perchè lui all'eleganza ci ha sempre tenuto), era un bravo picciotto che lavorava come meccanico e che conobbe il carcere per la prima volta già nel 1960, a soli vent'anni: scarcerato nel 1963, divenne uno degli uomini di punta della cosca di Partanna Mondello, capeggiata da Rosario Riccobono, al quale era stato presentato da Totò Riina. Da ladruncolo di periferia Mutolo si trasformò in un provetto killer (è reo confesso di venti omicidi) e si specializzò in traffico di droga. Continuò in altre occasioni a frequentare le patrie galere: nel 1970, come riferisce il capitano dei Carabinieri Luigi Bruno nell'udienza del processo Contrada datata 18 ottobre 1994, Mutolo fu sottoposto a esame caratteriale e perizia psichiatrica da parte dei professori Motta, Biondo, Sottile e Criscuoli, e ad altre perizie psichiatriche fu sottoposto nel 1971 e nel 1982. "Notizie fornite dal Ministero di Grazia e Giustizia" - precisa il capitano Bruno - "ma il Ministero non ci ha fornito gli esiti delle perizie". Tra una perizia psichiatrica e l'altra, Mutolo viene arrestato da Bruno Contrada nel 1976. Successivamente viene indagato per l'omicidio di Santo Inzerillo e condannato a 13 anni di reclusione nell'àmbito del maxiprocesso del 1986. Il 26 giugno 1992 comincia ufficialmente il suo nuovo lavoro di "pentito". Mansione principale: accusare Bruno Contrada, cosa che comincerà a fare nell'ottobre del 1992, ripetendosi, poi, in udienza, fra mille contraddizioni, il 7 giugno 1994, il 12 luglio 1994 e l'1 giugno 1995. L'accusa principale: Mutolo viene a sapere nel 1981 dal suo capofamiglia Rosario Riccobono che Bruno Contrada era passato "a disposizione" della mafia e aveva avuto stretti rapporti con lo stesso Riccobono, con Stefano Bontade e con altri mafiosi, proteggendone la latitanza e facendo loro favori di vario genere.
Proprio in omaggio al mestiere originario di Gaspare Mutolo, ossia il meccanico, cominceremo parlando di pistoni e bielle, ma, prima di aprire il cofano del vano motore e di affrontare nei dettagli l'episodio processuale legato, appunto, alle Alfa Romeo di cui si parla nel titolo di questo capitolo, occorre fare una prolusione.
Si consigliano i sei manzoniani lettori di questo libro di usare questa breve premessa come vademecum per l'analisi di tutte le altre accuse che Mutolo ed altri "pentiti" hanno rivolto a Contrada relativamente alla sua presunta "armonia d'intenti" con Riccobono, accuse che approfondiremo in alcuni dei capitoli seguenti. Per un atto di cortesia nei confronti degli sparuti lettori di cui sopra (e non certo per risparmiare inchiostro), ho ritenuto opportuno fissare questi concetti una volta per tutte, in maniera, spero, sufficientemente icastica, senza bisogno di ripeterli in maniera pedante ad ogni reiterazione dei pensieri e delle parole versate dai "pentiti" sul conto di Contrada e Riccobono.
Scorriamo, dunque, il copione di questa tragedia degli equivoci in due episodi diversi. Uso volutamente il termine "episodio": in molti casi, infatti, questo processo potrebbe essere assimilato ad uno sceneggiato televisivo o ad una telenovela, visti i fantasiosi riferimenti a regine, principi, cavalieri, armi ed amori. Uso volutamente anche il termine "tragedia", ma non mi taccino i lettori di saccenza o di sfoggio di chissà quale cultura se adotto la terminologia legata al canto dei "capri". E mi perdonino Eschilo, Sofocle ed Euripide se adatto la loro legenda (e la loro leggenda...) a scenari meno mitologici. "Episodio", ovvero atto: "stasimo", ovvero canto del coro, che, spesso, nelle tragedie greche rappresentava una sorta di commento alle vicende narrate negli episodi; se il coro interveniva all'interno dell'episodio, anzichè di "stasimo" si parlava di "canto episodico". Vediamo, dunque, nel primo episodio, quali sono le gesta retoriche di Gaspare Mutolo, sia quelle fluenti per casta partenogenesi sia quelle fecondate da domande dei togati astanti, e, nel secondo episodio, quali sono, invece, le parole e i fatti con cui chi ha difeso Bruno Contrada ha puntualmente smentito le fantasiose asseverazioni del "pentito".


I EPISODIO

Titolo: "La versione del 'pentito' Mutolo".
Sottotitolo: "Ode a Tolomeo, ovvero è il Sole che gira intorno alla Terra".
Luogo: l'aula della V sezione penale del Tribunale di Palermo.


Scena I

Data: 7 giugno 1994.

Gaspare Mutolo fa riferimento ad Antonino Porcelli, che oggi, al momento in cui scriviamo, ha 73 anni, è stato ritenuto il successore di Saro Riccobono come capo del mandamento mafioso di Partanna Mondello e per alcuni anni anche componente della commissione di Cosa nostra, e da alcuni giorni (la notizia è del marzo 2007) è libero. Sono scaduti, infatti, i termini di custodia cautelare nell’unico procedimento in cui era detenuto con una misura cautelare, il cosiddetto processo "Tempesta" (in questo procedimento Porcelli è accusato di avere strangolato i fratelli Pedone, spariti nel 1982, ma la sua condanna all’ergastolo fu annullata con rinvio): altre pene definitive comminategli, ammontanti a 70 anni di carcere, sono state scontate simultaneamente (la Corte d’Assise d’Appello ha, infatti, rilevato d’ufficio che le pene per fatti analoghi non si sono sommate fra di loro, ma si sono sovrapposte in sede di esecuzione); le rimanenti pene a suo carico, tra cui l'ergastolo, visto che Porcelli è accusato di essere uno spietato killer vicino ai corleonesi, non sono ancora definitive. A questo va aggiunto che, per alcuni omicidi e per il sequestro Fiorentino, nonostante una condanna a 28 anni, non c’è alcuna misura cautelare. Mutolo narra che, nel 1986, proprio Antonino Porcelli, che era detenuto insieme a lui nel carcere palermitano dell'Ucciardone, gli aveva fatto capire che Bruno Contrada aveva avuto rapporti con Riccobono e gli aveva fatto dei favori. Poi, Mutolo tira in ballo lo stesso Riccobono:

MUTOLO -
"Il problema era nato se a me mi fermavano, insomma, e mi potevano portare in caserma, così, parlando con Rosario Riccobono, insomma, lui mi dice: 'Senti, se ti portano in Questura, non ti preoccupare che c'è il dottore Contrada... Senti, se per caso ti fermano in Questura, vedi che cerca il dottore Contrada. (...) No, no, a me direttamente non mi è capitato mai di chiedere del dottore Contrada perchè io a Palermo ci sono stato poco. (...) Se a me mi portano in Questura io non che ci posso dire a chiunque: me lo chiami il dottore Contrada... Io non è che mi potevo mettere a gridare: Dottore Contradaaa!... Io mi dovevo rivolgere a uno e dire: 'Senta, c'è il dottore Contrada?' "

PM INGROIA - "Ma lei questo lo ha fatto mai?"

MUTOLO - "No, io non l'ho fatto mai."

(...) Mutolo parla quindi di perquisizioni effettuate dalla Polizia a casa sua e a casa di alcuni suoi familiari.

PRESIDENTE INGARGIOLA -
"Dato che il Riccobono le aveva detto quello che lei ha riferito, come mai lei non si rivolse in più occasioni di queste perquisizioni al dottore Contrada?"

MUTOLO - "Le perquisizioni non me le faceva il dottore Contrada e non è venuto a casa mia per farmi le perquisizioni, non è venuto..."

INGROIA - "Però veniva la Squadra Mobile. Quindi lei non ha ritenuto comunque di rivolgersi al dottor Contrada? Nè per le perquisizioni da lei subìte, nè per quelle dei suoi familiari?"

MUTOLO - "No!"

Primo canto episodico

Riccobono avrebbe detto a Mutolo di non preoccuparsi perchè in Questura c'è il dottore Contrada. Ma Mutolo afferma di non aver mai chiesto l'aiuto di Contrada, anche nel caso in cui lui o alcuni suoi familiari "subirono" perquisizioni da parte della Squadra Mobile. E' credibile ritenere che un mafioso sappia di godere di un protettore fra le forze dell'ordine e non lo cerchi mai, neppure nei momenti di bisogno?
Parliamo di Porcelli. Il suo nome figura nel rapporto giudiziario con cui, il 2 dicembre 1974, il capo della Squadra Mobile di Palermo Bruno Contrada denuncia per tentativi di estorsione, oltre allo stesso Antonino Porcelli, anche (guardacaso) Rosario Riccobono, Domenico Troia, Salvatore Micalizzi, Vincenzo Severino e Giacomo Liga. Questo rapporto era stato preceduto da una segnalazione della Squadra Mobile di Palermo, firmata dal dirigente Bruno Contrada in data 10 settembre 1974 e diretta all'Ufficio Misure di Prevenzione della Questura, nella quale Contrada proponeva la misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno ed emissione di ordinanza di custodia precauzionale nei confronti dello stesso Porcelli, di Rosario Riccobono (immancabile) e degli altri mafiosi indicati nel sopracitato rapporto di polizia giudiziaria.


Scena II

Data: 7 giugno 1994.

Mutolo parla della tattica usata dalla mafia intorno alla metà degli anni '70 per fronteggiare l'offensiva delle forze dell'ordine. Mentre i "corleonesi" facenti capo a Totò Riina optavano per la soppressione fisica degli uomini delle istituzioni ritenuti pericolosi, Bontade e Badalamenti imposero temporaneamente una linea più moderata: bisognava prima "avvicinare" gli avversari per cercare di corromperli e soltanto come extrema ratio, in caso di impermeabilità del nemico ad ogni ammorbidimento, si poteva procedere ad eliminare l'avversario.

MUTOLO -
"Che se questi poliziotti non venivano, diciamo, in accordi con ambienti mafiosi, queste persone dovevano essere uccise per come è stato ucciso il dottore Giuliano, perchè il dottore Giuliano è stato ucciso perchè è stato uno diverso dagli altri poliziotti..."


