Friday, May 25, 2007

L'APPARTAMENTO DI VIA GUIDO JUNG E L'AMNESIA DI FRANCESCO MARINO MANNOIA





1. L'ACCUSA


1.1. Le accuse di Gaspare Mutolo


Nell'u
dienza del 7 giugno 1994, il "pentito" Gaspare Mutolo dichiara testualmente:
"Il Graziano Angelo, in cui, non lo so, lui si era messo, si era trovato, si era a disposizione, aveva favorito, diciamo, il dottore Contrada, non so tramite chi, va bene, che ci aveva fatto trovare un appartamentino nella via Guido Jung. (...) Cioè, con questo non intendo dire che gliel'ha dato lui... perchè lui si era interessato...".
Gaspare Mutolo chiama in causa Angelo Graziano, mafioso della famiglia dell'Acquasanta, coinvolto negli omicidi di Lorenzo La Corte, di Salvatore Caramola, di Antonino Pedone (noto ricettatore di camion rubati) e di Joe Imperiale (mafioso palermitano di Borgo Vecchio). Quando viene tirato in ballo da Mutolo, Angelo Graziano è, ovviamente, morto da anni. Graziano, legatissimo a Giacomo Giuseppe Gambino detto Peppe " 'u tignusu" ("il calvo"), che a sua volta era un protetto di Totò Riina, fu, infatti, inghiottito dalla "lupara bianca" nel 1977: la data della sua scomparsa si presume possa essere collocata intorno al 18 giugno di quell'anno, quando la sua auto fu ritrovata abbandonata, e il mandante sembra essere proprio Rosario Riccobono, capofamiglia di Partanna Mondello e diretto superiore dello stesso Gaspare Mutolo.
Mutolo ambienta la vicenda dell'appartamento tra il 1975 ed il 1976. Proprio intorno al 1975, infatti, Cosa Nostra si era trovata davanti ad una scelta "politica": la fazione dei "corleonesi" capeggiata da Totò Riina, ormai sempre più potente, premeva per l'eliminazione fisica degli avversari; lo schieramento facente capo agli altri due "triumviri", ossia Bontade e Badalamenti, preferiva una tattica attendista. Prevalso quest'ultimo orientamento, si era scelto di controllare le mosse degli avversari, studiando le possibilità di "avvicinarli" onde poterli corrompere: soltanto nel caso di un esito negativo di questa manovra si sarebbe proceduto al tentativo di eliminazione fisica. Fu per questo motivo che Gaspare Mutolo fu incaricato di "seguire" Bruno Contrada. E proprio in seguito a questa sua attività da Philip Marlowe di periferia, Mutolo vide più volte Contrada recarsi nel condominio di via Guido Jung, 12, a Palermo e ne trasse le conclusioni sopra riportate. Conclusioni che, però, la difesa di Contrada e gli accertamenti investigativi della DIA hanno clamorosamente smentito, come vedremo fra breve.


1.2. Le accuse di Francesco Marino Mannoia


"(...) Successivamente, come ho già detto, appresi informazioni più dettagliate sulla natura del rapporto esistente tra il Riccobono e il Contrada. L'uno faceva il confidente dell'altro. Contrada raccontava a Riccobono le cose della Polizia, cose che potevano interessare a Riccobono stesso o direttamente o anche indirettamente, nel senso che il Riccobono le utilizzava per se stesso ovvero anche per altri esponenti di Cosa Nostra. In particolare e più precisamente, il Contrada informava preventivamente Riccobono di iniziative o operazioni della Polizia, in maniera che lui potesse prevenire catture o comunque danni di altro genere. Per contro, come ho detto, Riccobono ricompensava il Contrada in due modi. So di ricompense materiali dirette, tra cui, ad esempio, un appartamento che Angelo Graziano procurò a Contrada. Inoltre, ed in questo senso ho parlato di Riccobono come 'confidente' del Contrada, Riccobono passava a Contrada informazioni. Queste informazioni venivano utilizzate dal Contrada per effettuare operazioni di polizia nei confronti di delinquenti comuni, o nei confronti di persone che egli, comunque, poteva 'toccare' senza creare dissensi nel Riccobono ed in Cosa Nostra."
Così parlava il "pentito" Francesco Marino Mannoia, interrogato dai magistrati inquirenti durante l'istruttoria del processo Contrada, il 27 gennaio 1994. Ma non era quella la prima volta in cui aveva parlato di Bruno Contrada davanti a delle toghe nere. Le due volte precedenti, infatti, aveva detto delle cose ben diverse. Lo abbiamo accennato nel capitolo dedicato alle domande sul processo Contrada. Ne parleremo nuovamente, e in modo più approfondito, fra breve.



2. LA DIFESA


2.1. La vaghezza di Gaspare Mutolo



Gaspare Mutolo, come nel caso di tutte le altre dichiarazioni d'accusa da lui rivolte nei confronti di Bruno Contrada, parla anche stavolta de relato, ossia non per cognizione diretta ma per "aver sentito dire da altri". Solo che, stavolta, non è neppure in grado di dire chi siano questi "altri". Mutolo chiama in causa Angelo Graziano (che, come abbiamo visto, sparì intorno al 1977 e, da morto, non può nè confermare nè smentire il buon Asparino), ma poi dice "non so tramite chi" Graziano avrebbe "fatto trovare" un appartamento a Contrada in via Jung.
Non è difficile, in fondo, imbastire un'accusa di cotal fatta prendendo spunti eterogenei di qua e di là. Lo stesso nome di via Jung risulta abbastanza suggestivo, se è vero che, come ricordato dal capitano dei Carabinieri Luigi Bruno nell'udienza del processo Contrada datata 18 ottobre 1994, Rosalia Riccobono, moglie di don Saro, secondo le relazioni stilate dalla Polizia il 7 luglio, il 7 agosto ed il 18 dicembre 1980 e, in seguito, il 17 ed il 24 settembre 1981, risultava residente al sesto piano di via Guido Jung, 1. Un altro condominio, ovviamente, rispetto a quello indicato da Mutolo, ma la stessa via. E' sufficiente per creare uno scenario di sospetti.
Ma quel che Mutolo non poteva sapere erano tre cose di fondamentale importanza. Tre cose che
durante il processo Contrada sono state accertate, senza lasciar adito a dubbio alcuno, dalla DIA ed in base alle testimonianze delle persone coinvolte (eccezion fatta per il giudice Signorino e per Angelo Graziano, morti prima dell'inizio del processo):

1.
se Tizio "procura" o "dà la disponibilità" di qualcosa a qualcuno, il fatto presuppone necessariamente che Tizio sia proprietario o possessore di quel qualcosa a qualsiasi titolo. Angelo Graziano non poteva vantare alcun titolo giuridico inerente all'appartamento di via Guido Jung, 12 di cui parla Mutolo. Tale appartamento ricade, infatti, all'interno di un condominio che non fu costruito da Angelo Graziano ma dall'ingegnere Gualberto Artemisio Carducci, che lo edificò, da solo, su un terreno di proprietà del suocero, il marchese De Gregorio. Carducci non ha mai avuto direttamente nulla a che fare con Angelo Graziano: l'unico, vaghissimo punto di contatto è dato dal fatto che Antonio e Francesco De Gregorio, figli del marchese e cognati di Carducci, erano soci della "San Luca s.r.l.", società intestata ad Angela Ciaramitaro e Giuseppa Girgenti, mogli, rispettivamente, di Domenico e di Giovanni Graziano, fratelli di Angelo. La "San Luca" aveva costruito altri palazzi in via Jung, ma di questa società l'ingegner Carducci, come confermato dal funzionario della DIA Guido Longo nell'udienza del 14 ottobre 1994, non è mai stato socio. Questi i dati raccolti dalla DIA durante l'istruttoria del processo Contrada e ribaditi nella fase del dibattimento, anche grazie alla deposizione dello stesso ingegner Carducci, escusso come testimone nell'udienza del 21 ottobre 1994.

2.

