Tuesday, May 15, 2007

IL CONTESTO STORICO-POLITICO IN CUI NASCE IL PROCESSO CONTRADA



1. L' ITALIETTA DEL MALAFFARE


L'Italia è sempre stato un Paese molto particolare. Paese di eroi, santi e navigatori, ma anche di mestatori e truffatori di ogni sorta. Il Bel Paese dove il sì sona, e hanno suonato e "tintinnato" tante manette ai polsi sia di colpevoli che di innocenti. Culla dell'arte, della cultura e del diritto, nel senso che, da un lato, è qui che sono nate idee e princìpi di vario genere ed è qui che, in seguito, questi si sono addormentati definitivamente. Fra tutti, il peggior sonno,
quello più frastornato e martoriato da incubi grotteschi, lo ha vissuto il principio consacrato dalla nostra Costituzione nell'art. 27 comma 2: il principio della presunzione di non colpevolezza dell'imputato di un processo penale fino a sentenza passata in giudicato.
Un Paese che, in un tempo ormai lontano, ha conosciuto il potere delle idee e oggi conosce solo l'idea (predominante) del Potere. Paese contraddittorio. La settima potenza industriale del mondo (più per artifici di bilancio che per reale efficienza e potenza produttiva) che, al di sotto del Volturno, non conosce i treni e, in alcune parti del Sud, affoga nei rifiuti e nell'immondizia non raccolta, quando non addirittura mal gestita (in termini di discariche) fino a diventare un cespite di reddito per la stessa malavita organizzata. Un Paese dove il cosiddetto sviluppo economico cela spesso speculazioni e corruzioni nonchè il proditorio seppellimento di scorie industriali e di amianto tossico nel sottosuolo del territorio della provincia di Siracusa, nell'area industriale del polo petrolchimico di Augusta e Priolo Gargallo, dove negli ultimi decenni si sono moltiplicati i casi di leucemie, tumori e di nascita di bambini malformati. E il problema principale, per molti, sembra essere rappresentato dal fatto che una certa promessa debba essere necessariamente fatta da due persone, una in tait e l'altra in abito bianco, e non in maniera diversa.
Un Paese strano, l'Italia, e per certi versi senza speranza. Uno Stato che, per certi versi, non poteva essere concepito neppure nei peggiori incubi di Franz Kafka o di Aldous Huxley: tale è lo Stato che ha offerto al criminale mafioso “pentito” Francesco Marino Mannoia, reo confesso di una ventina di omicidi e noto raffinatore di eroina, la somma di un milione di euro a titolo di liquidazione per fine rapporto di “collaboratore di giustizia”, dal 1989 al 2007. A che serve lavorare, in un Paese come l'Italia, da decenni alle prese coi cronici problemi dell'INPS? Per garantirsi una comoda vecchiaia conviene uccidere e poi pentirsi: la buonuscita è sicura e lauta. La cosa si commenta da sola, ma al ridicolo non c'è fine se si pensa che il pentito, onest'uomo!, ha addirittura rifiutato l’offerta e ha chiesto di usufruire ancora del cospicuo stipendio mensile (diecimila euro) e di altri vantaggi, di cui è beneficiario, in atto, a spese del nostro Erario: sembra, come riportato da alcuni giornali, che abbia minacciato che, in caso contrario, tornerebbe in Italia dagli Stati Uniti, dove si trova per il programma di protezione, e riprenderebbe la sua attività criminale. Sic! Chissà cosa avrebbero pensato i "Trecento Giovani e Forti" di Sapri, Tito Speri o i fratelli Attilio ed Emilio Bandiera se avessero potuto immaginare che stavano immolando la loro vita per un Paese che si sarebbe ridotto a questi livelli di abiezione?