Secondo
canto episodico

Mutolo motiva l'uccisione di Boris Giuliano col fatto che era un poliziotto che aveva dato fastidio alla mafia più di altri. Qualcuno ha usato quest'argomento per accusare Bruno Contrada di non essere morto. Sic. Potremmo, dunque, accusare Antonino Caponnetto di essere morto nel suo letto o Leonardo Guarnotta, Giuseppe Di Lello e gli altri membri dello storico pool antimafia del Tribunale di Palermo di non aver subìto la stessa, tragica sorte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, o di altri magistrati morti per essersi opposti a Cosa Nostra?


Scena III

Data: 7 giugno 1994.

MUTOLO - "Quindi, io ho saputo che una volta che il Riccobono ha dovuto parlare con il dottore Contrada lo ha convocato in un posto... Nell'ufficio dell'avvocato Fileccia. (...) Ma perchè me lo dice a me Riccobono, che è il dottore Contrada, che tramite l'avvocato Inze... tramite l'avvocato Fileccia le fa sapere chi... 'vatinni di 'dda picchì stasira, dumani, hannu a veniri i sbirri (vattene da là, perchè stasera o domani dovranno venire i poliziotti)... Dopo tre volte, possono anche essere quattro volte, che il Riccobono si... non viene catturato, il Riccobono chiede un appuntamento, sempre tramite l'avvocato Fileccia nell'ufficio dell'avvocato Fileccia..."

Mutolo prosegue il suo racconto datando il fatto intorno alla fine degli anni '70, e spiegando che Riccobono aveva necessità di sapere da Contrada chi fosse il delatore che dava informazioni sui suoi nascondigli allo stesso Contrada o alla Polizia in genere. Ma, secondo quanto Mutolo dice di aver appreso da Riccobono, Contrada non vuole fare il nome dell'informatore per non metterne a repentaglio la vita. Mutolo prosegue, orientandosi pian piano verso i "massimi sistemi":

MUTOLO - "Ma io so questo, che quando il dottore Contrada doveva mandare un messaggio a Saro Riccobono avvisava all'avvocato Fileccia e Fileccia ce lo faceva sapere insomma a Saro Riccobono..."

PRESIDENTE INGARGIOLA - "Cioè Contrada avvisava Fileccia e Fileccia avvisava Riccobono?"

MUTOLO - "Sì, sissignore!"

PRESIDENTE INGARGIOLA - "E questo glielo ha detto Riccobono?"

MUTOLO - "Sì, sissignore!"


Terzo
canto episodico

Negli anni in cui incasella nel suo personalissimo domino la tessera che rappresenta il personaggio dell'avvocato Fileccia, ossia la fine degli anni '70, Gaspare Mutolo era in galera. Denunciato e arrestato - provate a indovinare? - da Bruno Contrada.
Ma lasciamo la parola al corifeo di questo canto episodico, che è proprio l'avvocato Cristoforo Fileccia, il quale, nell'udienza dell'11 aprile 1995, dichiara:

AVVOCATO FILECCIA - "Conosco benissimo il dottor Contrada sin dagli inizi degli anni '70. Ma il dottor Contrada non è mai venuto nel mio studio legale per nessun motivo. Escludo, inoltre, tassativamente la possibilità che Contrada e Riccobono si siano incontrati nel mio studio: quando ho saputo di questa dichiarazione di Gaspare Mutolo, ho presentato denunzia. Io non ho mai difeso Rosario Riccobono e non ho mai avuto contatti con lui per altri motivi: Riccobono non si è mai rivolto a me per chiedermi qualcosa che potesse interessare il dottor Contrada o la Polizia. Io non ho mai parlato con il dottor Contrada di Riccobono."

Urgono alcune considerazioni. Il lettore più sospettoso potrà pensare dell'avvocato Fileccia: "Chi glielo fa fare di ammettere che conosceva e frequentava uno come Riccobono?". La risposta è immediata: se veramente Fileccia avesse fatto quello che Mutolo sostiene, si sarebbe reso responsabile di fatti integranti gravi estremi di reato: ma qualcuno ha mai sentito parlare di un processo intentato contro l'avvocato Fileccia? Io no. Secondo quanto affermano gli avvocati Sbacchi e Milio nell'atto di impugnazione in appello della sentenza di condanna di Bruno Contrada in primo grado, "sembra che Fileccia sia stato in effetti indagato per ciò che ha detto Mutolo, ma che l'inchiesta sia stata archiviata".
Se voi sapete qualcosa in più, aiutate il vostro povero cronista disinformato. Altrimenti, resta l'amara considerazione che per lo stesso episodio, ossia il presunto incontro tra Contrada e Riccobono nello studio dell'avvocato Fileccia, quest'ultimo non è stato neppure processato, mentre Contrada è stato condannato a dieci anni di reclusione: con tutta la gioia possibile da parte nostra per lo scampato pericolo da parte di Fileccia (lo diciamo seriamente, senza alcuna ironia), ma sembra che, se le cose stanno davvero così (e pare che non ci siano dubbi, in proposito), i pesi e le misure usate siano stati ben più di due...
Ma c'è una cosa davvero esiziale da sottolineare. Mutolo afferma che Fileccia era il tramite dei rapporti tra Contrada e Riccobono (
"Ma io so questo, che quando il dottore Contrada doveva mandare un messaggio a Saro Riccobono avvisava all'avvocato Fileccia e Fileccia ce lo faceva sapere insomma a Saro Riccobono...", ricordate?): da questo si deduce che Contrada e Riccobono non avevano rapporti diretti. Questo contrasta con tutte le altre dichiarazioni di Mutolo e di qualche altro "pentito" quando costoro parlano di rapporti personali e diretti tra i due: in modo particolare, si realizza una "incongruenza del molteplice" con quanto dichiarato da Spatola, che aveva dichiarato di aver visto, nel 1980, Contrada e Riccobono a pranzo insieme...


Scena IV

Data: 12 luglio 1994. Controinterrogatorio della difesa a Gaspare Mutolo.

MUTOLO - "I favori, almeno che io ho sentito dire, che il dottore Contrada faceva erano quello di... del fatto specifico di Riccobono di avvisarlo quelle volte che ci andava la Polizia per arrestarlo. (...) Che non era soltanto Riccobono che aveva avuto fatti questi favori, ma... anche... di qualche altro favore certamente... guardi i favori che di solito... (...) Io, per quanto concerne, diciamo, Rosario Riccobono, lo so, insomma, almeno perchè me l'ha detto lui, altri favori specifici, io non è che posso dire fatti specifici perchè il Riccobono me ne parlò, se ne parlava così, genericamente... che i favori potevano essere... (...) No, no, io fatti specifici non ne so!"


Quarto
canto episodico

Mutolo rimane sempre nel generico e dichiara di non conoscere fatti specifici. Conosce solo le vaghe parole di Rosario Riccobono, che gli parlava "genericamente" di favori vari. Usa sempre espressioni quali "Riccobono mi disse...", "Riccobono mi raccontò...", "secondo quanto dettomi da Riccobono..." e via citando. Ma Riccobono, morto da parecchi anni, non può nè confermare nè smentire. Durante l'udienza del 7 giugno 1994, alle precise domande degli avvocati di Contrada, Gioacchino Sbacchi e Pietro Milio, nonchè del presidente della Corte, Francesco Ingargiola, Mutolo risponde nell'unica maniera possibile, riconoscendo che nulla sa e nulla può quindi dire su Bruno Contrada per cognizione diretta e personale:


PRESIDENTE INGARGIOLA - "Ma del dottor Contrada, di diretto, che cosa le consta? Direttamente, intendo, quello che consta a lei."

MUTOLO - "A me niente."

PRESIDENTE INGARGIOLA - "Lei che cosa sa del dottor Contrada? Che cosa sa personalmente del dottor Contrada? Direttamente che cosa sa?"

MUTOLO - "Io so del Cancemi Salvatore che ha fatto degli omicidi..."

PRESIDENTE INGARGIOLA - "No, parliamo... Lasci stare il Cancemi... Parliamo di Contrada."

MUTOLO - "Del dottore Contrada io l'ho detto quello che so. E' quello che mi ha riferito il Riccobono Rosario."

E la "convergenza del molteplice"? Riccobono è, ovviamente, morto e dunque impossibilitato a confermare o smentire il suo ex-accolito. Ma è anche vero che, a detta di tanti, lo stesso Riccobono, da vivo, era noto per essere uno che si vantava spesso a sproposito e che ci teneva, al di là di ogni sostanza, a far credere di avere amicizie altolocate. Due vizi tipicamente italici, rectius siciliani.
Come si può facilmente notare, ci sono talmente tanti riscontri oggettivi alle dichiarazioni di Mutolo che si fa davvero fatica ad orientarsi!


Scena V


Mutolo chiama in causa un suo cugino, tale Gaetano Siragusa, figlio di Lucia Ingrassia, sorella della madre dello stesso Mutolo. Siragusa era titolare di un'impresa edile cessata nel 1979 e socio di fatto di Salvatore La Mantia in un'altra impresa edile che costruì condomìni a Palermo in via Ammiraglio Cagni, 23 A-B-C su un terreno venduto a La Mantia da Giuseppe Barone e cessò nel 1978, alla morte dello stesso La Mantia: durante l'iter del fallimento di quest'ultima società, una nota del curatore fallimentare, datata 1984, riporta il trasferimento di un appartamento dello stabile di via Cagni a Raffaela Di Cristina, suocera di Mutolo. Mutolo racconta ai giudici che Siragusa aveva confidato a Bruno Contrada di aver subìto richieste estorsive dalla mafia di Pallavicino e che lo stesso Contrada aveva poi riferito la cosa a Rosario Riccobono.


Quinto canto episodico


E' credibile che un imprenditore edile cugino di un mafioso abbastanza in vista subisca delle richieste estorsive? Forse da qualche "banda" rivale della cosca del cugino, d'accordo. Ma, in quel caso, è credibile che l'imprenditore, per chiedere la protezione del boss Riccobono, non si rivolga direttamente al cugino, che sa certamente come muoversi in quel torbido ambiente e che di Riccobono è uno degli uomini più fidati? Invece, secondo Mutolo, Siragusa si sarebbe rivolto a Contrada per arrivare a Riccobono e poi avrebbe raccontato la cosa anche allo stesso Mutolo: non faceva prima a rivolgersi direttamente a Mutolo?



II EPISODIO


Titolo: "La versione del 'pentito' Mannoia".
Sottotitolo: "Nuova Ode a Tolomeo, ovvero è ancora il Sole che gira intorno alla Terra".
Luogo: l'aula della V sezione penale del Tribunale di Palermo.