Contrada non è risultato titolare di alcun appartamento sito in via Guido Jung, 12 sotto nessuna forma, nè come proprietario, nè come possessore nè come locatario. "Non risulta che Contrada o alcuno dei suoi familiari abbiano mai avuto la disponibilità diretta di un appartamento in via Guido Jung, 12, a Palermo" dichiara il funzionario della DIA Guido Longo, ancora nella sopracitata udienza del 14 ottobre 1994. Contrada
ha ammesso (e il portiere dello stabile, Vito Lazzara, lo ha confermato nell'udienza del 10 giugno 1994) di aver frequentato, nell'àmbito di quel famoso condominio, due appartamenti siti al 16° piano della scala A, uno all'interno 39 e l'altro all'interno 40.
L'interno 39 era rimasto di proprietà dell'ingegner Carducci (era intestato alla signora De Lisi) ed era stato affittato nel 1968 dall'ingegner Renato Di Falco, che poi lo acquistò a titolo definitivo dallo stesso Carducci nel 1987. "Andai ad abitare al 16° piano di via Guido Jung, 12, interno 39, nel 1968" - ricorda Renato Di Falco nell'udienza del 21 ottobre 1994 - "e conobbi il giudice Signorino intorno al 1975. Di fronte a me, infatti, all'interno 40, abitarono prima Carlo Arcoleo, poi il dottor Camillo Albegiani, quindi Signorino, che venne a stare lì nel 1975 e c'è rimasto qualche anno, ed infine ancora il dottor Albegiani. Dal 1990 abito al piano di sotto, ma quell'appartamento all'interno 39 del 16° piano, da me comprato nel 1987, rimane mio".
L'interno 40, sempre di proprietà di Carducci (e stavolta intestato a lui stesso), era stato invece affittato nel 1974 dal giudice Domenico Signorino, dopo la sua separazione dalla moglie: Signorino aveva trovato quest'appartamento grazie all'interessamento dello stesso Renato Di Falco, suo amico, che, a tale scopo, si era rivolto al portiere dello stabile, Vito Lazzara, e al dottor Camillo Albegiani, che aveva parlato direttamente con l'ingegner Carducci. I precedenti affittuari dell'interno 40, fino al 1974, erano stati, come già rilevato, prima Carlo Arcoleo e poi Camillo Albegiani: Contrada non conosceva nessuno dei due, poichè, come vedremo, conobbe Albegiani solo nel momento in cui Signorino, nel 1977, lasciò l'appartamento ed Albegiani tornò ad abitarvi, e conobbe in seguito Arcoleo, presentatogli dallo stesso Albegiani come comproprietario di varie barche insieme al dottor Salvatore Gagliano. Signorino rimase al 16° piano di via Jung, 12 appunto fino al 1977. C
ontrada ricorda di aver cominciato a recarsi spesso a casa di Signorino intorno al 1975: "Frequentavo due appartamenti in via Guido Jung, 12. Uno era abitato dal giudice Domenico Signorino, l'altro da Renato Di Falco." - narra lo stesso Contrada nell'udienza dell'8 novembre 1994 - "Conoscevo Signorino per aver avuto con lui frequentissimi rapporti di lavoro: ci vedevamo spesso, a parte per le inchieste giudiziarie, anche perchè lui, in Procura, era il magistrato che si occupava di intercettazioni telefoniche e porto d'armi, due degli argomenti principali delle mie lezioni ai corsi della Scuola di Polizia. Chiedevo spesso lumi in materia sia a Signorino che al giudice Geraci. Poi, intorno al 1975, Signorino mi disse che stava scrivendo, sotto pseudonimo, un libro di genere poliziesco, che lui stesso definì di 'fantapolitica'. Voleva che io leggessi ciò che lui man mano andava scrivendo e facessi una sorta di supervisione, soprattutto per dargli consigli tecnici sulle operazioni di Polizia che lui doveva descrivere. Andando a trovare Signorino, conobbi Renato Di Falco, suo dirimpettaio al 16° piano di via Jung, 12. Spesso passavamo nell'appartamento di quest'ultimo per cenare tutti insieme. In seguito sia Signorino che Di Falco mi offrirono spontaneamente la possibilità di usufruire dei loro appartamenti qualora avessi voluto e ne avessi avuto l'esigenza. In particolare Signorino, essendo separato dalla moglie, si recava spesso a casa della madre, in via Nunzio Morello, e mi aveva detto che potevo usufruire del suo appartamento anche quando lui non c'era. Io, però, non ne approfittai mai". Di Falco conferma: "Signorino mi presentò Contrada, che lo andava a trovare spesso" - ricorda, ancora nell'udienza del 21 ottobre 1994 - "e a volte Contrada e Signorino sono stati a cena a casa mia. Non so se Contrada avesse le chiavi dell'appartamento di Signorino: io non ho mai dato a Contrada le chiavi di casa mia, ma, se ce ne fosse stato bisogno, lo avrei fatto volentieri". In seguito, intorno al 1977, Signorino, come già ricordato, lascia l'appartamento per andare a vivere con la sua seconda moglie da un'altra parte, ossia nella vicina zona di via Autonomia Siciliana, e presenta a Contrada un suo amico, che era stato il precedente affittuario dell'interno 40 ed era in procinto di tornarvi, ossia il dottor Camillo Albegiani. "Un giorno Signorino mi chiamò nel suo ufficio di sostituto procuratore della Repubblica" - ricorda ancora Contrada nell'udienza dell'8 novembre 1994 - "per farmi conoscere il futuro locatario del suo appartamento, ossia il dottor Camillo Albegiani, con cui io feci sùbito amicizia. (...) Io, Signorino e Albegiani eravamo grandi amici. Ci frequentavamo spesso, uscivamo in barca, cenavamo nella villa di Albegiani, uscivamo in mare anche coi pescherecci dei suoi amici pescatori. Albegiani, poi, aveva per Signorino un'ammirazione sconfinata e in seguito mi disse di nutrire lo stesso sentimento anche nei miei confronti: Albegiani vantava continuamente con tutti sia me che Signorino e con tutti sbandierava la sua amicizia con noi. Una volta mi disse anche che aveva prestato dei soldi a Signorino e che non se li sarebbe mai fatti restituire: io gli dissi di non sbandierare queste cose con tutti, come lui faceva, non perchè ci si dovesse vergognare di ciò, ma perchè temevo che lui, medico condotto a Partanna e a Mondello, ossia il mandamento mafioso retto da Saro Riccobono, potesse trovarsi in pericolo dicendo in giro di essere troppo amico di giudici e poliziotti. Proprio in quanto medico condotto a Partanna e Mondello, Albegiani risiedeva a Mondello, dunque capitava che non usasse spesso l'appartamento di via Jung, 12 e per questo mi lasciò la possibilità di fruirne. Io lo feci, e per questo capitò anche che pagassi io stesso il condominio e la bolletta telefonica, soprattutto dopo aver saputo che Carducci aveva aumentato la pigione ad Albegiani. Quest'ultimo, però, mi disse che, se l'avessi fatto ancora, si sarebbe offeso". Contrada spiega puntualmente anche il motivo per cui, ad un certo punto, ritenne opportuno non frequentare più il dottor Albegiani: "Smisi di vedermi con Albegiani quando, nel 1984, cominciò a pentirsi Tommaso Buscetta." - rammenta Contrada ancora nell'udienza dell'8 novembre 1994 - "Proprio in quanto medico condotto a Partanna e a Mondello Albegiani era medico, ovviamente, anche della famiglia di Saro Riccobono. Buscetta ne aveva parlato e si era sparsa la voce, quasi per una sorta di proprietà transitiva, che se Albegiani era medico di Riccobono e io ero amico di Albegiani allora dovevo per forza essere amico anche di Riccobono. Buscetta, che voleva vendicarsi di me dato che nel 1980 avevo fatto in modo di fargli negare il regime di semilibertà, mi aveva accusato proprio di aver intrattenuto rapporti con Riccobono, non potendo essere smentito da quest'ultimo, che era già morto due anni prima. Smisi perciò di frequentare Albegiani e addirittura non gli telefonai più, pensando che anche lui stesso, con la sua 'imprudenza' di cui sopra, potesse aver dato in parte adito a quella voce infondata raccolta da Buscetta. Quando il sostituto procuratore Geraci mi interrogò in merito alle dichiarazioni di Buscetta sulla mia presunta amicizia con Riccobono, io ovviamente negai, come nego ora, di essere stato mai amico dello stesso Riccobono, ma non parlai di Albegiani. Anche se, secondo me, proprio Albegiani era in buona parte responsabile, sempre per la sua famosa 'imprudenza' e il suo parlar troppo in giro di Signorino e di me, dello spargimento di questa voce infondata sulla mia amicizia con Riccobono, tuttavia non volevo metterlo in mezzo: Albegiani non era cattivo. Lo ritenevo responsabile di quest'equivoco, dunque avevo troncato i rapporti con lui: mi pentivo di aver dato troppa confidenza ad una persona così loquace, vanitosa al limite della millanteria. Ma non volevo tirarlo in ballo per non cagionargli dei problemi inutili: sapevo che Albegiani era medico della famiglia di Riccobono così come di tante altre famiglie di Partanna e di Mondello, e che aveva conosciuto Saro Riccobono da ragazzo, quando costui appariva come una persona onesta e lo stesso Albegiani non poteva certo immaginare che sarebbe diventato un criminale. Non so, invece, se Albegiani abbia mai incontrato Riccobono durante la latitanza di quest'ultimo. Ricordo soltanto che un paio d'anni prima, ossia la mattina dell'1 o del 2 dicembre 1982, il dottor Albegiani, chiamato a casa di Saro Riccobono perchè la moglie e i figli di costui stavano male, aveva trovato una situazione di panico e aveva capito che era successo qualcosa allo stesso Saro Riccobono e ai suoi generi, Micalizzi e Lauricella: fu, infatti, in quell'occasione che i tre scomparvero e furono uccisi. Albegiani mi telefonò dal suo ambulatorio di Mondello intorno alle 6 del mattino e io, all'epoca capo di gabinetto dell'Alto Commissariato Antimafia, mi precipitai proprio al suo ambulatorio dove egli mi fornì tutti i particolari di ciò che aveva saputo. Era, ed è a tutt'oggi, questo l'unico episodio di mia conoscenza che possa mettere in relazione Albegiani con la famiglia Riccobono: un rapporto di tipo meramente professionale. Ecco perchè, dopo le dichiarazioni di Buscetta, non volli mettere inutilmente nei guai Albegiani. Fu Ignazio D'Antone, allora capo della Squadra Mobile di Palermo, a parlare al sostituto procuratore Geraci della mia amicizia col dottor Albegiani: Geraci volle allora sentire Albegiani, il quale, comunque, negò recisamente che io conoscessi Saro Riccobono". Il tutto viene confermato punto per punto dallo stesso Albegiani in aula, nell'udienza del 24 luglio 1995. Tornando alla vicenda dell'appartamento di via Jung, risulta dunque evidente che Albegiani diventa amico di Contrada alla fine degli anni '70 e rimane locatario dell'appartamento sino ai primi anni '80: ecco spiegato il motivo per cui Contrada continuò a recarsi in quell'appartamento anche all'alba del nuovo decennio.
Ciò significa, quindi, che Contrada non si limitò a recarsi in quel condominio di via Jung solo tra il 1975 ed il 1976 (come sostiene Mutolo) ma lo frequentò anche negli anni '80, ossia dopo la scomparsa di Graziano, avvenuta intorno al 1977, il che mal si sposa col fatto di far dipendere la "disponibilità" dell'immobile da una persona specifica: in altre parole, se davvero l'uso di quell'appartamento da parte di Contrada dipendeva non da un titolo giuridico (mai riscontrato) ma da un mai chiarito favore da parte dello stesso Graziano, una volta morto quest'ultimo, Contrada non avrebbe avuto nessun titolo, neppure meramente sostanziale, per continuare a disporre di quella casa. Nè è plausibile pensare che lo avrebbe fatto, viste le circostanze equivoche e misteriose della morte di Graziano, ingoiato dalla "lupara bianca": sarebbe stato certamente pericoloso per uno dei poliziotti più esposti di Palermo far ricollegare anche lontanamente il proprio nome a quello di un mafioso appena eliminato da ignoti avversari in maniera occulta.

3.
Angelo Graziano
, anche ammesso che avesse avuto a che fare qualcosa con il famoso condominio di via Jung, 12 (il che comunque, come abbiamo visto, non è), proprio nel 1975 (ossia nel periodo in cui Mutolo vuole che lo stesso Graziano abbia messo a disposizione di Contrada l'appartamento incriminato) fu oggetto di una precisa e continua attività investigativa da parte della Squadra Mobile diretta da Bruno Contrada. Il quale, nell'udienza del 20 dicembre 1994, ricorda di aver cominciato ad occuparsi personalmente di indagini sul conto di Angelo Graziano intorno al 1974, insieme all'allora capo della Sezione Investigativa della Squadra Mobile di Palermo, Vittorio Vasquez, in occasione di un'estorsione ai danni del costruttore Emanuele Albanese, e di aver firmato due rapporti di denuncia dove il nome di Angelo Graziano
compare in bella evidenza:

a.
nel 1975, in seguito ad un attentato a scopo estorsivo subìto nella sua villa di via delle Rose a Mondello e al lancio di un ordigno esplosivo contro la sua concessionaria
Alfa Romeo, Calogero Adamo sporge denuncia alla polizia. Il 23 agosto 1975 Contrada, capo della Squadra Mobile, che aveva già denunciato Angelo Graziano con un rapporto del 2 agosto precedente, firma un nuovo rapporto in cui denuncia per tale attentato proprio Angelo Graziano e, insieme a lui, anche Salvatore Cocuzza. E' proprio Bruno Contrada, dunque, il primo a schedare Angelo Graziano come mafioso, in collaborazione con i Carabinieri. "Di Angelo Graziano e Salvatore Cocuzza, suo complice, si occuparono anche i Carabinieri" - ricorda Contrada nell'udienza del 20 dicembre 1994 - "poichè nel 1975 fu piazzata una bomba sotto casa di Graziano, in via Aquileia, a Palermo, proprio vicino alla casa del maresciallo dei Carabinieri Scibilia. Da qui l'intervento dei Carabinieri e le susseguenti indagini coordinate dall'allora tenente colonnello Giuseppe Russo". Il rapporto giudiziario preliminare di denuncia nei confronti di Angelo Graziano e di Salvatore Cocuzza, redatto in stato di arresto dei due dal Nucleo Investigativo dei Carabinieri comandato proprio dal tenente colonnello Russo, porta la data del 25 luglio 1975.
Contrada, dunque, come sempre
in perfetta armonia coi Carabinieri, aveva individuato già dal 1975 Angelo Graziano come mafioso e Salvatore Cocuzza come suo complice. A short refrain: Salvatore Cocuzza sarà, anni dopo, colui che ribadirà, in versione rinnovata e come una specie di "sanatoria" ritardata, le accuse del "pentito" Rosario Spatola sui presunti incontri fra Contrada e Riccobono in quel di Sferracavallo. Essendo risultato impossibile, come ribadiamo e dimostriamo in altra parte di questo libro, che i due si fossero visti al "Delfino" di Sferracavallo, come aveva detto Spatola, Cocuzza sosterrà che Contrada si incontrava con Riccobono sempre a Sferracavallo ma all'imbarcadero. Anche Cocuzza, come Graziano e come Mutolo, aveva i suoi motivi per avercela con Contrada. Il rapporto di denuncia firmato dallo stesso Contrada il 23 agosto 1975 lo dimostra pienamente. E noi, da bravi cittadini col teschio di Amleto in mano, almeno il dubbio dobbiamo porcelo;