Scena unica

Nell'udienza del 29 novembre 1994, Francesco Marino Mannoia racconta che intorno al 1975-1976 lui, Rosario Riccobono, Stefano Giaconia ed altri si riunivano spesso dalle parti di via Ammiraglio Rizzo, a Palermo, perchè avevano dei "compiti di eliminare alcune persone". In una di queste riunioni Mannoia sentì Riccobono e Giaconia parlare di Bruno Contrada: l'argomento della loro conversazione era "che dovevano, il Riccobono in particolare doveva creare un appuntamento col dottore Contrada" ma Mannoia non si interessò di "entrare sullo specifico" per cui non è in grado di dare precisazioni in merito.

PRESIDENTE INGARGIOLA - "Quando ne ha sentito parlare e quante volte e chi era presente ed in che termini parlarono?"

MANNOIA - "Parlavano di Contrada bonariamente, in maniera benevola, diciamo bonaria. Ma non mi ricordo il contenuto esatto di quali interessi vi erano. Di certo mi ricordo che non era nei termini di un pericolo per l'organizzazione stessa."

Analizziamo le parole del "pentito". Mannoia non ricorda i contenuti del discorso, ma ricorda che gli altri mafiosi parlavano di Contrada in maniera "bonaria". Vogliamo sorvolare sul fatto che Giaconia e Riccobono erano già morti da un bel pezzo al tempo di queste dichiarazioni di Mannoia? Vogliamo sorvolare anche sul punto che queste dichiarazioni si concretizzano in una semplice impressione riportata da Mannoia e non in un fatto ben preciso? E, via, vogliamo, infine, sorvolare anche sul fatto che Mannoia operi una vera e propria deduzione, argomentando in maniera del tutto libera che il solo fatto di parlare in maniera "bonaria" di una persona significhi che quella persona debba per forza essere collusa con chi ne parla in cotal guisa? Sorvoliamo pure, in un impeto di magnanimità, su tutte queste stranezze. Ma cosa dire delle ennesime, palesi contraddizioni? Che sarebbero, poi, le seguenti tre:

1.
Gaspare Mutolo, nell'udienza del 7 giugno 1994, aveva dichiarato che "nel 1975 il dottore Contrada era considerato un pericolo per Cosa Nostra, un nemico, un poliziotto da eliminare o assoggettare". Altro che parlare di Contrada "bonariamente"...

2.
Costituisce, inoltre, un fatto certo ed incontrovertibile che dal 10 giugno 1975 al 22 gennaio 1976 Stefano Giaconia non poteva trovarsi in alcuna di queste riunioni in via Ammiraglio Rizzo a Palermo, nè nei pressi, per discutere di Contrada con Riccobono o altri, essendo stato arrestato a Napoli dai Carabinieri, appunto il 10 giugno 1975, ed essendo rimasto a fare il pendolare tra il carcere di Napoli e il manicomio giudiziario di Aversa sino al 22 gennaio 1976. Dal 22 gennaio 1976, data in cui gli fu concessa la libertà provvisoria, al settembre successivo, Giaconia fu sottoposto al soggiorno obbligato in località lontane dalla Sicilia. A maggior ragione gli sarebbe stato difficile partecipare a quelle amene riunioni dal 26 settembre 1976 in poi, dato che quello è il giorno in cui il suo cadavere fu trovato nel territorio di Carini, vicino Palermo. Ne deriva che queste conversazioni tra Riccobono e Giaconia in cui si parlava di Contrada, di "appuntamenti da creare" e in termini benevoli, bonari e bonariamente, devono necessariamente essere avvenute tra la fine di gennaio ed il settembre del 1976, ossia nel periodo del soggiorno obbligato di Giaconia fuori dalla Sicilia, in occasione di qualche permesso concessogli. Non v'è possibilità di essere certi del fatto che a Giaconia
furono accordati dei permessi oppure no, ma, al di là della evidente restrizione temporale che riduce la probabilità che a quelle riunioni Giaconia possa aver realmente partecipato, vi è un altro fatto importante che determina una inevitabile caduta in contraddizione di Mannoia.
Il 27 gennaio 1994 Mannoia aveva dichiarato (e lo ripeterà nell'udienza del 29 novembre dello stesso anno): "Nel 1976 Stefano Giaconia fu ucciso soprattutto per volere del Riccobono, nei cui confronti aveva messo in giro la voce che egli era uno 'sbirro', proprio perchè intratteneva rapporti con il Contrada, e aveva in particolare accusato il Riccobono di essere stato lui a farlo arrestare a Napoli. In quel periodo la decisione di uccidere il Giaconia sembrò a tutti noi giustificata, poichè nessuno poteva credere ad una simile posizione del Riccobono. Successivamente, intorno agli anni 1979-1980, si determinò una situazione di crisi tra Riccobono e Bontade. Quest'ultimo, in questo contesto, più di una volta si lasciò sfuggire, parlando anche davanti a me, che la precedente eliminazione di Giaconia era stata ingiusta, poichè in effetti il Giaconia aveva ragione, le sue accuse a Riccobono di essere uno 'sbirro' erano fondate e che Riccobono era un disonesto".
Stando al racconto di Mannoia, dunque, Giaconia odiava Riccobono in quanto lo considerava un delatore, uno spione e un traditore, e lo riteneva responsabile del suo arresto avvenuto, come abbiamo visto, a Napoli il 10 giugno 1975; dall'altro lato, Riccobono rimase urtato da queste calunnie di Giaconia nei suoi confronti a tal punto da far uccidere lo stesso Giaconia il 26 settembre 1976. Due amiconi. Due buontemponi che, nello stesso momento in cui si odiavano a morte, l'uno perchè considerava l'altro un traditore responsabile del suo arresto e l'altro perchè rimaneva offeso per questa diceria infame, trovavano il tempo per bere un bicchierino assieme e riunirsi per decidere di "eliminare alcune persone" e parlare "bonariamente" di Contrada.
Non sfugge al buon senso del buon pater familias che o Mannoia ha mentito quando ha riferito che Giaconia accusava Riccobono di essere uno "sbirro" o ha mentito quando ha riferito che Giaconia e Riccobono si incontravano "per creare appuntamenti con Contrada" o per "parlare in maniera benevola" del medesimo.

3.
Ma non finisce qui. Nella prosecuzione dell'udienza del 29 novembre 1994, Mannoia cambia le carte in tavola, sostenendo che tra Giaconia e Riccobono non si era parlato di alcun appuntamento con Contrada. Bene. Stavolta non occorre qualche mese per cambiare versione (come accaduto allo stesso Mannoia fra l'aprile del 1993 ed il 27 gennaio 1994, come abbiamo visto nel capitolo dedicato alle "18 semplici domande sul processo Contrada" e come vedremo, in maniera più approfondita, nel capitolo dedicato all'appartamento di via Guido Jung); non occorre neanche il mesetto che è bastato al "pentito" Giuseppe Marchese per cambiare la sua versione sulla fuga di Totò Riina da Borgo Molara. I tempi si restringono: Mannoia cambia e rettifica nel corso della medesima udienza, durante l'esame da parte del presidente della Corte. Vediamo:

MANNOIA - "No appuntamento. Ho sentito parlare questi due nei confronti di Contrada, parlavano di Contrada."

PRESIDENTE INGARGIOLA - "Ma non di creare un appuntamento?"

MANNOIA - "No."

PRESIDENTE INGARGIOLA - "Quindi parlavano di Contrada?"

MANNOIA - "Parlavano di Contrada."

PRESIDENTE INGARGIOLA - "E in che termini ne parlavano?"

MANNOIA - "Parlavano nei termini che adesso non so ricordare, nei termini certamente positivi... positivi per noi... non nei termini di stare attenti a Contrada, nei termini pericolosi, nei termini positivi, ma ecco è difficile purtroppo..."

Messe in luce le contraddizioni in cui è apertamente scivolato (per non dire precipitato) Mannoia, vediamo che idea si sono fatti i giudici della cosa. Tra le pagine 648 e 653 delle motivazioni della sentenza di primo grado, assistiamo ad una sorta di prodigio.
I giudici cominciano, infatti, con lo scrivere:
"Il riferimento agli incontri da creare con il dottore Contrada aveva attinenza ai colloqui tra Bontade e Teresi (di cui parleremo nel capitolo dedicato ai "Presunti rapporti tra Contrada e Bontade", nda) e non anche a quelli tra Riccobono e Giaconia" (pag. 648);
quindi aggiungono:
"Nessun valore può attribuirsi ad una aggettivazione (parlare in termini bonari) che, in assenza di riferimenti ai contenuti dei colloqui intercorsi tra Riccobono e Giaconia, impedisce di effettuare qualsiasi verifica e può far ritenere che la valutazione fatta dal collaborante in termini di atteggiamenti benevoli sia stata frutto di una sua errata interpretazione" (pag. 648);
e aggiungono, ancora:
"Parimenti anche quanto riferito dal Bontade al Mannoia, peraltro con formula dubitativa ("forse, forse") deve ritenersi frutto di considerazioni personali, non ancorato a dati reali o a conoscenze oggettive ma piuttosto scaturenti da una fase di incrinatura dei suoi rapporti con Riccobono" (pag. 652).
A questo punto, ci si aspetterebbe una conclusione che evidenziasse l'inattendibilità di Marino Mannoia. E invece ecco il prodigio di cui si parlava prima, direttamente della penna dei giudici:
"Ritiene il Collegio che il contributo offerto nell'àmbito dell'odierno procedimento da parte del collaboratore Marino Mannoia sia risultato suffragato da una positiva verifica sia sotto l'aspetto dell'attendibilità intrinseca che di quella estrinseca" (pag. 653).
Per dirla con il commendator Gervasio Savastano, ovvero Peppino De Filippo, sarebbe come dire "non è vero ma ci credo". Occorre aggiungere altro?



III EPISODIO


Titolo: "Atti e fatti alla riscossa".
Sottotitolo: "Ode a Copernico e Galileo, ovvero è la Terra che gira intorno al Sole".
Luogo: l'aula della V sezione penale del Tribunale di Palermo.

Scena unica

Bruno Contrada perseguì sempre tenacemente e con particolare accanimento Rosario Riccobono e tutti i suoi accoliti, profondendo un impegno fuori dal comune sia per quanto concerne le indagini che per i servizi predisposti ed attuati ai fini della cattura. Si può tranquillamente affermare, e tutti i colleghi e dipendenti di Contrada lo hanno fatto con decisione, che nessun altro funzionario di Polizia a Palermo abbia dispiegato un tal volume di forze e profuso un impegno così ciclopico contro la cosca di Rosario Riccobono. Ciò è testimoniato da decine e decine di funzionari e agenti di polizia (che hanno testualmente parlato di "impegno eccezionale e straordinario, talvolta addirittura esasperato") ma anche da una lunga serie di rapporti di denuncia. Analizziamo partitamente queste prove testimoniali e documentali, partendo dalle prime.


1. Le testimonianze dei colleghi e dei dipendenti di Bruno Contrada


Tutti i funzionari che costituivano negli anni '70 il nucleo dirigenziale della Polizia Giudiziaria a Palermo sono venuti al processo a testimoniare a favore di Bruno Contrada.

Antonio De Luca - udienza del 28 ottobre 1994
Vittorio Vasquez - udienza del 10 gennaio 1995
Vincenzo Boncoraglio - udienza del 10 gennaio 1995
Vincenzo Speranza - udienza del 13 gennaio 1995
Paolo Moscarelli - udienza del 13 gennaio 1995
Nino Mendolia - udienza del 17 gennaio 1995
Girolamo Di Fazio - udienza del 17 gennaio 1995
Filippo Peritore - udienza del 24 gennaio 1995
Ignazio D'Antone - udienza del 14 luglio 1995

A queste testimonianze va aggiunta quella resa il 16 febbraio 1995 dal generale dei Carabinieri Antonio Subranni, il fondatore del ROS (Raggruppamento Operativo Speciale), già comandante della Compagnia di San Lorenzo, a Palermo, dal 1973 al 1977, il quale ha messo in risalto l'impegno di Bruno Contrada e di tutto il personale della Squadra Mobile di Palermo nell'espletamento delle operazioni di polizia concernenti il gruppo di mafia facente capo a Rosario Riccobono.
Analogamente ai funzionari e ai dirigenti della Squadra Mobile di Palermo, anche tutti i sottufficiali ed agenti loro sottoposti sono venuti in massa a rendere la loro testimonianza a favore di Bruno Contrada. La cosa assume un'importanza ancora maggiore se si tiene presente un particolare. In quanti uffici, se il capo si comporta non correttamente, i subalterni lo odiano ferocemente? Quante volte un fantozziano "grande uff. cav. comm. figl. di putt." che risulti inviso ai suoi dipendenti per via di atteggiamenti e comportamenti non ortodossi viene visto con crescente malanimo o non riceve la collaborazione dovuta, e, soprattutto se cade in disgrazia, riceve quel che ha seminato, cioè odio e derisione? Questo vale soprattutto per un lavoro indubbiamente pericoloso come quello del poliziotto. Pensate che se colleghi o dipendenti di Contrada, che rischiavano la vita in prima persona, avessero anche solo sospettato che il loro capo stesse dalla parte di coloro che erano pronti ad indirizzare contro di loro una o più pallottole, non sarebbero stati i primi a denunciare il capo o, quanto meno, non avrebbero esitato a lesinare la loro collaborazione e, soprattutto dopo l'immeritata caduta di Contrada nella polvere del sospetto e della calunnia, non lo avrebbero per primi ricoperto loro stessi di altra polvere e di altre accuse? Invece è successo l'esatto contrario. E non soltanto in termini di testimonianze favorevoli. Con i miei stessi occhi di cronista presente ad ogni udienza del processo, io per primo ho assistito a delle scene che non esito a definire commoventi. A parte lo slancio con cui gli ex-dipendenti di Contrada hanno deposto a suo favore senza reticenze e senza contraddizioni, portando fatti concreti e non parole, io ho visto che ad ogni udienza del processo, mentre Contrada era detenuto e anche dopo la sua scarcerazione, non è mai mancato, e sottolineo MAI, un nutrito drappello di suoi ex-dipendenti fra il pubblico. Costoro non erano là per assistere ad uno spettacolo, o, peggio, per godersi la gogna del loro vecchio capo. Erano lì per testimoniare in maniera dolorosa, muta, passionale e perciò ancor più forte il loro appoggio a Bruno Contrada. Una sorta di "guardia reale" che con la sola forza dello sguardo e delle vibrazioni dell'animo, non potendo avvicinare il loro capo quando costui era detenuto, erano lì, fermi, incrollabili, orgogliosi, ad inviargli anche soltanto uno sguardo, granitica testimonianza di un sostegno morale e di una solidarietà che è difficile spiegare a parole. Più volte ebbi occasione, non da giornalista ma da amico, di parlare con molti di questi ex-sottufficiali di polizia: ogni volta mi trovai davanti a degli occhi sinceri e a delle attestazioni di affetto e di stima per Contrada che vanno ben al di là del semplice rapporto di lavoro, dense com'erano di una sincerità in cui raramente è dato di imbattersi nel corso della propria vita. La sera della sentenza di condanna di primo grado, il 5 aprile 1996, intorno alle ventuno, dopo aver trasmesso in diretta telefonica il servizio per il telegiornale per il quale lavoravo, mi trovai a scendere per le scale del Palazzo di Giustizia di Palermo insieme a Bruno Contrada, al figlio Guido, agli avvocati Sbacchi e Milio e all'ex-ispettore della Squadra Mobile di Palermo Corrado Catalano. L'atmosfera era pregna di sgomento e costernazione. Scendendo per quelle scale, rese oltremodo ripide dall'ingiustizia appena consumatasi, l'ex-ispettore Catalano, un poliziotto che nella sua carriera ha sostenuto cinque conflitti a fuoco, scoppiò in un pianto dirotto. Piangeva per Bruno Contrada.
Vediamo, dunque, chi sono stati i sottufficiali che hanno testimoniato in massa ricordando sempre e continuamente le insistenze, le sollecitazioni, le esortazioni rivolte a tutto il personale dal loro dirigente Bruno Contrada per non lasciare nulla d'intentato nelle massicce azioni di polizia contro la cosca di Rosario Riccobono:

Santi Donato - udienza del 13 maggio 1994
Biagio Naso - udienza del 13 gennaio 1995
Calogero Buscemi, in servizio alla Criminalpol di Palermo dal 1969, udienza del 20 gennaio 1995

Francesco Belcamino
, in servizio alla Squadra Mobile di Palermo prima presso la Sezione Volanti e poi presso la Sezione Investigativa dal maggio 1972 al settembre 1976, quindi presso la Sezione Omicidi e nuovamente all'Investigativa dal settembre 1979 all'aprile 1984, ricorda nell'udienza del 20 gennaio 1995:

BELCAMINO - "Collaboravamo spesso con la Sezione Catturandi. Cercammo sempre con grandissimo impegno i membri della cosca di Riccobono: Contrada ci spinse sempre in tal senso, mai in senso contrario! Partecipai alla cattura di Michele Micalizzi al Gambero Rosso: io stesso avevo fatto vari appostamenti, anche recandomi spesso a pranzare in quel ristorante. Ed era stato proprio il dottor Contrada a dirmi di appostarmi sempre al Gambero Rosso.

Corrado Catalano - udienza del 20 gennaio 1995

Salvatore Nalbone
, ispettore in servizio alla Sezione Investigativa della Squadra Mobile di Palermo lungo tutto l'arco degli anni '70, dichiara nell'udienza del 20 gennaio 1995:

NALBONE - "Il dottor Contrada non ha mai avuto rapporti con Riccobono, Bontade, Inzerillo o altri mafiosi. Se li perseguitava, come poteva avere per loro un occhio di riguardo? Il dottor Contrada non ha mai chiesto nè a me nè ad altri di intervenire a favore di nessuno di loro."

Guido Paolilli, il poliziotto che, intorno al 1983, arrestò uno dei Madonia nei pressi dell'abitazione di Ninni Cassarà in Viale Croce Rossa a Palermo ("Contrada, all'epoca in servizio presso l'Alto Commissariato Antimafia, si complimentò particolarmente per questo arresto", ricorda Paolilli), e arrestò anche Raffaele Galatolo in Via Don Orione, sempre a Palermo, dopo aver ricordato che "la dirigenza della Mobile da parte di Contrada e di Giuliano è stato il periodo più bello della mia carriera perchè eravamo una famiglia", ha dichiarato nell'udienza del 20 gennaio 1995:

PAOLILLI - "Il dottor Contrada non ha mai favorito nessun mafioso e non ha mai detto a nessuno di usare riguardi con nessun mafioso."

Domenico Colasante - udienza del 31 gennaio 1995
Ottavio Fiorita - udienza del 31 gennaio 1995
Aldo Latino - udienza del 3 febbraio 1995
Giuseppe Curcio - udienza del 7 febbraio 1995
Giovanni Milia - udienza del 7 febbraio 1995
Salvatore Urso - udienza del 7 febbraio 1995
Luigi Alfieri - udienza del 9 febbraio 1995
Francesco Mirenda - udienza del 9 febbraio 1995
Michele Santulli - udienza del 14 febbraio 1995
Paolo Tomeo - udienza del 21 febbraio 1995
Giorgio D'Allura - udienza del 21 febbraio 1995
Benito De Notarpietro - udienza del 21 febbraio 1995
Giuseppe Falcone - udienza del 21 febbraio 1995
Alessandro Guadalupi - udienza del 21 febbraio 1995
Efisio Puddu - udienza del 21 febbraio 1995
Luigi Siracusa - udienza del 7 marzo 1995
Antonino Enia - udienza del 10 marzo 1995
Alessandro Fantini - udienza del 10 marzo 1995
Gaetano Buscemi - udienza del 21 marzo 1995