b.
il secondo rapporto in cui Contrada denuncia Graziano è il famoso
"Rapporto sulla mafia della costa" dell'8 settembre 1975, in cui Contrada denuncia, per associazione mafiosa, per l'omicidio dell'agente di polizia Gaetano Cappiello, per il tentato omicidio dell'imprenditore Angelo Randazzo, per tentata estorsione aggravata, danneggiamento, porto e detenzione abusiva di armi da fuoco, vari appartenenti alle famiglie mafiose di Partanna Mondello, dell'Acquasanta, dell'Arenella e di San Lorenzo. Oltre agli immancabili Rosario Riccobono e Gaspare Mutolo, vengono denunciati da Contrada proprio Angelo Graziano con i suoi fratelli Domenico, Vincenzo, Francesco, Ignazio, Giovanni, ed inoltre Michele e Salvatore Micalizzi, Antonino Buffa, Salvatore Davì, Giuseppe Galatolo, Giuseppe Greco, Salvatore Cocuzza, Salvatore Ciriminna e altri ancora. Gli arresti furono circa una ventina. In questo rapporto, partendo da una serie di attentati a scopo estorsivo contro imprese di costruzione (particolarmente grave quello subìto dall'impresa dell'ingegner Cesare Madia), Contrada segnala in particolar modo Graziano come appartenente ad una famiglia di costruttori in odore di mafia e come estortore di professione appunto a danno di altri costruttori. In seguito a tale rapporto, Angelo Graziano viene condannato a 4 anni di reclusione e 5 anni di soggiorno obbligato da trascorrere fuori dalla Sicilia: non farà in tempo a finire di scontare la giusta pena perchè, nonostante la giustizia dello Stato (quella stessa che nel processo di primo grado rinnovò e poi inopinatamente "congelò" i termini di carcerazione preventiva per Bruno Contrada e, nel momento in cui scriviamo, si ostina a tenerlo ingiustamente in galera) gli avesse consentito di uscire dal carcere in anticipo per decorrenza dei termini di custodia cautelare, la "giustizia" di Cosa Nostra, ben più perversa e contraddittoria quanto più efficace, gli presenterà sùbito il conto definitivo;

c.

Ma non finisce qui. In un nuovo rapporto giudiziario del 19 novembre 1975 Bruno Contrada denuncia Angelo Graziano per gli omicidi di Salvatore Caramola, Antonino Pedone e Lorenzo La Corte. Il 16 dicembre 1975 Contrada redige e firma una nota con la quale propone per Angelo Graziano la misura di prevenzione del soggiorno obbligato (la nota fu successivamente inoltrata alla Procura della Repubblica dal questore Migliorini il 6 febbraio 1976). Ancora, Contrada segnala Graziano al Ministero degli Interni e al consolato statunitense onde impedirgli di ottenere un visto d'ingresso negli USA;

E' dunque per mano e merito di Bruno Contrada che Angelo Graziano viene conosciuto e schedato come mafioso, più volte denunciato e arrestato ed appare fra i principali denunciati nel "rapporto sulla mafia della Costa" e fra i condannati nell'àmbito del susseguente processo, stavolta
insieme ai suoi cinque fratelli. E, notoriamente, uno, per ringraziare chi lo ha appena denunciato (più volte) e fatto condannare insieme ai suoi parenti, gli regala un appartamento...



2.2. L'amnesia di Francesco Marino Mannoia


Piccola premessa: circa i rapporti tra Bruno Contrada e Rosario Riccobono, rimandiamo a quanto già evidenziato nel capitolo dedicato alle
Alfa Romeo a proposito dell'intensissima attività investigativa di Contrada contro Riccobono e la sua cosca. Altro che favori reciproci...
In questa sede, occorre rimarcare e approfondire lo strano comportamento del "pentito" Mannoia nel corso della sua variegata collaborazione con la giustizia. Una collaborazione, durata 17 anni, che, al momento in cui scriviamo, pare avviata alla conclusione: a 56 anni "Mozzarella" Mannoia (così era soprannominato all'interno di "Cosa Nostra"), il chimico della mafia specializzato nella raffinazione dell'eroina, sta per lasciare il programma di protezione con una "buonuscita" di circa un milione di euro che lo Stato gli verserà quale "capitalizzazione". Con questa cifra Mannoia potrà anche decidere di avviare una propria attività economica, probabilmente negli Stati Uniti, dove ha assunto una nuova identità e dove, probabilmente, deciderà di restare.
Ma i soldi bisogna guadagnarseli. E non certo con reticenze o contraddizioni. Abbiamo poc'anzi accennato ad uno strano comportamento del "pentito" nell'àmbito della vicenda processuale di Bruno Contrada. Abbiamo accennato qualcosa nel capitolo dedicato alle domande sul processo Contrada: entriamo, adesso, nei dettagli.
Dall'inizio della sua attività oratoria di fronte alla giustizia, ossia dall'ottobre del 1989, fino al fatidico 27 gennaio 1994, data del suo interrogatorio da parte dei magistrati palermitani nell'àmbito del processo Contrada, Francesco Marino Mannoia non aveva mai detto una sola parola contro Bruno Contrada. Un intero lustro di silenzio. Anzi, no. Qualcosa su Contrada Mannoia l'aveva detta, per ben due volte. E cioè che di Contrada non sapeva assolutamente nulla. Vediamo:

1.

Il 3 aprile 1993, a New York, presso l'U.S. Attorney's Office del Distretto Meridionale, il procuratore capo della Repubblica di Palermo Gian Carlo Caselli, nell'àmbito delle indagini sull'omicidio di Salvo Lima, interroga personalmente Mannoia, ivi detenuto. All'interrogatorio è presente anche Patrick Fitzgerald, Assistant U.S. Attorney. Ad un certo punto, una domanda sul conto di Bruno Contrada. Questa la risposta del mafioso "pentito":

"Di Contrada non ricordo praticamente nulla che possa avere interesse processuale; con tanti nomi di poliziotti potrei anche confondermi."

E' utile, quanto raccapricciante, ricordare che la difesa di Bruno Contrada, ossia gli avvocati Sbacchi e Milio, e poi lo stesso Contrada e i giudici di primo grado non sono stati resi edotti sull'esistenza di dichiarazioni nelle quali si diceva a chiare lettere qualcosa di essenziale in senso favorevole all'imputato.
Questo verbale di interrogatorio, infatti, viene fuori soltanto il 29 novembre 1994, nel corso di un'udienza del processo Contrada che rimarrà fondamentale. In quella mattina autunnale, il ben noto acume investigativo di Bruno Contrada, mai sopito dai lunghi mesi di carcerazione preventiva, emerge ancora una volta. Stavolta per suggerire ad uno dei suoi avvocati, Pietro Milio, che si accinge a condurre il controinterrogatorio del teste Marino Mannoia, una domanda. Che l'avvocato, puntualmente, pone:
"Signor Mannoia, perchè lei si è trovato ad enunciare accuse di collusione con mafiosi a carico del dottore Contrada soltanto alla data del 27 gennaio 1994 e cioè dopo oltre quattro anni dall'inizio della sua collaborazione con la giustizia e dopo circa tredici mesi dalla data dell'arresto dello stesso dottor Contrada?". Mannoia esita, riflette per un attimo, raccoglie le idee e, reputando evidentemente che l'avvocato Milio fosse a conoscenza del verbale d'interrogatorio del 3 aprile 1993, fa riferimento a tale verbale.
Mentre sull'aula calava un silenzio irreale, Mannoia tentava di superare la contraddizione che egli stesso, involontariamente, aveva finito col denunciare. Già, avrà pensato il "pentito" in un attimo che gli sarà sembrato eterno, adesso dovrò giustificare come mai prima ho detto che di Contrada non sapevo nulla e dopo l'ho apertamente accusato di essere colluso con la mafia. Comprendiamo Mannoia: un problema non da poco, una vera gatta da pelare. Ognuno ha i suoi problemi, del resto. Ma, il 29 novembre 1994, in udienza al processo Contrada, Mannoia, contrariamente a tanti di noi che hanno a che fare con tante e composite grane quotidiane, trova una soluzione brillante:
"Il 3 aprile 1993 non ho riferito ciò di cui ero a conoscenza sul dottore Contrada perchè ero stanco, assonnato e stressato. Non volevo prolungare un interrogatorio che era stato particolarmente lungo ed estenuante. Mi ricordo anche che il verbale è concluso all'una di notte... Io avevo gli occhi che mi sanguinavano, quando mi fu chiesto se sapevo qualcosa, quindi anticipo le sue domande, se sapevo qualche cosa sul conto del dottore Contrada, io quasi quasi stavo dicendo, scusate alla Corte, vaffanculo (...) Ed io ho detto: non ho nulla da dire nei confronti del dottor Contrada. E' chiaro adesso il concetto, avvocato?".
Un caffè, prego? Forse sarebbe servito. Al limite, un collirio per gli occhi sanguinolenti. Il lavoro di "pentito" stanca, non c'è dubbio, ma lo stipendio bisogna guadagnarselo. Dobbiamo riconoscere a Mannoia un estro fuori dal comune, ma ci sia permesso di sollevare un piccolo dubbio. Tu, "pentito" regolarmente stipendiato, che hai già accusato Giulio Andreotti (e non uno qualunque) e sei a conoscenza del fatto che colui che è stato per anni capo della polizia giudiziaria palermitana e poi capo della Criminalpol della Sicilia Occidentale e capo di gabinetto dell'Alto Commissariato Antimafia, uno dei più noti e brillanti investigatori italiani che per venti anni (dal 1962 al 1982) è stato in prima linea nella lotta alla mafia, un poliziotto che si era sempre esposto fino al punto di ricevere minacce di morte, si è ridotto a cercare compromessi con Cosa Nostra, cosa fai? Ti fermi solo perchè sei stanco e indolenzito? O, peggio, stressato come un qualunque monsieur Travet travolto da pile di pratiche da evadere e perseguitato da un capufficio cinico e senz'anima? Saremo pur liberi di pensare, credo, che se davvero Mannoia avesse taciuto sol perchè voleva andarsi a riposare, avrebbe fatto presente il suo stato di stanchezza agli inquirenti e, con pochissime altre parole, che non gli sarebbero costate un eccessivo dispendio di energie, avrebbe potuto manifestare la sua riserva di riferire ciò che sapeva su Contrada l'indomani o in un'altra occasione. Invece Mannoia, probabilmente, non si è reso conto di aver dovuto spendere una maggior copia delle sue scarse energie e di aver dovuto sprecare più fiato per dire "Di Contrada non ricordo praticamente nulla che possa avere interesse processuale; con tanti nomi di poliziotti potrei anche confondermi". Il punto è nodale, anzi agghiacciante. E Mannoia lo spiega in udienza, il 29 novembre 1994, con una non chalance ed una sorta di perversa diplomazia, di fronte alla quale persino Richelieu sembrerebbe una sorta di Santa Chiara di Napoli:

AVVOCATO MILIO - "Quando il 3 aprile 1993 le fu chiesto di Contrada e lei disse che non sapeva nulla, non avrebbe potuto... cioè, perchè ha dato questa risposta e non ha detto 'ne parlo un'altra volta, ho qualcosa da dire'?"