2. I rapporti di denuncia firmati da Bruno Contrada contro la cosca di Rosario Riccobono


Decine sono i rapporti di denuncia che consacrarono a livello formale la strenua attività investigativa di Contrada contro la cosca di Riccobono. Tra questi rapporti, acquisiti agli atti del processo, è rimasto famoso, in particolare, il rapporto firmato l'8 settembre 1975 da Bruno Contrada in qualità di capo della Squadra Mobile e denominato "Rapporto sulla mafia della costa": in esso Contrada, a seguito di un'intensa attività investigativa, denuncia, per associazione mafiosa, per l'omicidio dell'agente di polizia Gaetano Cappiello, per il tentato omicidio dell'imprenditore Angelo Randazzo, per tentata estorsione aggravata, danneggiamento, porto e detenzione abusiva di armi da fuoco, oltre a Rosario Riccobono, anche Gaspare Mutolo, i fratelli Domenico, Vincenzo, Francesco, Ignazio, Giovanni ed Angelo Graziano, Michele e Salvatore Micalizzi, Antonino Buffa, Salvatore Davì, Giuseppe Galatolo, Giuseppe Greco e altri ancora. Ne parleremo fra breve.
Emerge, in un assoluto ed innegabile risalto, il fatto che nessun altro aggregato mafioso ha formato oggetto di maggiore interesse investigativo da parte di Bruno Contrada, la cui azione contro Riccobono e i suoi tirapiedi è stata tanto costante, tenace, pervicace da apparire addirittura, talvolta, persecutoria. Di tale azione pertinace, ininterrotta e fruttuosa di Contrada e dei suoi uomini contro Riccobono e soci ha parlato, fra le altre decine e decine di funzionari e agenti (che l'hanno definita in unanime coro "un impegno eccezionale e straordinario, a volte quasi esasperato"), anche Guido Longo, ex-capo della Squadra Mobile di Palermo e, all'epoca del processo Contrada, funzionario della DIA. Nell'udienza del 14 ottobre 1994, Longo dichiara:
"La Squadra Mobile di Palermo, diretta dal dottor Contrada dal 1973 al 1976, ha svolto attività di 'pattuglione', con 3 agenti a pattuglia anzichè 2, per la perlustrazione del territorio alla ricerca di Saro Riccobono. Gli atti relativi alla ricerca di Riccobono sono contenuti in un fascicolo denominato "Categoria II" presso la Squadra Mobile di Palermo".
I nomi "Squadra Mobile" e "Criminalpol" evocheranno nel lettore scenari da film di James Bond o da romanzo di Graham Greene: ricordiamo che, in realtà, si trattava di strutture all'epoca poverissime di uomini e di mezzi rispetto alle soverchianti esigenze della lotta al crimine, per cui i poliziotti dell'epoca, dai dirigenti agli agenti, fecero letteralmente dei miracoli. Longo consegnerà il fascicolo "Categoria II" nell'udienza successiva, il 18 ottobre 1994: il fascicolo contiene una cartella relativa alle indagini su Riccobono e alle sue vicende giudiziarie, unitamente ad una cartella che contiene atti relativi alla ricerca di Totò Riina, una cartella riguardante la società immobiliare "San Luca" e un'altra riguardante il condominio di via Guido Jung, 12, a Palermo (di cui parliamo nel capitolo relativo all'appartamento ivi sito).
Analizziamo nel dettaglio alcuni dei rapporti di denuncia redatti e firmati da Bruno Contrada contro Riccobono e i suoi:
  1. segnalazione della Squadra Mobile di Palermo, firmata dal dirigente Bruno Contrada in data 10 settembre 1974 e diretta all'Ufficio Misure di Prevenzione della Questura, nella quale Contrada proponeva la misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno ed emissione di ordinanza di custodia precauzionale nei confronti di Rosario Riccobono, Antonino Porcelli, Domenico Troia, Salvatore Micalizzi (genero di Riccobono), Vincenzo Severino e Giacomo Liga. Sulla base di questa segnalazione, l'Ufficio Misure di Prevenzione della Questura, con proposta n. 90/112230 del 5 gennaio 1975, propone al Tribunale di Palermo l'applicazione a Rosario Riccobono della misura di prevenzione del soggiorno obbligato con emissione di ordinanza di custodia precauzionale;
  2. rapporto giudiziario n. 74 con cui, il 2 dicembre 1974, il capo della Squadra Mobile di Palermo Bruno Contrada denuncia per tentativi di estorsione i medesimi Rosario Riccobono, Antonino Porcelli, Domenico Troia (marito di Antonina Riccobono, sorella di Saro, e dunque cognato di Riccobono), Salvatore Micalizzi, Vincenzo Severino e Giacomo Liga e li accusa di appartenere a gruppi di mafia operanti a Palermo, nella zona tra Partanna Mondello, Pallavicino e Tommaso Natale;
  3. rapporto giudiziario di categoria M1/75 con cui, il 4 luglio 1975, il capo della Squadra Mobile di Palermo Bruno Contrada, per l'omicidio dell'agente della Mobile Gaetano Cappiello, denunzia in stato di arresto Michele Micalizzi e Salvatore Davì e denunzia in stato di irreperibilità Antonino Buffa. Nello stesso rapporto, Contrada evidenzia decisamente gli elementi di prova, acquisiti circa la partecipazione ad associazione per delinquere, a carico di Rosario Riccobono, Gaspare Mutolo e Salvatore Micalizzi;
  4. al rapporto precedente vanno correlati altri tre rapporti firmati da Contrada il 3, il 5 ed il 30 luglio 1975. Questi tre rapporti, unitamente a quello del 4 luglio 1975 di cui sopra, costituiscono la premessa per il "rapporto sulla mafia della Costa" di cui parleremo fra poco;
  5. rapporto giudiziario di categoria M1/75 con cui, il 2 agosto 1975, il capo della Squadra Mobile Bruno Contrada riferisce alla Procura della Repubblica di Palermo gli elementi di responsabilità acquisiti, in ordine all'omicidio di Cosimo Filippone (ucciso il 12 maggio 1975), a carico di Rosario Riccobono, Gaspare Mutolo, Michele Micalizzi, Salvatore Micalizzi, Salvatore Davì e Antonino Buffa;
  6. rapporto giudiziario di categoria M1/75, altresì noto come "Rapporto sulla mafia della costa", con cui, l'8 settembre 1975, il capo della Squadra Mobile Bruno Contrada denuncia Rosario Riccobono, Gaspare Mutolo, Michele Micalizzi, Salvatore Micalizzi, Salvatore Davì e Antonino Buffa come responsabili dell'omicidio dell'agente di polizia Gaetano Cappiello e del tentato omicidio dell'imprenditore Angelo Randazzo e, insieme ai fratelli Domenico, Vincenzo, Francesco, Ignazio, Giovanni ed Angelo Graziano, Giuseppe Galatolo, Giuseppe Greco e altri ancora, come membri di associazione per delinquere di tipo mafioso e, inoltre, per tentata estorsione aggravata, danneggiamento, porto e detenzione abusiva di armi da fuoco. Il processo che seguì vide condanne pesanti, anche se non a carico di tutti i denunciati;
  7. rapporto giudiziario di categoria M1/76 con cui, il 2 agosto 1976, il capo della Squadra Mobile Bruno Contrada denuncia Gaspare Mutolo, già arrestato dagli uomini di Contrada nel maggio dello stesso anno e detenuto per altra causa, quale responsabile di associazione per delinquere di tipo mafioso, tentativo di estorsione in danno di Armando Feo, Diego Serraino, Girolamo Gorgone, Antonino Franzone, Vito Picone, Guido Calefati e Pietro Pisa e per danneggiamenti mediante esplosivo. Col medesimo rapporto Contrada denuncia Rosario Riccobono, Antonino Buffa, Salvatore Micalizzi (già arrestato dagli uomini di Contrada nell'aprile 1976), Michele Micalizzi, Salvatore Davì, Ferdinando Lo Piccolo, Angelo e Giovan Battista Pipitone, Croce e Domenico Simonetta, Giuseppe e Vincenzo Vallelunga, Calogero e Vito Passalacqua, Erasmo Puccio, Gaetano Ferrante e Giovanni Battaglia per concorso negli stessi reati addebitati a Gaspare Mutolo e come componenti di una vasta organizzazione criminale operante a Partanna Mondello e nelle zone comprese tra Capaci, Carini e Cinisi;
A questi rapporti di denuncia (che ebbero risvolti e conseguenze anche di natura processuale e inchiodarono per la prima volta, e con dovizia di prove, molti mafiosi alle loro responsabilità) va aggiunta l'instancabile attività di ricerca di Riccobono e dei suoi da parte della Squadra Mobile diretta da Bruno Contrada tra il 1973 ed il 1976. Soprattutto dopo l'uccisione dell'agente Gaetano Cappiello, Contrada organizza delle squadre speciali per la cattura degli uomini della cosca di Partanna Mondello e non si limita al solo territorio di Palermo: poichè nel 1972 Riccobono era stato inviato al soggiorno obbligato a Casandrino, in provincia di Napoli, ed era stato in seguito sorpreso dai carabinieri a casa del boss della Camorra Lorenzo Nuvoletta, Contrada estende le ricerche anche nel napoletano, dove si sospettava che Riccobono potesse essersi rifugiato. Tutto ciò è stato testimoniato in aula proprio da coloro che parteciparono a queste operazioni. Riccobono non fu mai catturato, ma, anche se l'accusa ha tentato di far valere tale elemento contro Bruno Contrada, questo vuol dire poco: anche Provenzano è rimasto latitante per decenni, senza che nessuno degli investigatori che lo hanno pazientemente e pertinacemente ricercato sia stato accusato di averlo favorito.
Riccobono morirà da latitante, ma l'attività investigativa della Squadra Mobile di Palermo intorno alla metà degli anni '70, oltre a costituire uno dei più grossi sforzi che una struttura tutto sommato povera di uomini e di mezzi in relazione alle esigenze abbia mai compiuto, portò a dei risultati notevoli. Oltre al rinvenimento di armi, ricetrasmittenti e altro materiale, infatti, due furono i grossi colpi messi a segno:

  1. l'arresto di Michele Micalizzi al ristorante Il Gambero Rosso di Mondello, il 17 aprile 1976;
  2. l'arresto di Gaspare Mutolo nello stesso anno. C'è una foto che documenta quest'arresto, foto nella quale Mutolo appare fra due poliziotti e a lato si vedono Boris Giuliano e Bruno Contrada. Mi sia consentito fare un altro appunto agli organi di stampa. Più volte, quando i giornalisti hanno parlato di Gaspare Mutolo, questa foto è apparsa, ma soltanto a metà: non sempre, infatti, è stata evidenziata la presenza di Bruno Contrada. Una presenza fondamentale, in quanto Contrada era capo della Squadra Mobile. Chi ha seguito il processo o ricorda i fatti sa benissimo tutto questo, ma la gran parte dell'opinione pubblica non lo sa: vedere Contrada accanto a Mutolo in manette è invece un'immagine suggestiva, nel senso che suggerisce in maniera visiva e perciò evidente ed immediata il rapporto di antagonismo fra i due e l'attività persecutoria di Contrada nei confronti della cosca di Riccobono. In cotal guisa, anche coloro che non si sono mai avventurati fra le sudate carte processuali, ma conoscono il fatto che Mutolo sia uno dei grandi accusatori di Contrada, potrebbero rendersi conto in maniera icastica e incontrovertibile del fatto che Mutolo avesse dei motivi per vendicarsi di Contrada. Quando si dice che un'immagine vale più di mille parole...