MANNOIA - "Io la capisco bene la sua domanda ed è anche giustificata... Io ero molto stanco e non vedevo l'ora di andarmi a buttare nel letto... quindi mi sono comportato in quella maniera..."

AVVOCATO MILIO - "Quindi lei, in sostanza, ha mentito in quell'occasione?"

MANNOIA - "Ha mentito la mente stanca, non... Diciamo, è stata una reazione così, non è che... è stata una situazione lucida, in situazione di stress."

Su precisa domanda del presidente Ingargiola, Mannoia reitera la sua nota diplomatica:

MANNOIA - "... Che quando mi fu fatto il nome del dottore Contrada io è come se non lo avessi sentito quel nome, ero completamente stressato... ero psicologicamente distrutto... io ero estremamente stressato..."

Siamo al patetico. Mannoia avrebbe saputo qualcosa di Contrada e non l'ha detta, ma, a parer suo, non ha mentito. Non lui, almeno. Hanno mentito le sue orecchie, poichè lui era stressato a tal punto che è come se il nome di Contrada non lo avesse neppure sentito pronunciare da quei magistrati che, invece, glielo stavano quasi sillabando. Ha mentito la sua "mente stanca". Già, perchè la mente è qualcosa di assolutamente distaccato dall'individuo. Povera mente onusta di tanti pensieri! La colpa è sua, di quella mente oberata e stracca. E' lei che ha mentito, non il "pentito". E' stata quella birichina che non ha detto la verità, ma tanto la mente non viene retribuita a suon di milioni e milioni per le parole riferite alla giustizia.
Quell'insostenibile leggerezza dello stress comportava alla stanca mente di Mannoia anche la conseguenza di non riuscire a raccapezzarsi "tra tanti nomi di poliziotti". O tempora, o mores! Anche sul nome avremmo qualcosa da dire, se vogliamo. Bruno Contrada non è Giuseppe Rossi o Mario Ferrari (uso questi due nomi e cognomi, scusandomi preventivamente con coloro che li detengono effettivamente, sol perchè, qualche anno fa, una statistica li indicava come i più diffusi in assoluto in Italia). Il nome e cognome dell'ex-capo della Squadra Mobile di Palermo è assolutamente peculiare e difficilmente confondibile. Con tanti nomi di poliziotti, Mannoia poteva confondersi con un Rossi, un Rosso o un De Rossi, un Ferrari, un De Ferrari, un Ferraris, un Ferrara, un Ferraro o un Ferrario. Ma non con un "Bruno" e un "Contrada".

Insomma, o una cosa la sai (e, soprattutto se è grave ed importante, la dici), oppure non la sai. Tertium non datur. Invece, il collegio giudicante di primo grado, non curandosi delle "veniali" omissioni e delle "umane" contraddizioni del "pentito", deciderà di dar credito all'improvvisa astenia di Mannoia. Forse era proprio stanco, dopo tutto. Alle pagine 610 e 611 delle motivazioni della sentenza di primo grado si legge, infatti, con riferimento a quanto dichiarato da Mannoia ai giudici palermitani il 3 aprile 1993: "Orbene, la ricostruzione della progressiva esposizione da parte del Mannoia della notizie in suo possesso sull'imputato, caratterizzata da approfondimenti mnemonici e da successivi sforzi di chiarezza sulla ricostruzione delle proprie conoscenze, non legittima di per sè un giudizio di inaffidabilità della fonte o un sospetto di adattamento manipolatorio delle sue dichiarazioni. Con questo non si vuole omettere di rilevare che il dato relativo alla successione nel tempo delle dichiarazioni del Mannoia impone di valutare con maggiore prudenza le sue dichiarazioni al fine di verificare se le notizie in suo possesso siano state frutto di pedissequi adeguamenti ad altre risultanze processuali ovvero se lo stesso abbia introdotto con le proprie dichiarazioni particolari o episodi nuovi, idonei a rilevarne l'autonomia rispetto ad altre fonti e l'attendibilità rispetto a riscontri di natura estrinseca". Alle pagine 580 e 581, sempre delle motivazioni della sentenza di primo grado, i giudici scrivono: "La circostanza che Mannoia non avesse detto quanto a sua conoscenza sull'odierno imputato nel corso dell'interrogatorio reso negli USA nell'aprile 1993 ai Magistrati siciliani, che in quel Paese erano andati ad interrogarlo sui c.d. omicidi politici, è stata spiegata dal collaborante con ragioni del tutto contingenti afferenti alle particolari condizioni di stanchezza e stress in cui si era trovato quando era stato affrontato, nel corso dell'interrogatorio, l'argomento riguardante il dottore Contrada. La domanda su Contrada gli era stata rivolta quando ormai era molto stanco e proprio per evitare un'ulteriore, insostenibile prosecuzione di quell'interrogatorio era stato estremamente evasivo". Alle pagine 608 e 609 si legge, ancora: "Alla specifica domanda Mannoia aveva risposto con una frase con cui faceva riferimento ad una difficoltà mnemonica di ricostituzione delle proprie conoscenze e ad una possibilità di errore rispetto a vicende concernenti altri poliziotti ('con tanti nomi di poliziotti potrei anche confondermi'). Pertanto, la risposta fornita dal collaborante con riferimento all'odierno imputato appare sintomatica di una sua precisa scelta di non approfondire l'argomento proposto non per carenza di informazioni sul punto, bensì per difficoltà di lucida messa a fuoco dei propri ricordi sullo specifico oggetto, difficoltà aggravata dalla possibilità, dedotta dal dichiarante, di potersi 'confondere' in relazione ad altre posizioni riguardanti poliziotti".
Non solo stanco, il "pentito". Anche smemorato, poverino. Bisogna ammetterlo, la stanchezza gioca spesso brutti scherzi, può provocare versamenti di acido lattico nei muscoli, giramenti di testa, annebbiamento della vista e anche "difficoltà mnemonica". Ma non fa arrivare fino al punto di non ricordarsi che il poliziotto più in vista di Palermo sarebbe stato un amico dei mafiosi. Qui non v'è stanchezza che tenga: se sai una cosa del genere la dici, punto e basta. Puoi anche avere qualche umana difficoltà nel mettere a fuoco i ricordi su singoli episodi, ma non certamente nel rammentare il fatto essenziale, e cioè che il poliziotto più noto di Palermo sarebbe stato legato alla mafia. E sarebbe stato legato, secondo te, in particolare al tuo capofamiglia, Stefano Bontade, del quale tu eri uno stretto collaboratore. Al limite, se ti senti proprio fiacco o hai un'improvvisa ipoattività della ghiandola del surrene, accenni qualcosa e basta, dici che parlerai di Contrada in un altro momento, magari l'indomani, e chiedi tempo per riordinare le idee, rimandando il resto della dichiarazione a dopo una sana dormita. Ma certamente non dici
"Di Contrada non ricordo praticamente nulla che possa avere interesse processuale".
La Corte ha creduto all'amnesia di Mannoia. E' sconcertante. Certo, c'è da riconoscere che Francesco Ingargiola, Salvatore Barresi e Donatella Puleo, ovvero il collegio giudicante, al momento di redigere la sentenza a carico di Contrada non erano ancora a conoscenza del verbale del 2 aprile 1993, quello che sarebbe venuto fuori solo dopo la sentenza medesima e che analizzeremo nel prossimo paragrafo. Ma anche il 3 aprile le parole di Mannoia, ben conosciute, al contrario, dal collegio giudicante, indicavano senza ombra di dubbio che il "pentito" non sapeva nulla di Contrada.
Et de hoc satis.

2.

Il giorno prima del suddetto interrogatorio, dunque il 2 aprile 1993, a recarsi a New York, nell'àmbito di un'altra rogatoria internazionale, erano stati il procuratore capo della Repubblica di Caltanissetta Giovanni Tinebra, insieme ai due sostituti Carmelo Petralia e Ilda Boccassini (che indagavano sulle stragi Falcone e Borsellino). Processo diverso, ma, ad un certo punto, stessa domanda: cosa potrebbe sapere Marino Mannoia sul conto del dottor Bruno Contrada? Mannoia risponde testualmente:

"Non ricordo di avere mai conosciuto il dottor Bruno Contrada e l'ispettore Luigi Siracusa, nè ricordo di aver mai sentito parlare degli stessi come persone legate o comunque vicine a Cosa Nostra. Ricordo solo di aver sentito nominare il dottor Contrada solo come componente dell'apparato della Polizia che lavorava a Palermo".

Per giustificare il fatto di non aver accusato Contrada nell'interrogatorio del 3 aprile 1993 davanti ai magistrati inquirenti di Palermo, Mannoia, il 29 novembre 1994, aveva detto che voleva porre fine a quell'estenuante interrogatorio perchè era stanco. E perchè non ha rivelato quello che avrebbe saputo di Contrada neppure ai magistrati di Caltanissetta il giorno prima, ossia il 2 aprile 1993? Era stanco anche il 2 aprile?
Probabilmente no, visto che, mentre l'interrogatorio del 3 aprile si concluse all'una di notte, quello del 2 aprile ebbe termine nel pomeriggio. Forse Mannoia era abituato alla sacrosanta pennichella pomeridiana e quel giorno non gliel'avevano fatta fare. O forse gli sanguinavano gli occhi anche il giorno prima.
Colpa, probabilmente, di tutte le misture che il "chimico" di Cosa Nostra ha dovuto preparare in vita sua. Acidi e basi li fanno quanto meno lacrimare, a lungo andare, quegli occhi. Certo è che, se avesse dovuto sentirsi così stanco anche quando giocava al piccolo Cagliostro con storte ed alambicchi, i suoi colleghi mafiosi non sanno a che razza di esplosione hanno rischiato di dover incolpevolmente assistere.
Sia come sia, anche dell'interrogatorio del 2 aprile 1993, come del precedente, nessuno, salvo coloro che erano presenti a New York, sapeva qualcosa. Ma in questo caso il verbale, con un ritardo ancor più clamoroso ed inquietante, verrà fuori addirittura
dopo la fine del processo di primo grado. Per l'esattezza soltanto verso la fine di aprile del 1996, cioè un paio di settimane dopo la sentenza di condanna di primo grado, emanata il 5 aprile dello stesso anno.
Ma torniamo, per un attimo, all'udienza del 29 novembre 1994. D
opo la fortuita scoperta del verbale del 3 aprile 1993, la difesa di Bruno Contrada continua a controinterrogare Mannoia:

AVVOCATO MILIO - "Lei nel mese di marzo-aprile 1993 non era stato convocato davanti ad altre Autorità Giudiziarie italiane?"