Questa imponente attività investigativa e operativa è stata realizzata dalla Squadra Mobile di Palermo tra il 1974 ed il 1976, sotto la dirigenza di Bruno Contrada. E contraddice in maniera palese le dichiarazioni circa la presunta amicizia tra Contrada e Riccobono rilasciate dal "pentito" Gaspare Mutolo, ma anche dal "pentito" Salvatore Cancemi. Quando, infatti, Cancemi afferma che proprio intorno alla metà degli anni '70 "il dottore Contrada era persona molto vicina a Riccobono, era 'nelle mani' di Riccobono" (udienza del 28 aprile 1994) dimentica (e, del resto, non poteva esserne a conoscenza) che esistono questi atti di polizia giudiziaria che testimoniano chiaramente lo strenuo impegno di Contrada contro la cosca di Rosario Riccobono. L'ineffabile Mutolo ha, in verità, cercato di erodere, quale corrosiva ruggine, il possente macchinario investigativo usato da Contrada contro l'allegra brigata Riccobono e l'altrettanto monumentale muro difensivo eretto a protezione di quel macchinario dalle decine e decine di testimoni che hanno confermato come Contrada non ci dormisse la notte pur di catturare il pericoloso e sanguinario Rosario. Sì, Mutolo ci ha provato. Sempre nell'udienza del 7 giugno 1994. Con il seguente sintagma:

MUTOLO -
"Perchè io capisco che io che è a capo di ufficio deve firmare, cioè non è insomma che l'indagine al limita la fa lui, lui semmai scrive, firma e nemmeno sa che cosa sta firmando, insomma no..."

Perfetto. Dopo i mafiosi "artisti" (ricordate i quadri di Luciano Liggio?) ci mancavano anche i "pentiti" esegeti delle funzioni di un pubblico ufficiale ed esperti di come esse si espletano. Ma da parte della pubblica accusa c'è stato anche il tentativo di sviluppare un corollario a questo euclideo teorema di Gaspare Mutolo, sostenendo che, d'accordo, è innegabile che Contrada abbia perseguito Riccobono e i suoi adepti ("eppur si muove..."), ma è anche innegabile che, in realtà, lo stesso Contrada non abbia mai catturato don Saro.
Non possiamo commentare l'assurdo. Se il malato di cancro muore, il medico che abbia svolto coscienziosamente il suo dovere non può essere accusato di nulla. Allora, se lo sforzo d'immaginazione dei pubblici ministeri ha un fondamento tra i pascoli della logica e due più due deve continuare a fare quattro, mettiamo sotto accusa le centinaia di poliziotti, carabinieri, guardie di finanza e così via, che per quarant'anni hanno cercato attivamente Bernardo Provenzano e non sono riusciti ad acciuffarlo: salviamo soltanto il gruppo di coloro che lo hanno catturato. Lo stesso vale per Totò Riina e tutti i pluridecennali latitanti di Cosa Nostra. E alla sbarra devono andare anche l'intero esercito americano, i suoi soldati, i suoi ufficiali, i suoi generali e, via via salendo di gerarchia, i vari membri dell'amministrazione Bush che, poverini, da anni si affannano a cercare Osama Bin Laden ma, al momento in cui scriviamo, non lo hanno ancora beccato...
Ma, se Mutolo cerca di tirare acqua al proprio mulino, e la cosa appare oggettivamente comprensibile, quello che stupisce di più è ciò che i giudici di primo grado hanno scritto in proposito nelle motivazioni della sentenza di condanna. A pagina 745 delle motivazioni si legge, infatti:
"D'altra parte, deve considerarsi che, per il ruolo di grande prestigio ricoperto, il dottore Contrada, all'epoca dirigente della Squadra Mobile, non solo non poteva rischiare di ingenerare sospetti presso i suoi superiori e i propri collaboratori, ma doveva mantenere un'immagine di funzionario impegnato nella lotta ai mafiosi anche per conservare un ruolo di centralità che gli consentisse di rimanere al centro del flusso delle informazioni 'importanti'. Certo, è impensabile che un dirigente di tale livello potesse omettere rapporti di denuncia per favorire i mafiosi, tanto più se necessitati da spunti investigativi e da operazioni condotte personalmente da altri funzionari, perchè un tale atteggiamento avrebbe immediatamente svelato il proprio doppio ruolo; ciò che l'organizzazione criminale poteva pretendere era, piuttosto, una 'copertura' delle latitanze dei personaggi più importanti... il passaggio di notizie funzionali a limitare i danni".
Proviamo a tradurre in parole povere: Bruno Contrada, in definitiva, avrebbe pòsto in essere azioni contro i mafiosi per meglio favorire i mafiosi stessi. Un ossimoro. Una contraddictio in terminis che sfugge anche ai più giganteschi sforzi di comprensione. Due più due può fare cinque, e per fortuna che il buon Fibonacci ha stabilito l'entità dello zero. Poniamoci, dunque, delle domande e facciamo delle considerazioni:
  1. se Contrada ha scritto quei rapporti di denuncia e rimane comunque accusato di aver favorito i mafiosi che ha denunciato, se non avesse fatto quei rapporti cosa gli sarebbe toccato di sentirsi dire? Che era una specie di fratello siamese di Riccobono?
  2. Se un giudice può scrivere certe cose in una sentenza, appare, evidentemente, inutile, in un processo, addurre a propria difesa di aver agito bene. Forse conviene accettare le accuse quale apodittica asserzione di verità inconfutabili;
  3. ancora una volta dovremmo trovarci a constatare l'insipienza (o peggio) di centinaia e centinaia di funzionari, superiori, colleghi o subordinati di Contrada, appartenenti sia alla Polizia di Stato che ai Carabinieri e alla Guardia di Finanza, nonchè dei magistrati inquirenti e giudicanti di quegli anni, nessuno dei quali si è mai accorto del diabolico "doppio gioco" del loro abilissimo collega. Per la verità, è stato detto che qualcuno di loro se ne sarebbe accorto: Vincenzo Immordino, Boris Giuliano, Ninni Cassarà e Giuseppe Montana. Ma, guardacaso, costoro sono tutti morti e non possono confermare di "aver capito" oppure smentire ciò che altri hanno attribuito ai loro spiriti. "Se ne vanno sempre i migliori", come si suol dire, e, davvero, non si può dubitare neppure per un istante dell'assoluta integrità e valenza dei poliziotti appena nominati: ma non per questo si può ammettere, in un gioco di deduzioni impazzite, che tutti i loro colleghi fossero praticamente degli imbecilli senza occhi e senza orecchie.



2. Premessa automobilistica (valida soltanto per questo capitolo)










Le due vetture nelle foto (una Giulietta 1600 a sinistra ed un'Alfasud a destra) non hanno nulla a che fare con le
auto del medesimo modello di cui si parla nel processo Contrada.


Telai e scocche pericolose. L'Alfa Romeo, glorioso marchio italiano, con un passato anche in Formula 1, oggetto del desiderio. L'automobile che è stata uno dei vanti dell'industria italiana (la Giulia TI è stata la prima macchina figlia della rivoluzionaria concezione aerodinamica partorita nella cosiddetta "galleria del vento"); una delle occasioni perdute per un reale sviluppo industriale del Mezzogiorno (all'epoca della nascita del modello denominato Alfasud, in quanto interamente prodotto ed assemblato nello stabilimento di Pomigliano d'Arco, in Campania, che non ebbe grandissimo successo e oggi è diventata un'auto per sporadici nostalgici e il simbolo dell'emigrante meridionale in Germania, così come è stato immortalato da Carlo Verdone in Bianco, Rosso e Verdone); uno dei fiaschi più colossali della storia delle quattro ruote nel caso di quello strano parto di un'improbabile joint-venture italo-nipponica che fu l'Arna, di cui oggi tutti si ricordano ancor meno di quanto riescano a ricordarsi dei capelli di Yul Brynner; l'auto simbolo della Polizia, dei Carabinieri e della Guardia di Finanza (prima che parte delle forze dell'ordine si orientasse verso il mercato automobilistico giapponese); l'auto, di conseguenza, diventata una delle icone della famosa serie di film "spara e uccidi" degli anni '70 a base di giustizieri, inseguimenti e carneficine (ricordate Maurizio Merli, Franco Nero, Franco Gasparri, Henry Silva, Tomas Milian e, soprattutto, le musiche di Luis Bacalov e degli Osanna?); l'auto che, però, nei primi anni '60, è stata, purtroppo, anche il triste simbolo della prima guerra di mafia (erano le Giulietta ad essere imbottite di tritolo e a saltare in aria, come nella strage di Ciaculli o per l'omicidio di Cesare Manzella).
Questa automobile, che, nel bene e nel male, dunque, è stata un simbolo del costume del Bel Paese ed è stata protagonista di tanti film, entra anche in quel film che è stato il processo Contrada. Film drammatico, ovviamente. Ma con spunti di comicità assolutamente tragica. Come sostiene lo stesso Contrada, in un'intervista rilasciata a Cristiano Lovatelli Ravarino: "... Comunque al processo sembrava un film di Ridolini, se non fossero sequenze tragiche sulla mia pelle: 'Ma allora lei cosa sa di inconfessabile sull'agguato a suo marito?' - 'Io?? Nulla!!" - "Ma allora cos'è che il dottore Contrada le avrebbe intimato di non rivelare?" - "Ah, questo poi... non lo so!". La citazione è relativa alla deposizione di Gilda Ziino sull'omicidio del marito, Roberto Parisi, ucciso dalla mafia nel 1985. Ne parliamo nel capitolo specificatamente dedicato alla vicenda.
Ma torniamo alle automobili.