MANNOIA - "Avvocato, sono domande difficili per me, perchè non sono in grado di risponderle."

Ancora quel difettuccio di memoria. Ma stavolta complicato anche dalla "difficoltà" della domanda pòsta dall'avvocato. Domanda difficile per Mannoia, certamente, ma non per una sua presunta incomprensibilità o per l'uso di linguaggi tecnici o di idiomi strani, bensì per un motivo ben preciso. La domanda è "difficile" perchè mette Mannoia in difficoltà, e lui non è in grado di rispondere, come lui stesso afferma, perchè se dovesse rispondere dovrebbe ammettere che anche il 2 aprile del 1993, davanti ai giudici nisseni, egli aveva dichiarato in maniera esplicita ed inequivocabile di non aver nulla da dire sul conto di Contrada sia per cognizione diretta sia per via indiretta e di non aver mai sentito parlare di lui
"come persona legata o comunque vicina a Cosa Nostra".
Invece Mannoia non fa cenno ai giudici Ingargiola, Barresi e Puleo dell'interrogatorio del 2 aprile 1993. Forse spera che non venga mai scoperto, al contrario di quello del 3 aprile che è saltato inopinatamente fuori. A precisa domanda dell'avvocato Milio, così parla Mannoia:

AVVOCATO MILIO - "Dopo l'aprile del 1993 quando è stato risentito?"

MANNOIA - "Gennaio 1994, se non ricordo male."

Mannoia non dice neppure una parola sull'interrogatorio reso ai magistrati nisseni il 2 aprile 1993. Non ne aveva fatto cenno, del resto, neanche il giorno successivo, ossia il 3 aprile 1993, ai magistrati palermitani volati negli Stati Uniti per interrogarlo circa fatti legati ad un altro processo.


3.

Dopo nove mesi da quei due interrogatori dell'aprile del 1993, e precisamente il
27 gennaio 1994, interrogato a Washington, Mannoia ritrova prodigiosamente la memoria e accantona all'improvviso ogni possibilità di confusione sui nomi dei poliziotti, dichiarando ai magistrati inquirenti palermitani, nell'àmbito del processo Contrada, quanto segue (che è anche quanto ribadirà nell'udienza del 29 novembre 1994):

"Ero a conoscenza anche di uno stretto rapporto esistente tra Riccobono Rosario e Bruno Contrada, allora anch'egli funzionario di Polizia a Palermo. Di questo particolare rapporto tra i due cominciò a parlarmi per primo, nelle circostanze e per i motivi che adesso dirò, lo stesso Bontade Stefano. Appresi notizie più dettagliate, dopo la morte del Riccobono, da altri uomini d'onore della mia famiglia con me detenuti, ed in particolare da Pietro Lo Jacono. Nel 1976 Stefano Giaconia fu ucciso soprattutto per volere del Riccobono, nei cui confronti aveva messo in giro la voce che egli era uno 'sbirro', proprio perchè intratteneva rapporti con il Contrada, e aveva in particolare accusato il Riccobono di essere stato lui a farlo arrestare a Napoli. In quel periodo la decisione di uccidere il Giaconia sembrò a tutti noi giustificata, poichè nessuno poteva credere ad una simile posizione del Riccobono. Successivamente, intorno agli anni 1979-1980, si determinò una situazione di crisi tra Riccobono e Bontade. Quest'ultimo, in questo contesto, più di una volta si lasciò sfuggire, parlando anche davanti a me, che la precedente eliminazione di Giaconia era stata ingiusta, poichè in effetti il Giaconia aveva ragione, le sue accuse a Riccobono di essere uno 'sbirro' erano fondate e che Riccobono era un disonesto. Successivamente, come ho già detto, appresi informazioni più dettagliate sulla natura del rapporto esistente tra il Riccobono e il Contrada. L'uno faceva il confidente dell'altro. Contrada raccontava a Riccobono le cose della Polizia, cose che potevano interessare a Riccobono stesso o direttamente o anche indirettamente, nel senso che il Riccobono le utilizzava per se stesso ovvero anche per altri esponenti di Cosa Nostra. In particolare e più precisamente, il Contrada informava preventivamente Riccobono di iniziative o operazioni della Polizia, in maniera che lui potesse prevenire catture o comunque danni di altro genere. Per contro, come ho detto, Riccobono ricompensava il Contrada in due modi. So di ricompense materiali dirette, tra cui, ad esempio, un appartamento che Angelo Graziano procurò a Contrada.
(Nell'udienza del 29 novembre 1994, Mannoia aggiungerà: "In una occasione io sentii parlare il Graziano rivolgendosi al Riccobono e al Giaconia dice: 'ho procurato una casa al dottor Bruno Contrada'... Sì, un'indicazione così, 'mi sono procurato per trovare una casa, ho procurato una casa al dottor Contrada'. Ho sentito il Graziano che diceva queste parole, io non so cosa intendeva in specifico, ho procurato un appartamento al dottore Contrada... nel 1974 o 1975, in quell'epoca, non posso essere preciso sulle date... Via, città? No, non lo so", nda). Inoltre, ed in questo senso ho parlato di Riccobono come 'confidente' del Contrada, Riccobono passava a Contrada informazioni. Queste informazioni venivano utilizzate dal Contrada per effettuare operazioni di polizia nei confronti di delinquenti comuni, o nei confronti di persone che egli, comunque, poteva 'toccare' senza creare dissensi nel Riccobono ed in Cosa Nostra.
Le Signorie Loro mi dicono che nel 1975, a seguito dell'omicidio dell'agente di Polizia Gaetano Cappiello, la Squadra Mobile di Palermo, anche con il concorso di Contrada, inoltrò alla magistratura un rapporto di denunzia a carico di Riccobono e di altri esponenti della sua famiglia. Io non so bene come sia andata questa cosa, però ricordo, sia pur genericamente, che qualcuno dei parenti di uno dei responsabili (forse Davì Salvatore o Buffa Antonino o qualcun altro) fece delle dichiarazioni o delle confidenze alla Polizia, tali da rendere inevitabile lo sviluppo delle indagini e la presentazione del rapporto di denuncia.
Io non ho mai avuto personalmente necessità di richiedere un intervento di Contrada per questioni che mi riguardavano. Però sapevo benissimo che, se avessi avuto una necessità di questo genere, non avrei dovuto fare altro che chiedere al mio capofamiglia Stefano Bontade nella certezza che l'intervento a mio favore ci sarebbe stato, nei limiti del possibile. In effetti, è ovvio che, a seconda delle situazioni, certi interventi si possono fare oppure non si possono fare. In quest'ultimo caso, comunque, può essere possibile attenuare i danni senza compromettere l'immagine di chi rende il favore."

Mannoia avrebbe, dunque, sempre saputo queste cose? E non le avrebbe dette per cinque anni? Cinque anni, o poco meno, passati senza accusare una figura centrale dell'apparato investigativo ed istituzionale sul conto della quale Mannoia avrebbe potuto dire già da sùbito delle cose compromettenti. Un "pentito" che aveva già rivolto il suo indice accusatore contro un personaggio potente e di altissimo livello istituzionale come Giulio Andreotti, avrebbe esitato a dire ciò che sapeva contro un personaggio meno noto e molto meno potente come Bruno Contrada?
La stessa sentenza di condanna di Contrada a 10 anni in primo grado ci aiuta ancora una volta a far luce. Che poi si tratti di una luce oscura e fredda, beh, questo è un altro paio di maniche. Alle pagine che vanno da 577 a 580, nelle motivazioni della suddetta sentenza, si legge: "Quando nel 1989 Mannoia aveva iniziato la propria collaborazione si era limitato ad autoaccusarsi di appartenenza all'associazione criminale 'Cosa Nostra' nonchè di reati in materia di armi e traffico di stupefacenti e, deliberatamente, aveva deciso di non affrontare il delicato tema delle accuse nei confronti di soggetti appartenenti alle Istituzioni collusi con la mafia per una certa sfiducia nei confronti dello Stato italiano che non gli sembrava approntare alcuna efficace politica governativa di lotta alla mafia nè tantomeno di tutela dei collaboranti e dei loro familiari". Nel contempo, "Mannoia aveva deciso anche di non confessare le proprie responsabilità in ordine agli omicidi commessi per ragioni esclusivamente personali, dovute alla difficoltà di affrontare questo aspetto della propria antecedente condotta di vita con la propria convivente e con la figlia avuta da quest'ultima".
Ricapitolando: stando a quanto scritto dai giudici della V sezione penale del Tribunale di Palermo, Francesco Marino Mannoia, agli albori del suo "pentimento", nel 1989, non si fida dello Stato e non si sente protetto, dunque non parla di nomi "scottanti". Non parla neppure degli omicidi commessi perchè se ne vergogna agli occhi della compagna e della figlia. Sommando queste due premesse, otteniamo la conclusione che Mannoia non avrebbe accusato sùbito Bruno Contrada perchè non aveva fiducia nello Stato e non aveva confessato tutti i suoi misfatti per il pudore di non renderli noti alla sua donna e a sua figlia.
Questo potrebbe parzialmente rispondere al quesito sul perchè del suo silenzio quinquennale? Forse. Ma, nel gennaio del 1993, si verifica una svolta. Mannoia raggiunge con le autorità statunitensi un accordo in base al quale, se confessa tutte le proprie responsabilità, il Governo lo ammetterà al programma di sicurezza (lo stesso Mannoia ne parla nella già citata udienza del processo Contrada del 29 novembre 1994): in un'intervista del 9 dicembre 2005 a "La Stampa" , Giulio Andreotti ricorda che "su richiesta di un magistrato americano, il procuratore Caselli diede a Mannoia la garanzia che qualunque cosa avesse detto al processo a mio carico non poteva essere usata contro di lui in Italia. Per cui, in poche parole, che io non avrei neanche potuto querelare Mannoia". Andreotti verrà poi smentito dai magistrati palermitani, ma, anche se Mannoia non contrasse una sorta di "libertà internazionale di calunnia", è un dato di fatto che, in ogni caso, già nell'aprile del 1993 (mese dei due interrogatori rivoltigli dai magistrati inquirenti prima di Caltanissetta e poi di Palermo) non sussisteva più quella situazione di timore che induceva il Mannoia medesimo a tacere sulle collusioni fra mafia e uomini delle istituzioni perchè non aveva fiducia dello Stato e non si sentiva protetto. Ad aprile egli rientra ormai a pieno titolo nel programma di protezione dei "pentiti". Accusa Giulio Andreotti. Ma continua a non ricordare nulla sul conto di Bruno Contrada. Fino al 27 gennaio 1994, quando decide di "vuotare" il suo sacco davanti ai pubblici ministeri che indagano su Contrada. Ribadendo, poi, le sue accuse in udienza il 29 novembre 1994.