3. L'ACCUSA



Nel Natale del 1981, secondo il "pentito" Gaspare Mutolo, il suo capofamiglia Rosario Riccobono detrae dalla cassa comune della cosca quindici milioni di lire e li regala a Bruno Contrada, probabilmente per acquistare un'automobile per una sua amica.
Sentiamo cosa dice lo stesso Mutolo, nel suo italiano che definire nullo è un eufemismo, nell'udienza del 7 giugno 1994:
"Cioè, non è che glieli ha dati a lui. Cioè, hanno servito a lui per comprarci un'Alfa a una donna che era in rapporti con il dottore Contrada... Che lui mi disse, dice, quindici milioni sono stati usciti perchè si è dovuto comprare un'Alfa per una donna, insomma p'a 'nnamurata (per l'innamorata) del dottore Contrada... Che lui, Riccobono, mi dice che era uscito i quindici milioni... Io non è che sto dicendo che i quindici milioni ce li ha dati al dottore Contrada... io gli ho detto che i quindici milioni servivano per la donna del dottore Contrada, dopo come ci hanno fatto avere io non lo so, non è che ho detto insomma... Tra i vari conti si è trattenuto quindici milioni che aveva uscito...".
Un accademico della Crusca. In quanto al lessico. Un seguace di Aristotele in quanto a logica. E' sulla base di siffatti stupri della lingua italiana, e di concomitanti attentati ad ogni legge della logica o della coordinazione spazio-temporale fra gli eventi, che Bruno Contrada ha subìto quindici anni di processo e la condanna a dieci anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa...
Mutolo non riesce ad indicare l'automobile. Non sa chi ha consegnato i quindici milioni. Non sa se tale somma sia stata consegnata direttamente a Contrada o alla sua amica. Non sa se Riccobono provvide di persona all'acquisto dell'auto. Le indagini si orientano sulla concessionaria Alfa Romeo di Lillo Adamo (già titolare della "Sicilauto", con la quale vendeva sempre Alfa Romeo), concessionaria dove, come ricorda il capitano dei Carabinieri Luigi Bruno nell'udienza del 18 ottobre 1994, "era solito comprare le macchine Riccobono". Gli inquirenti, come ricordato sempre dal capitano Bruno nella sopracitata udienza, focalizzano la loro attenzione su tre Alfa Romeo, acquistate proprio presso la concessionaria Adamo tra il 1981 ed il 1982:
  1. una Giulietta 1600, targata PA 611834, acquistata nel giugno 1981 da Giovanni Stagnitta, titolare della Ideal Caffè di Palermo, ed intestata a Rosa Borruso, moglie di Augusto Stagnitta. Il 9 giugno 1986 la vettura verrà intestata a quest'ultimo;
  2. e un'Alfasud targata BZ 339156, acquistata nel giugno 1982, di proprietà di Monica Fischer Von Poturzyn, austriaca di origine ma residente a Merano. E' lei la donna che gli inquirenti avevano ritenuto di poter identificare come " 'a 'nnamurata del dottore Contrada";
  3. un'altra Alfa Romeo acquistata nel giugno 1982 da Antonella Ingoglia Conciauro.
Ancora il capitano Bruno nella medesima udienza, ricorda che "proprio su questa auto la signora Fischer fu vista in compagnia del mafioso Salvatore Di Gangi, membro della commissione provinciale di Agrigento". Ma, decisamente, Contrada non può essere ritenuto responsabile delle "frequentazioni pericolose" di frau Fischer. Stai a vedere che adesso Contrada è responsabile anche delle amicizie dei suoi amici...



4. LA DIFESA



a. Le dichiarazioni del capitano dei Carabinieri Luigi Bruno



Nell'udienza del 21 ottobre 1994, il capitano Bruno dichiara:
"Non risulta che Bruno Contrada, o suoi familiari o suoi amici dichiarati, abbiano acquistato Alfa Romeo tra il 1981 ed il 1982".
Il capitano Bruno entra quindi nel dettaglio: "abbiamo fatto accertamenti" - dice - "sui nomi degli acquirenti delle vetture in esame, controllando i registri di vendita della concessionaria e le fatture emesse. Abbiamo cercato anche di appurare se tali nomi risultassero per qualunque motivo su una delle agende del dottor Contrada".
Dai registri di vendita della concessionaria di Adamo risulta che:
  1. la Giulietta 1600 fu acquistata nel 1981 per un prezzo che si aggira intorno ai 9-10 milioni di lire, con pagamento in due rate (la prima di 500.000 lire, pagate in contanti il 19 maggio 1981, la seconda di 8.000.000 di lire, pagate in contanti l'8 giugno 1981) e permuta, come abbiamo detto prima, di una vettura di Augusto Stagnitta, non di Giovanni. Tale vettura verrà poi rivenduta da Lillo Adamo ad un certo Profuso.
  2. l'Alfasud fu acquistata nel 1982 per 7 milioni di lire, con deposito cauzionale in banca e pagamento in 3 rate: 1.387.000 lire pagate in contanti il 27 maggio 1982, 2.315.000 lire in assegni emessi il 15 giugno 1982, 4.390.000 lire pagate in contanti il 22 giugno 1982. La fattura fu emessa il 24 giugno 1982: il prezzo totale risulta essere di 8.101.000 lire e non corrisponde alla somma di 15 milioni di cui parla Gaspare Mutolo. In ogni caso, come testimoniato nell'udienza del 24 marzo 1995 dalla stessa Monica Fischer e da Mario Santangelo (che era suo convivente già prima del 1981), nonchè dai loro amici Domenico Nicola Marcenò (udienza del 7 luglio 1995) e Renato Di Falco (udienza del 18 settembre 1995), la Fischer e Santangelo hanno provato di aver acquistato la loro Alfasud con danaro proprio e con alcuni prestiti loro concessi dagli stessi Marcenò e Di Falco. "Di un'Alfa Romeo si occupò il mio convivente nel 1982" - racconta Monica Fischer il 24 marzo 1995 - "Io ho deposto presso la DIA provando di aver avuto i mezzi economici per acquistare l'auto. Ho comprato quest'auto con soldi miei e con assegni datimi da due amici, Renato Di Falco e Domenico Marcenò, fino all'ultima lira". "Prestai denaro alla Fischer e a Santangelo per comprare un'auto" - ha dichiarato Renato Di Falco il 18 settembre 1995 - "una cifra da un milione e mezzo di lire a due milioni, e staccai un assegno. Poi loro mi restituirono i soldi tramite assegno. Posso documentarlo con la matrice dell'assegno, tratto sul Banco di Sicilia". Il miglior commento possibile a tutta la vicenda lo forniscono gli avvocati Sbacchi e Milio nell'atto di impugnazione in appello della sentenza di primo grado: "Non accettare una così esauriente ricostruzione dei fatti, aderente in pieno alla realtà e alla verità" - scrivono i legali - "significa soltanto non voler ammettere, anche dinanzi all'evidenza, che il 'pentito' ha detto cosa non vera".
  3. Antonella Ingoglia Conciauro non risulta nei registri di vendita della concessionaria di Calogero Adamo e non è stata neppure chiamata a testimoniare al processo. Il Tribunale si è limitato a recepire un'informazione fornita dal capitano Bruno. Ma non è emerso nulla di sospetto. Peraltro, come abbiamo già detto, anche questo acquisto, come quello della Fischer, è stato effettuato nel giugno 1982.
Mutolo ricorda che la generosa elargizione di quindici milioni sarebbe stata fatta da Riccobono a Contrada nel periodo delle festività natalizie del 1981, ossia a dicembre. Come si evince dai dati, la Giulietta 1600 fu acquistata da Giovanni Stagnitta nel giugno del 1981, ossia SEI MESI PRIMA del Natale 1981, mentre la Fischer acquistò la sua Alfasud nel giugno 1982, ossia BEN SEI MESI DOPO il Natale 1981, e anche la Conciauro acquistò la sua Alfa Romeo nel giugno del 1982, ossia, anche in questo caso, BEN SEI MESI DOPO il Natale 1981.

Sulle agende di Contrada risultano appuntati, ma per motivi che nulla hanno a che fare con le automobili in questione, i nomi di Ignazio Stagnitta (dunque non quello di Augusto e neppure di Giovanni: Ignazio Stagnitta è fratello di Augusto), di Monica Fischer e dei coniugi Conciauro;
  1. Ignazio Stagnitta, come abbiamo visto, non c'entra nulla con l'acquisto della Giulietta 1600: è soltanto il fratello di Augusto, ossia di colui a cui la vettura verrà intestata nel 1986. Forse gli inquirenti hanno pensato di poter risalire a Contrada tramite Ignazio Stagnitta, partendo dal fatto che la famiglia Stagnitta (ma non Ignazio) aveva avuto a che fare con la concessionaria di Calogero Adamo. Ebbene, Contrada conosceva Ignazio Stagnitta e non ne ha mai fatto mistero. Nell'udienza del 15 novembre 1994, lui stesso dichiara: "Ho conosciuto Ignazio Stagnitta alla fine degli anni '60. Siamo amici di famiglia. E' sposato con Maria Nunzia Tarantino e ha tre figlie. Ricordo che abitava in una villa in collina dalle parti della circonvallazione, in via Gioè, e poi aveva una villa a Mongerbino, vicino Palermo. Ho più volte incontrato la signora quando andava a Roma, in compagnia delle figlie, per controlli medici relativi ad un sospetto tumore: in quelle occasioni abbiamo più volte pranzato insieme". Contrada prosegue spiegando un'annotazione relativa agli Stagnitta trovata sulla sua agenda: "25 aprile 1989: 'Da Stagnitta al porto'." - dice - "La signora Maria Nunzia ha un bar al porto dove io mi fermavo spesso: quella volta credo che parlammo di problemi relativi alla sua licenza". Il tutto viene confermato dallo stesso Ignazio Stagnitta nell'udienza del 28 marzo 1995. Contrada aggiunge anche di aver conosciuto Augusto Stagnitta, morto nel 1992. Tirando le somme, l'ex-capo della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo conosceva gli Stagnitta, persone onestissime che hanno semplicemente acquistato un'automobile: nulla di strano nè nulla di misterioso in ciò, ovviamente, ma, in ogni caso, Contrada con l'Alfa degli Stagnitta non c'entra assolutamente nulla;
  2. Contrada conosceva già da molti anni i coniugi Conciauro. Era dunque logico che sulle sue agende ci fossero annotazioni ad essi relative;
  3. Contrada conosceva indubbiamente anche Monica Fischer e anche questo non lo ha mai nascosto. E' lui stesso, ancora nell'udienza del 15 novembre 1994, a dichiararlo: "Conobbi Monica Fischer all'inizio degli anni '70" - dice - "quando era direttrice del villaggio turistico 'Città del Mare' di Terrasini, vicino Palermo. Non mi ricordo esattamente se conobbi la Fischer quando, una volta, mi recai in questo villaggio, insieme ai Carabinieri di Partinico, per indagare su una rapina, oppure se la Fischer mi fu presentata dal dottor Camillo Albegiani in quanto era amica della moglie, che era austriaca proprio come la Fischer". Ciò è stato confermato dallo stesso Albegiani nell'udienza del 24 luglio 1995, e ancor prima era stato ribadito dalla stessa Fischer: "Sono in Italia dal 1947, ossia da quando avevo dieci anni" - ricorda Monica Fischer nell'udienza del 24 marzo 1995 - "Ho sempre lavorato nel settore turistico. Dal 1977 ho fatto parte della cooperativa turistica 'I Tre Golfi' di Palermo. Ho conosciuto Bruno Contrada, non ricordo se tramite qualche funzionario della Questura di Palermo, dove mi recavo spesso per il permesso di soggiorno, in quanto io sono austriaca. Non ho mai rinnegato la mia amicizia con Contrada. Nel primo colloquio con la DIA, il mio avvocato, Gaeta, cui avevo dato mandato in quanto non ero potuta venire personalmente da Merano, forse ebbe a dire che io non conoscevo Contrada. Non è vero. Non ho mai negato di conoscere Contrada e non ho mai dato incarico a nessuno di dire una cosa del genere".
Dalle agende di Contrada risulta che, dal 1976 al 1992, i contatti con la Fischer sono stati limitati a due telefonate nel 1976, una telefonata nel 1979, due telefonate nel 1981, una telefonata nel 1982, un incontro occasionale nel 1988, un incontro a Roma nel 1991. Un po' poco per tenere in piedi una relazione sentimentale. In ogni caso, che Monica Fischer Von Poturzyn fosse o meno l'amante di Bruno Contrada o abbia avuto incontri galanti con lui, poco importa e men che meno potrebbe mai costituire un capo d'accusa. A meno che non si faccia del gossip. Mi ricordo la signora Fischer in udienza: leggermente attempata, ma una bella donna, certamente ancor più piacente con una quindicina di anni in meno. Almeno in questo caso, i "pentiti" hanno trattato bene Bruno Contrada: ad Andreotti, sempre secondo i "pentiti", sarebbe toccato di baciare Totò Riina...