Dopo aver fugacemente sottolineato che, come al solito, ciò che Mannoia riporta non lo sa per cognizione diretta ma soltanto perchè "riferitogli" da Stefano Bontade (ovviamente già morto e sepolto da anni e dunque impossibilitato a confermare o a smentire), c'è un'altra domanda da porsi. Mannoia, come abbiamo visto, dice: "
qualcuno dei parenti di uno dei responsabili (forse Davì Salvatore o Buffa Antonino o qualcun altro) fece delle dichiarazioni o delle confidenze alla Polizia, tali da rendere inevitabile lo sviluppo delle indagini e la presentazione del rapporto di denuncia". Il che sarebbe avvenuto intorno al 1975, periodo a cui risalgono i rapporti di denuncia della Squadra Mobile diretta da Bruno Contrada ai danni degli uomini della cosca di Riccobono. A parte il fatto che quelle "dichiarazioni o confidenze" ben poco aggiunsero a quanto la Polizia già sapeva ed aveva raccolto in termini di prove (e questo è stato confermato da tutti gli agenti e funzionari della Mobile che parteciparono a quelle attività di polizia giudiziaria, frustrando dunque il tentativo di Mannoia di sminuire la valenza dell'attività investigativa di Contrada), la domanda che sorge imperiosamente è questa: come fa Marino Mannoia ad essere a conoscenza di quelle "dichiarazioni o confidenze" dei familiari di Davì o di Buffa tra infinite altre testimonianze? Ha forse letto il rapporto di polizia? Qualcuno glielo ha riferito? Ha seguito il successivo processo in Corte d'Assise?
Mannoia, in poche parole, vuol dare ad intendere che Contrada non potè esimersi dal fare quei rapporti di denuncia perchè i parenti di Buffa o di Davì avevano fatto delle confidenze alla Polizia. Ciò è semplicemente assurdo. L'entità dei rapporti di denuncia, gli elementi di prova in essi addotti e la mole stessa del lavoro vanno ben al di là delle semplici confidenze che quei non meglio precisati individui fecero sul fatto che il loro congiunto soleva frequentare uomini di Riccobono ed il Riccobono stesso. Nei rapporti Contrada non si limita a dimostrare soltanto che Buffa e Davì conoscevano Riccobono (un vero investigatore cerca prove più serie della semplice conoscenza, soprattutto in una città "piccola" come Palermo dove spesso tutti conoscono tutti): trova ed espone elementi ben più pregnanti, che non potevano scaturire dalle semplici confidenze dei parenti dei mafiosi. Elementi che si possono trovare soltanto portando avanti con tenacia uno sforzo investigativo notevole, che va ben al di là di un semplice "dover fare", soprattutto di un "dover fare" a uso e consumo della propria immagine ufficiale per "dover coprire" i loschi giochi del proprio alter ego nascosto, come sostiene l'accusa e come gli stessi giudici di primo grado hanno incredibilmente scritto nella sentenza. Contrada e i suoi uomini, in altre parole, lavorano sul serio e non si basano soltanto sulle dichiarazioni dei confidenti; scavano in profondità senza sosta; portano alla luce elementi che non erano scaturiti (nè potevano scaturire) dalle confidenze ricevute. Ciò risulta dai rapporti medesimi e dalla testimonianza di tutti gli agenti ed ufficiali di polizia giudiziaria che parteciparono alle indagini e alla redazione dei rapporti. L'accusa di Mannoia secondo la quale Contrada non potè fare a meno di interessarsi della famiglia di Partanna Mondello sol perchè c'erano state le confidenze dei parenti di Buffa o di Davì, oltre a essere ridicola per i motivi sopra esposti, è anche riduttiva. Come spiega, infatti, Mannoia il fatto che Contrada continuò ad interessarsi di Riccobono e dei suoi anche in seguito, e anche per vicende che nulla avevano a che fare con quelle famose "confidenze"? Come dimostra, fra gli altri, il
rapporto giudiziario di categoria M1/76 con cui, il 2 agosto 1976, il capo della Squadra Mobile Bruno Contrada denuncia Gaspare Mutolo, già arrestato dagli uomini di Contrada nel maggio dello stesso anno e detenuto per altra causa, quale responsabile di associazione per delinquere di tipo mafioso, tentativo di estorsione in danno di Armando Feo, Diego Serraino, Girolamo Gorgone, Antonino Franzone, Vito Picone, Guido Calefati e Pietro Pisa e per danneggiamenti mediante esplosivo. Col medesimo rapporto Contrada denuncia Rosario Riccobono, Antonino Buffa, Salvatore Micalizzi (già arrestato dagli uomini di Contrada nell'aprile 1976), Michele Micalizzi, Salvatore Davì, Ferdinando Lo Piccolo, Angelo e Giovan Battista Pipitone, Croce e Domenico Simonetta, Giuseppe e Vincenzo Vallelunga, Calogero e Vito Passalacqua, Erasmo Puccio, Gaetano Ferrante e Giovanni Battaglia per concorso negli stessi reati addebitati a Gaspare Mutolo e come componenti di una vasta organizzazione criminale operante a Partanna Mondello e nelle zone comprese tra Capaci, Carini e Cinisi. "Continuai a seguire la famiglia mafiosa di Riccobono anche negli anni seguenti" - aggiunge Contrada, sempre nell'udienza del 22 novembre 1994, come abbiamo già riportato nel capitolo dedicato alla sua carriera - "perchè erano dei sanguinari e li ritenevo pericolosissimi".
Oltre a queste considerazioni, elementari quanto lapalissiane, bisogna ricordare ancora una volta che Contrada era particolarmente motivato per queste indagini poichè esse riguardavano, fra le altre cose, anche e soprattutto la morte del suo agente Gaetano Cappiello, un ragazzo cui lo stesso Contrada era molto legato. Lo strenuo impegno profuso, come abbiamo detto, dal capo della Squadra Mobile nelle indagini e nella redazione dei rapporti di polizia giudiziaria continua senza posa anche in fase processuale, quando i mafiosi da lui denunciati vengono rinviati a giudizio. E' Contrada, infatti, ad interessarsi per procurare un avvocato di parte civile alla famiglia Cappiello, incaricando, e pagandone personalmente la parcella, l'avvocato Francesco Leone. Riportiamo ancora una volta, dopo averne già parlato nel capitolo dedicato alla carriera di Bruno Contrada, quanto lo stesso Contrada ha dichiarato in proposito:
"Questa fu un'indagine che io assunsi in prima persona e non con altri" - ricorda Contrada durante il processo, nell'udienza del 22 novembre 1994 - "il che significò che espletai io personalmente tutti gli atti di polizia giudiziaria, dagli interrogatori ai sopralluoghi, alle perquisizioni, agli accertamenti. Gaetano Cappiello era un ragazzo che mi stava molto a cuore, lo consideravo un figlio. Trovai anche un avvocato di parte civile per la famiglia Cappiello, ossia l'avvocato Francesco Leone, e aiutai finanziariamente la famiglia dell'agente ucciso anche in altre occasioni".
Ma Contrada continuò ad interessarsi delle vicende processuali scaturite dai suoi rapporti di denuncia nei confronti di Riccobono e dei suoi anche in seguito. Incessantemente. Al processo in Corte d'Assise Contrada fu presente a tutte le udienze, a fianco della vedova e degli altri familiari di Gaetano
Cappiello. Altro che "non potersi esimere" perchè i parenti di Buffa o Davì avevano reso alla Polizia le loro confidenze...
Tra parentesi, quel processo si concluse in maniera alquanto anomala: mentre altri venivano condannati per l'omicidio Cappiello, la Corte d'Assise assolveva Rosario Riccobono e Gaspare Mutolo sia per l'omicidio che per il reato di associazione a delinquere, nonostante le consistenti prove portate a loro carico da Bruno Contrada e dalla Squadra Mobile. Il presidente della Corte era Salvatore Agrifoglio, ma il giudice a latere, estensore della sentenza, si chiamava Francesco Ingargiola. Lo stesso che, anni dopo, condannerà Contrada per essere stato un presunto "amico" di Riccobono. Ma Contrada aveva denunciato Riccobono e Ingargiola lo aveva assolto.



2.3. Nel mezzo del cammin di nostra udienza...



Dopo aver sviscerato nei dettagli le contraddizioni di Mannoia e la vicenda dei suoi due interrogatori nascosti alla Difesa di Bruno Contrada, occorre fare un cenno anche alle spiegazioni che i PM Ingroia e Morvillo fornirono circa questa misteriosa vicenda. L'udienza è sempre quella.
Quella del 29 novembre 1994.
In quella tiepida mattina autunnale, il presidente Ingargiola, che di lì a qualche mese avrebbe dato ragione a Mannoia, non si esentò, tuttavia, dal porre un paio di quesiti. Volle sapere, ad esempio, se il verbale del 3 aprile 1993, con la risposta negativa di Mannoia su Contrada, faceva parte del fascicolo del PM relativo al processo Contrada. E, di curiosità in curiosità, volle anche sapere se la domanda all'epoca pòsta a Mannoia sul conto di Contrada e sulla quale Mannoia aveva appena detto di aver glissato per far cessare quell'estenuante interrogatorio in quanto era stanco e stressato, fu effettivamente l'ultima domanda di quell'infinito esame o se fu seguita da altre domande. A queste domande del presidente, il PM Ingroia dà una risposta che riportiamo testualmente, in quanto si commenta da sola:
"Questo interrogatorio (quello del 3 aprile 1993) non venne stralciato e trasmesso agli atti del processo Contrada perchè venne ritenuto evidentemente non rilevante ai fini del processo Contrada, poichè non riferiva alcuna circostanza a carico del dottor Contrada. Questo, dico, è un dato di fatto, non venne trasmesso al fascicolo del PM, al fascicolo delle indagini preliminari del processo Contrada. Noi abbiamo copia di quanto trasmessoci con la missiva in data 5 febbraio 1994: 'si trasmette, per quanto di utilità, copia del verbale di interrogatorio reso da Francesco Marino Manoia il 27 gennaio 1994 sulle parti concernenti Bruno Contrada."
Queste parole si commentano da sole, abbiamo detto. Ma come resistere alla tentazione di un paio di chiose?
In sostanza, se siamo ancora capaci di intendere la lingua del Paese ove il sì sona, il PM, senza alcuna remora, dichiara in udienza che un atto istruttorio favorevole all'imputato (ossia il verbale del 3 aprile 1993) non va portato a conoscenza della Difesa e del Tribunale (come in effetti non è stato portato), mentre un atto istruttorio sfavorevole all'imputato (il verbale del 27 gennaio 1994) deve essere inserito nel fascicolo del PM (come in effetti è successo) e quindi portato a conoscenza della Difesa e del Tribunale.
Chi non creda a quanto sta leggendo, vada a consultare le pagine 117 e 118 del verbale dell'udienza del 29 novembre 1994.
Chi tenti, invece, di giustificare quanto detto dal PM in tal senso, vada a leggersi l'articolo 358 del codice di procedura penale. Anzi, risparmierò a quel desso la fatica di alzarsi per andare a procurarsi un codice. Glielo citerò io:
l'art. 358 del codice di procedura penale recita testualmente: "Il pubblico ministero compie ogni attività necessaria ai fini indicati nell'art. 326 e svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini".
Possiamo quanto meno chiederci, alla luce della lettera del codice, che tipo di criteri siano stati seguiti nella conduzione delle indagini a carico di Bruno Contrada?