b. Le dichiarazioni di Calogero "Lillo" Adamo



Nell'udienza del 25 ottobre 1994, il concessionario Alfa Romeo ed ex-titolare della "Sicilauto" dichiara: "Nel giugno 1981 ho venduto una Volkswagen Golf D, targata PA 630617, a Rosalia Vitamia, moglie di Riccobono. Il 13 novembre 1981 ho venduto una FIAT 127, targata PA 630526, a Margherita Greco, madre di Riccobono. Il 3 dicembre 1981 ho venduto un'altra auto alla signora Greco. Ma il tutto l'ho fatto attraverso accordi normali fra concessionari". Ma, soprattutto, Adamo dichiara:
"Conosco Bruno Contrada ma lui non è mai venuto a raccomandare nessuno nè a perorare l'acquisto di auto per nessuno, neppure per la signora Fischer".
Poi aggiunge:
"Non ho mai visto Contrada insieme a Riccobono".
Durante la deposizione, Adamo ricorda anche di aver subìto nel 1975 un attentato a scopo estorsivo nella sua villa di Mondello. Il 23 agosto 1975 Contrada, capo della Squadra Mobile, firma un rapporto in cui denuncia per tale attentato Angelo Graziano e Salvatore Cocuzza: secondo il "pentito" Gaspare Mutolo, Graziano, proprio in quel periodo, avrebbe regalato un appartamento a Contrada (forse proprio per ringraziarlo di averlo arrestato e di averlo anche denunciato in precedenza, insieme ai suoi cinque fratelli, nel "Rapporto sulla mafia della costa"...); il secondo, Cocuzza, dopo che le dichiarazioni del "pentito" Rosario Spatola sulla presunta cena fra Contrada e Riccobono al "Delfino" di Sferracavallo erano risultate prive di ogni fondamento, sarebbe, guarda caso, intervenuto a dire che, invece, Contrada si incontrava con Riccobono sempre a Sferracavallo ma all'imbarcadero...

Per completezza, ricordiamo che il 18 settembre 1995 è stato chiamato a testimoniare anche un altro concessionario Alfa Romeo di Palermo, ossia Gaspare Bazan. "Non conosco Bruno Contrada" - ha detto Bazan, che fu titolare di una concessionaria del Biscione tra il 1974 e il 1982 - "Io mi occupavo direttamente delle vendite, o comunque ne venivo sempre a conoscenza. Non ricordo nulla circa un acquisto da parte della signora Fischer".




5. SFIDA AL LETTORE



Babbo Natale è impazzito. Quindici milioni che, sulla base delle semplici e sgrammaticate parole del "pentito", sarebbero stati pagati da Riccobono al medesimo Contrada che gli dava una caccia spietata, caccia dimostrata, invece, da atti e rapporti ufficiali? Se questa regalìa avesse dovuto verificarsi sùbito dopo Natale, il giorno dell'Epifania, Riccobono avrebbe dovuto far trovare nella calza a Contrada un bel pezzo di carbone...
Certo, Riccobono doveva fidarsi veramente tanto dei suoi uomini per affidare a uno di loro una somma di denaro da consegnare ad uno "sbirro", per quanto quest'ultimo potesse essere da lui ritenuto un "amico". Non faceva prima a regalare a Contrada direttamente l'automobile, magari facendogliela trovare infiocchettata da qualche parte? Una modalità di donazione che gli avrebbe consentito di fare questo omaggio più segretamente. D'altra parte, come ricordato dal capitano Bruno, Riccobono era solito comprare automobili da Lillo Adamo: dunque, una più una meno... Ma, forse, come potrebbe opinare il malpensante, Riccobono voleva vantarsi di questa amicizia altolocata e far sapere ai suoi uomini che un poliziotto era amico suo. Forse. In ogni caso, lasciare in giro una cospicua somma di danaro risulta quanto meno più aleatorio, se non proprio più pericoloso, che non acquistare a proprio nome (o, ripetiamo, nascondendosi dietro un prestanome) un'automobile e poi farne ciò che si vuole senza che nessuno, neanche uno dei propri sgherri, ne sappia niente. Non sarebbe stata la prima volta che un subordinato tradisce il proprio capo.

Lillo Adamo, il concessionario Alfa Romeo, ha ammesso in udienza di aver venduto automobili a Saro Riccobono e a suoi familiari, ma anche a Gaspare Mutolo, Stefano Bontade e Francesco Marino Mannoia. Un fior fiore di clientela, non c'è dubbio, e, d'altra parte, quanti a Palermo potrebbero negare di aver venduto qualcosa, da una casa ad un panino con le panelle, a personaggi del genere? Ma perchè, dopo aver ammesso di aver avuto questo tipo di rapporti commerciali con "uomini d'onore" di quel calibro (cosa per la quale non ha avuto, peraltro, conseguenze penali), Adamo avrebbe dovuto negare o aver timore di riferire di aver venduto automobili anche a un poliziotto conosciuto e stimato come Bruno Contrada?

Oltre a questo, visto che Lillo Adamo ha ammesso di aver venduto automobili in particolare a Saro Riccobono, gli avvocati di Contrada, Gioacchino Sbacchi e Pietro Milio, affermano, nel ricorso in appello: "Da tutte le risultanze processuali è emersa la natura menzognera e calunniosa della propalazione dl pentito. Il suo non è stato un racconto poco dettagliato, ma una vera e propria calunnia, probabilmente congetturata e costruita su un nucleo di verità, così come di solito avviene in materia di calunnia: il nucleo di verità sarebbe dato dal fatto che Mutolo era a conoscenza del fatto che, tra giugno e novembre 1981, e quindi prima delle feste natalizie del 1981, Rosario Riccobono aveva versato, in contanti, al concessionario Alfa Romeo Calogero Adamo la somma di quindici milioni di lire circa per l'acquisto di due autovetture, una per la madre e l'altra per la moglie".
Abbiamo già visto prima che Adamo aveva raccontato in udienza di aver venduto un'automobile a Rosalia Vitamia, moglie di Riccobono, nel giugno 1981, un'altra automobile a Margherita Greco, madre di Riccobono, il 13 novembre 1981, e addirittura una terza automobile alla stessa signora Greco il 3 dicembre 1981.

In ogni caso, e questo taglia la testa al proverbiale toro, gli inquirenti hanno trovato i legittimi proprietari delle due auto messe sotto inchiesta e hanno ricostruito con dovizia di particolari tutta la "storia" dei pagamenti effettuati per l'acquisto delle due vetture. Contanti, assegni, date, fatture, provenienza del denaro. Bruno Contrada non c'entra nulla con l'acquisto delle due auto in esame, nè sono state mai indicate da nessuno altre auto che potrebbero fare al caso delle dichiarazioni del "pentito" Mutolo.

Nonostante tutto ciò che abbiamo analizzato (e che risulta dagli atti processuali, non certo da un trip andato a male), nella sentenza di primo grado si sostiene che l'Alfasud acquistata da Monica Fischer sia l'automobile di cui parla Gaspare Mutolo...
Queste sono le parole vergate dai giudici a proposito della vicenda delle Alfa Romeo nelle motivazioni della sentenza di condanna di primo grado, per l'esattezza a pagina 525:
"I suddetti fatti oggettivi e riscontrati, pur non essendo stati sufficienti alla sicura identificazione della destinataria dell'autovettura, costituiscono elementi indiretti di concordanza con il racconto, invero poco dettagliato, del Mutolo sull'episodio in oggetto".
Che significa? Se si ammette che i fatti riscontrati non sono stati sufficienti per identificare con certezza l'auto incriminata, come possono questi fatti riscontrati costituire "elementi indiretti di concordanza" con il racconto di Gaspare Mutolo, peraltro giudicato "poco dettagliato"? E poi, che cosa vuol dire "elementi indiretti di concordanza"? La legge non richiede "riscontri oggettivi" che siano, invece, "diretti" ed inequivocabili ? Si può multare un automobilista perchè è passato "indirettamente" col rosso? Oppure si può condannare un ladro perchè ha svaligiato "indirettamente" una banca?
La risposta è affidata all'avvocato Sbacchi e all'avvocato Milio, che, nel ricorso in appello, dopo aver descritto la vicenda e tutte le testimonianze relative, scrivono testualmente: "Non accettare una così esauriente ricostruzione dei fatti, aderente in pieno alla realtà e alla verità, significa soltanto non voler ammettere, anche dinanzi all'evidenza, che il pentito ha detto cosa non vera. Infine, voler adombrare il sospetto su un altro acquisto di un'Alfa Romeo avvenuto nel giugno del 1982 da parte della signora Antonella Ingoglia Conciauro (il dottore Contrada conosce da molti anni i coniugi Conciauro) soltanto sulla base del fatto che sono state rilevate alcune annotazioni sulle agende e rubriche telefoniche dello stesso dottor Contrada concernenti i predetti coniugi, appare in verità un esasperato tentativo di non voler sgombrare il campo da dubbi che non hanno ragione di permanere".


SALVO GIORGIO




3 comments:

Anonymous said...

Si, probabilmente lo e

Anonymous said...

quello che stavo cercando, grazie

Anonymous said...

quello che stavo cercando, grazie