2.4. L'udienza del 9 dicembre 1994


L'udienza del 29 novembre 1994, sì foriera di eclatanti novità, si chiude tra nubi di dubbi e stati d'animo alternati e contrastanti. Il presidente Ingargiola, ancorchè in maniera
non esplicita ma sottintesa, chiede l'acquisizione agli atti del processo Contrada del verbale di interrogatorio di Francesco Marino Mannoia datato 3 aprile 1993. Il PM si riserva di integrare quest'atto: "Il PM farà questa verifica e riferirà al Tribunale alla prossima udienza" dichiara il sostituto procuratore Ingroia.
La successiva udienza, datata 9 dicembre 1994, introduce un nuovo colpo di scena. In questa nuova udienza, Ingroia comincia col riferire al Tribunale quanto segue:

INGROIA - "Il PM ha acquisito copia del verbale dell'interrogatorio reso da Mannoia in sede di commissione rogatoria a New York il 3 aprile 1993, nella parte da cui risulta verbalizzata una risposta ad una domanda fatta dai magistrati che in quel momento lo interrogavano. Tale risposta è la seguente: 'di Contrada non ricordo nulla che possa avere interesse processuale, con tanti nomi di poliziotti potrei anche confondermi...' "

PRESIDENTE INGARGIOLA - "La parte relativa all'inizio e alla conclusione dell'interrogatorio, come orario?"

INGROIA - "Sì, sì, anche la presenza... di chiudere alle ore 1,00 del mattino del 4 aprile 1993. L'inizio, 1993, 3 aprile, ore 10,00 in New York, quindi risulta aperto alle ore 10,00 del 3 aprile..."

Ed ecco l'attesa epifania. Il verbale dell'interrogatorio del 3 aprile 1993 viene finalmente mostrato al popolo. Consta di 20 pagine. All'inizio, questo pare un particolare di scarso rilievo, ma, ben presto, ci si accorge del contrario. Non occorre il fine intuito di Philo Vance o la pacata riflessività di Nero Wolfe per rendersi conto di una serie di deduzioni logiche e oggettive.
Se, come risulta dagli atti, l'interrogatorio ebbe inizio il 3 aprile 1993 alle 10,00 del mattino ed è terminato all'1,oo del mattino seguente, ed ha dunque avuto, anche a voler ipotizzare una conduzione ininterrotta dello stesso, una durata complessiva di 15 ore, se ne deve dedurre, date le 20 pagine del verbale, una durata media di ben 45 minuti per ogni pagina. Ma la dichiarazione con cui Mannoia afferma di non sapere nulla di Bruno Contrada si trova, udite, udite, all'inizio della pagina 18 del verbale. Ma Mannoia non aveva detto di aver taciuto sul conto di Contrada perchè voleva far cessare immediatamente quell'insopportabile
tour de force che lo aveva ridotto una larva umana, in quanto si sentiva stanco, voleva buttarsi sul letto, era distrutto psicologicamente, era stressato e gli occhi gli sanguinavano? Come si spiega allora il riempimento di pagina 18 e delle altre due rimanenti pagine di verbale con nuove dichiarazioni? E, considerando il calcolo della durata media delle dichiarazioni di ogni pagina, cioè 45 minuti circa, due pagine e mezzo di verbale si traducono in circa due ore di nuove dichiarazioni e di nuovi sforzi di memoria. Due ore ancora con quegli occhi sanguinanti, con una situazione di stress intollerabile, in uno stato di prostrazione psicologica e via elencando? Più di quanto una mente "stanca" potrebbe sopportare... E, a parte questo, che già di per sè basterebbe a farci rendere conto di come realmente siano andate le cose (ovvero, Mannoia disse di non sapere nulla di Contrada non perchè era stanco e voleva andare a letto ma perchè realmente non sapeva nulla di lui), possiamo anche aggiungere che, se Mannoia si fosse trovato davvero nelle miserevoli condizioni che ha denunciato e in tali condizioni avesse portato stoicamente a termine l'interrogatorio resistendo altre due ore a costo di sforzi che non appare difficile immaginare, in quel caso, ciclopici, probabilmente quanto da lui dichiarato da pagina 18 a pagina 20, in condizioni così instabili, avrebbe potuto essere quanto meno inficiato dallo stato di confusione mentale originato da quell'estrema stanchezza. Ma questo riguarda altri processi, e non siamo neanche in grado di dire quali, poichè il verbale è stato prodotto dal PM con i giusti ed ovvi omissis su argomenti riguardanti vicende processuali diverse e non attinenti a quella di Bruno Contrada.




3. SFIDA AL LETTORE



Un appartamento di cui Bruno Contrada non aveva nessun tipo di disponibilità (non ne è risultato nè proprietario, nè possessore, nè locatario) ma nel quale si recava per andare a trovare amici, cosa che tutti sogliamo fare con gioia e naturalezza; un costruttore ben diverso da quello indicato dai "pentiti"; quest'ultimo, peraltro, da poco denunciato da Contrada insieme ai suoi cinque fratelli; le testimonianze dei locatari di quell'appartamento e del portiere dello stabile, tutte a favore di Contrada; lo stesso Contrada, pedinato intorno al 1975 da Gaspare Mutolo per cogliere l'occasione più propizia per farlo fuori perchè ritenuto il più pericoloso avversario di Cosa Nostra, ma che, al contempo, secondo il "pentito", avrebbe ricevuto favori da un "collega" dello stesso Mutolo. Giustamente, a tal proposito, Contrada in persona si chiede e chiede ai giudici, nell'udienza del 20 dicembre 1994: "Ero amico di Graziano tanto da accettarne i favori o nemico a tal punto che mi volevano uccidere?".
L'amnesia di Francesco Marino Mannoia, che, dal nulla, dopo due interrogatori in cui aveva detto di non sapere nulla sul conto di Bruno Contrada, tira fuori dal cilindro il nome dello stesso Contrada, e lo fa dopo circa quattro anni dall'inizio della sua collaborazione con la giustizia e dopo più di un anno dall'arresto dell'ex-capo della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo. Un arresto a cui, purtroppo, giornali e televisioni (anche stranieri) hanno dato ampio spaziio, dando, peraltro, risalto all'accusa più eclatante, ossia quella presunta amicizia di Contrada con Riccobono di cui lo stesso Mannoia, dopo il suo inopinato
satori, parlerà a partire dal 27 gennaio 1994. E prima di questa data Mannoia non ricordava oppure era troppo stanco per parlare, anche se poi è risultato che ha parlato per almeno altre due ore... "Per quale motivo il Mannoia soltanto il 27 gennaio 1994 si sia indotto o sia stato indotto ad accusare Bruno Contrada (che era in carcere da 13 mesi e che di lì a poco, cioè il 12 febbraio 1994, sarebbe stato rinviato a giudizio)" - scrivono gli avvocati Milio e Sbacchi nell'atto di impugnazione in appello della sentenza di primo grado - "rimane un grosso punto interrogativo non soltanto sotto l'aspetto specifico delle propalazioni di Mannoia ma afferente anche, di riflesso, su tutta la vicenda giudiziaria del dottore Contrada. Cosa sia accaduto tra l'aprile 1993 e il gennaio 1994 e, in particolare, se in tale lasso di tempo il Manoia abbia avuto occasione di incontrare qualcuno interessato a sollecitazioni o stimolazioni tendenti al consolidamento delle accuse gravanti sul dottore Contrada, è qualcosa su cui la Difesa non è in grado di spiegare ma soltanto di prospettare". Queste affermazioni della Difesa vanno coordinate, con un argumentum a contrario, con quanto scritto dai giudici nelle motivazioni della sentenza di primo grado alle pagine 610 e 611 e che abbiamo già riportato sopra: "Orbene, la ricostruzione della progressiva esposizione da parte del Mannoia della notizie in suo possesso sull'imputato (...) non legittima di per sè un giudizio di inaffidabilità della fonte o un sospetto di adattamento manipolatorio delle sue dichiarazioni. Con questo non si vuole omettere di rilevare che il dato relativo alla successione nel tempo delle dichiarazioni del Mannoia impone di valutare con maggiore prudenza le sue dichiarazioni al fine di verificare se le notizie in suo possesso siano state frutto di pedissequi adeguamenti ad altre risultanze processuali ovvero se lo stesso abbia introdotto con le proprie dichiarazioni particolari o episodi nuovi, idonei a rilevarne l'autonomia rispetto ad altre fonti e l'attendibilità rispetto a riscontri di natura estrinseca". In altre parole, come paventano gli avvocati Milio e Sbacchi sempre nell'atto di impugnazione della sentenza di primo grado, "l'esame attento delle notizie date sul dottore Contrada da Mannoia, messe in relazione ai tempi in cui sono state portate a conoscenza dei PM e poi del Tribunale, porterebbe proprio a queste conclusioni di adattamento manipolatorio e di pedissequi adeguamenti ad altre risultanze processuali che, per escluderle, sono state ipotizzate dal Giudice. La notizia di Mannoia sulla casa 'procurata' da Graziano a Contrada è un 'pedissequo adeguamento ad altra risultanza processuale', cioè alla notizia analoga di Mutolo". Sotto il velame de li versi strani, ciò significa che, poichè Mannoia, dopo aver prodigiosamente riacquistato la memoria nel gennaio 1994, non ha formulato nuove accuse a Contrada (tranne forse la fola della patente di Pinè Greco) ma ha praticamente avallato le accuse già formulate in istruttoria (23 ottobre 1992) e in dibattimento (7 giugno 1994) da Gaspare Mutolo circa l'appartamento di via Guido Jung (accuse che sono risultate palesemente infondate), la Difesa ha avuto ragione di temere, come scrivono ancora gli avvocati nel sopracitato atto di impugnazione, che "Marino Mannoia non ha detto, aggiunto, precisato null'altro: riportando la conversazione di Graziano, Riccobono e Giaconia, tutti e tre uccisi, rispettivamente nel 1977, nel 1982 e nel 1976, Mannoia deve solo dire: 'Graziano ha detto di avere procurato una casa a Contrada' e ciò per confermare, avallare, corroborare l'accusa di Gaspare Mutolo: ogni altra parola sarebbe inutile ai fini dello scopo da raggiungere. La propalazione di Marino Mannoia sulla casa è quindi un 'pedissequo adeguamento ad altre risultanze processuali', cioè all'accusa di Mutolo. Ed è raggiunto il fine di insinuare il dubbio, nonostante l'acquisizione della prova che il dottore Contrada non avesse mai goduto di un favore del genere proveniente dal mafioso Graziano".
Mannoia non sa niente di più rispetto a quanto ha già detto Mutolo (come egli stesso racconta in udienza il 29 novembre 1994, quando dice "Ho sentito il Graziano che diceva queste parole: 'mi sono procurato per trovare una casa, ho procurato una casa al dottor Contrada'. Io non so cosa intendeva in specifico"); non riesce ad essere preciso nè sulle date ("nel 1974 o 1975, in quell'epoca, non posso essere preciso sulle date...") nè sull'ubicazione dell'appartamento ("Via, città? No, non lo so"); parla, tanto per cambiare, non per conoscenza diretta ma per aver sentito dire da altri che, come abbiamo visto, sono morti ("In una occasione io sentii parlare il Graziano rivolgendosi al Riccobono e al Giaconia dice: 'ho procurato una casa al dottor Bruno Contrada'... Sì, un'indicazione così"). Indicazioni generiche. Vaghe. Non circostanziate.

Ce ne sarebbe abbastanza per far cadere l'accusa. Ma, alle pagine 346 e 347 delle motivazioni della sentenza di primo grado, pur riconoscendo che
"Mannoia e Mutolo riferiscono espressioni che per la loro genericità non sono riferibili a comportamenti precisi e concreti, infatti frasi come 'mi sono procurato per trovare una casa' o l' 'interessamento' di cui parla Mutolo non sono ricollegabili ad azioni determinate e definite nel piano pratico, tali da consentire un agevole riscontro. (...) Invero, la estrema genericità del termine 'mettere a disposizione' non consente di stabilire con adeguata precisione il tipo di disponibilità, giuridica o materiale, cui il Graziano abbia inteso fare riferimento e peraltro, come evidenziato, il Mutolo ha fatto cenno ad alcuni tramiti non meglio identificati attraverso i queli il Graziano avrebbe realizzato la sua intermediazione, circostanza che rivela l'inconducenza di indagini finalizzate a verificare l'eventuale esistenza di titoli idonei a stabilire un collegamento giuridico diretto tra il Graziano ed il dottore Contrada", i giudici concludono ugualmente che "occorre sottolineare che sul punto le dichiarazioni di Mutolo e Marino Mannoia sono concordi e univoche perchè attribuiscono la medesima notizia allo stesso soggetto (l'interessamento del Graziano)". Vale a dire che non importa che le dichiarazioni dei due "pentiti" siano fumose e poco "riscontrabili", l'importante è che tutti e due i "collaboratori di giustizia" dicano la stessa cosa più o meno nella stessa forma: e questo, al di là della mancanza di riscontri o, peggio, in presenza di prove contrarie (vedasi la testimonianze di Renato Di Falco, Camillo Albegiani, Gualberto Artemisio Carducci e Vito Lazzara), basta a creare una prova d'accusa. E poi, dato che i giudici parlano a chiare lettere di una "inconducenza di indagini finalizzate a verificare l'eventuale esistenza di titoli idonei a stabilire un collegamento giuridico diretto tra il Graziano ed il dottore Contrada", ciò dimostra che essi hanno, in definitiva, creduto ai vari Di Falco, Albegiani e Carducci (che hanno a ragione sostenuto, con la conferma del portiere Vito Lazzara, di essere gli unici in possesso di titoli giuridici di proprietà o di locazione relativamente ai due interni 39 e 40 del 16° piano di via Guido Jung, 12). Ma l'accusa non è caduta. Dobbiamo dedurne che i giudici, evidentemente, hanno ritenuto che Contrada, pur non avendo una disponibilità dell'appartamento sul piano giuridico, ce l'avesse in ogni caso sul piano meramente materiale? Oppure hanno creduto che Mutolo e Mannoia si riferissero ad un altro appartamento? Ma di un altro appartamento non si è mai parlato, durante il processo. Qual è, allora, la conclusione? Secondo i giudici Contrada ricevette o no in regalo questo appartamento da Graziano o da chi per lui? O ne ricevette un altro? E, se sì, quest'altro appartamento qual è e dove si trova? Perdonate l'ignoranza del vostro cronista, ma, a questo punto, c'è da non capirci più niente. E sì che il diritto penale dovrebbe essere il regno della certezza...
C'è da rilevare che, in maniera che risulta invero abbastanza beffarda, il collegio giudicante, alle pagine che vanno da 347 a 350 delle motivazioni della sentenza di primo grado, mette in risalto che la "personalità criminale" di Angelo Graziano si era evidenziata soltanto nel corso del 1975, cioè "dopo" il presunto "regalo" da questi fatto a Contrada: "Rilevasi, inoltre, che non vi è contrasto, come sostiene invece la difesa" - scrivono i giudici - "tra le dichiarazioni del Mutolo e l'attività investigativa svolta dall'imputato nei confronti del Graziano. Ed infatti la data dell' 'interessamento' da parte del Graziano deve farsi risalire intorno al 1974, avuto riguardo alle concordi dichiarazioni sul punto di Mutolo e Mannoia. Ora, in tale epoca, in totale aderenza a quanto sostenuto da Mutolo, il Graziano, seppur affiliato a Cosa Nostra, manteneva ancora un'apparenza di 'costruttore pulito', non essendo ancora noto agli inquirenti come mafioso. Dalla documentazione acquisita all'odierno procedimento tale dato ha trovato ampio riscontro. Risulta, infatti, che la personalità criminale del Graziano si era evidenziata soltanto nel corso del 1975 inoltrato allorquando era stato tratto in arresto per un tentativo di estorsione in danno del costruttore Emanuele Albanese. (...) Nè può trascurarsi di evidenziare che l'interessamento da parte della Squadra Mobile di Palermo nei confronti dei fratelli Graziano era stato originato da uno spunto investigativo spontaneamente offerto da una delle vittime dell'azione cruenta della mafia, La Corte Lorenzo, il quale aveva lasciato alla madre, prima di essere ucciso, un foglio con i nominativi di coloro che, in caso di azioni violente ai suoi danni, avrebbe dovuto ritenere responsabili; la donna, dopo l'uccisione del figlio, aveva consegnato il suddetto appunto personalmente al dottor Boris Giuliano. (...) Da tutto quanto premesso si desume agevolmente che l'attività di servizio dispiegata dall'odierno imputato nei confronti del Graziano, quale emersa dalle suddette risultanze probatorie, collocata cronologicamente in epoca successiva all'asserito 'interessamento' del Graziano, originata da uno spunto investigativo proveniente da una delle vittime di mafia, preceduta da un rapporto di denuncia in stato di arresto del predetto, redatto del Nucleo Investigativo dei Carabinieri, non si pone affatto in contrasto con quanto riferito dal collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo". Capite? In altre parole, non conta che Contrada abbia denunciato ripetutamente Angelo Graziano e i suoi fratelli: secondo i giudici ha soltanto avuto la fortuna che lo avessero già fatto i Carabinieri e che fosse stato consegnato a Boris Giuliano il famoso bigliettino di Lorenzo La Corte. Ma se si segna un goal, non ha importanza che ci sia o meno la complicità del difensore avversario o un colpo di quello che la cabala napoletana indica col numero 23: siano elevate lodi e peana all'attaccante che ha segnato e basta. Soprattutto in un periodo come gli anni '70, in cui gli investigatori, vista la carenza di mezzi a disposizione, dovevano veramente Inoltre, se Contrada fosse stato davvero amico di Graziano e fosse stato con lui in dovere di disobbligarsi per l'appartamento ricevuto in dono, una volta "scoperta" la natura criminale del soggetto avrebbe comunque svolto la pervicace azione investigativa e di denuncia contro lo stesso Graziano e i suoi fratelli, come ha realmente fatto, o si sarebbe invece dato da fare per insabbiare tutto? E ancora, che vuol dire che la "personalità criminale" di Graziano sia saltata fuori soltanto nel corso del 1975 inoltrato? Dato che il rapporto di denuncia dei Carabinieri nei confronti di Graziano porta la data del 25 luglio 1975, vuol dire che l' "omaggio" di Graziano a Contrada avrebbe dovuto aver luogo al massimo entro la prima quindicina di luglio? Ma è pensabile e plausibile che in una città come Palermo, dove persino i muri hanno orecchie e si sa tutto di tutti, non si sapesse, o per lo meno non si sospettasse, soprattutto nell'àmbito delle forze dell'ordine, chi fosse realmente Angelo Graziano e che un investigatore del calibro di Contrada potesse rischiare, se proprio non si vuol credere alla sua conclamata buona fede, di compromettersi accettando un favore da un personaggio losco?
I giudici di primo grado non la pensano così. Anzi, partendo dal fatto che Contrada si recava davvero in quel famoso stabile, ancorchè imputato e testi abbiano spiegato con dovizia di particolari perchè e come ciò accadesse, i giudici colgono la palla al balzo e, a pagina 351 delle motivazioni della sentenza di primo grado, scrivono: "(...) deve rilevarsi che, in ogni caso, la notizia della disponibilità materiale da parte dello stesso imputato, non di uno bensì di due appartamenti in uno stabile di via Guido Jung, è risultata vera". Una nuova Lettre a Monsieur Chauvet. Il "vero poetico" non dev'essere necessariamente "vero" ma può essere anche soltanto "verosimile". Mutolo dice che Contrada disponeva di un appartamento datogli da Graziano in via Jung, 12? Contrada ha dimostrato che lì ci andava, ma che quell'appartamento non era suo nè gli poteva esser mai stato dato da Graziano e lui ci andava soltanto per trovare degli amici? Ma via! Contrada in quel condominio ci entrava. Dunque Mutolo ha ragione! Il suo racconto non sarà "vero" (le prove di quanto afferma non ci sono!) ma è "verosimile" perchè quella soglia Contrada la varcava. Il perchè e il percome Contrada la varcasse (cose che ha ampiamente dimostrato con l'avallo di numerosi testimoni), non hanno importanza. L'importante è che la genuinità del pentito non sia scalfita, come quella di uno yogurt che non sia scaduto. E i giudici non considerano Mutolo e le sue dichiarazioni in data di "scadenza" di tipo alimentare: "Per tutto quanto premesso" - scrivono, ancora a pagina 351 delle motivazioni della sentenza di primo grado - "ritiene il Tribunale che le verifiche in ordine alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo sui punti fin qui in esame abbiano dato esito complessivamente positivo". No comment, direbbe il gentleman inglese. L'italiano, e vieppiù il siciliano, penso che si esprimerebbe in maniera alquanto più colorita.
Ultima considerazione. In base a quello che abbiamo finora evidenziato, ce n'è abbastanza per dichiarare che o Mannoia ha mentito il 2 ed il 3 aprile 1993, dichiarando di non sapere nulla su Contrada, oppure ha mentito il 27 gennaio 1994 e poi il 29 novembre 1994, accusando Contrada e confermando alcune accuse già mosse all'ex-capo della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo da Gaspare Mutolo: nell'uno e nell'altro caso, il giudizio sulla cosiddetta "attendibilità intrinseca" del "pentito" Mannoia (che si riverbera, poi, anche sull' "attendibilità estrinseca", ossia sul piano dei riscontri oggettivi) deve essere negativo.
E, invece, ecco cosa scrive il collegio giudicante di primo grado nelle motivazioni della sentenza di condanna. A pag. 653 delle motivazioni della sentenza di primo grado si legge:
"Alla luce di tutte le considerazioni svolte, ritiene il Collegio che il contributo offerto, nell'àmbito dell'odierno procedimento, da parte del collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia sia risultato suffragato da una positiva verifica sia sotto l'aspetto dell'attendibilità intrinseca che di quella estrinseca".

SALVO GIORGIO

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