Per la particolare natura dell'Italia, e soprattutto della Sicilia, dunque, si capisce come sia difficile tentare di tracciare un quadro della situazione politica, economica e sociale, dei rapporti, delle connivenze e delle contrapposizioni, dei favoritismi e dei veleni, in una parola di quel contesto in cui è nato e si sono, purtroppo, sviluppati veri e propri insulti alla Giustizia come il processo Contrada. Un processo che risente certamente di questi "veleni", ma anche di un atteggiamento generale, rectius generico, di molti: la prona disponibilità ad accogliere l'indizio come prova, il sospetto come "anticamera della verità", nella consapevolezza che, se una cosa non si può provare, spesso non vuol dire che si tratta di una castroneria colossale ma significa soltanto che è vera e che qualcuno ha il potere di occultare le prove. C'è stato qualcuno che si è ufficialmente schierato contro questo perverso atteggiamento. Il giudice Giuseppe Prinzivalli, presidente della Corte d'Assise di Palermo davanti alla quale si era celebrato il "maxiprocesso ter" a Cosa Nostra, aveva assolto molti degli imputati perché si era rifiutato di credere alle accuse dei "pentiti" che erano senza prove e senza riscontri: "non puó essere consentito al giudice" - aveva scritto nelle motivazioni della sentenza - "lo stravolgimento delle regole probatorie da applicare solo ai processi di mafia. Necessita sempre un serio e rigoroso controllo di tutti gli elementi del reato, le prove devono assumere carattere di certezza e gli indizi devono essere concordanti e univoci. Non c’è ingresso nel processo penale ai semplici sospetti e a generiche opinioni". Leonardo Sciascia richiamó la sentenza di Prinzivalli nella sua famosa polemica contro quelli che lui stesso aveva definito "professionisti dell’Antimafia" e commentó: "sono parole che credo nessuna persona onesta e intelligente rifiuterá di sottoscrivere". E i "professionisti dell’Antimafia" bollarono a fuoco Sciascia e processarono Prinzivalli. "Non ce ne voglia l’illuminato uomo di cultura Leonardo Sciascia" - scrissero - "se per questa volta, con tutta la nostra forza lo collochiamo ai margini della societá civile... Certo, caro Sciascia, vivere nella tranquillitá bucolica è cosa ben diversa che vivere nell’angoscia della probabile vendetta mafiosa. Certo, cosí vivendo, si rischia molto meno: ma si diventa, a poco a poco dei quaquaraquá". E per Prinzivalli spuntó subito il "pentito" che lo accusava... Quindici anni di processi fino all'assoluzione definitiva di Prinzivalli, decretata dalla Corte d'Appello di Caltanissetta l'8 ottobre 2004. Quindici anni. Lo stesso tempo che c'è voluto per addivenire alla sentenza definitiva sul caso Contrada: soltanto che, al contrario di Prinzivalli, per l'ex-capo della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo le porte del carcere si sono aperte una prima volta in regime di custodia cautelare, e una seconda volta per l'esecuzione della condanna passata in giudicato. Del processo Prinzivalli, simile al processo Contrada per la quantità di fango gettata in faccia ad un imputato in realtà onesto, per l'assurdità delle dichiarazioni di alcuni pentiti e per la pervicacia oltre ogni logica ed equilibrio da parte di alcuni giudici, parliamo in altra sede. Qui mi premeva ricordare le parole del giudice Prinzivalli nelle motivazioni della sentenza del "maxiprocesso ter". Parole illuminanti, ma che non molti hanno avuto il coraggio di apprezzare e, soprattutto, di tradurre in pratica. In Italia non sempre esiste il coraggio. Non sempre esiste la lucidità.
E per questo appare chiaro come, purtroppo, l'Italia abbia potuto costituire il palcoscenico ideale per quella triste rappresentazione delle miserie e della grettezza umana che va sotto lo strano nome di "mafia":
una parola che, secondo alcuni, deriverebbe dall’arabo ma-Hias, cioè "spavalderia". Questa è stata, in fondo, la parabola discendente del vecchio Stivale e, in particolare, della sua parte meridionale: dalle tragedie greche alle tragedie di mafia (e non soltanto). Una mafia nata agli albori dell'Età Moderna, nelle pieghe oscure dei feudi del Meridione assoggettato al dominio spagnolo, grazie ai gabelloti che esigevano, oltre alle decime da pagare al feudatario, anche una parte in più per sè (il futuro pizzo), pena ritorsioni violente. Il termine "mafia" si diffonde su tutto il territorio nazionale solo nel 1863, grazie al dramma "I mafiusi di la Vicaria" di Giuseppe Rizzotto e Gaetano Mosca: nel 1865, il prefetto di Palermo, Filippo Gualtiero, scrive dell’esistenza di una "mafia, o associazione malandrinesca" in un documento riservato.
Una mafia, dunque, che ha la stessa origine spagnola dell'altra grande piaga che ha insanguinato la Sicilia, il Sud dell'Italia e, purtroppo, parte dell'Europa del tempo: quella Santa Inquisizione che ha bruciato sui suoi osceni roghi "purificatori" gran parte dell'evoluzione del pensiero e dello spirito umano, favorendo quell'atmosfera di superstizione, terrore, ignoranza ed omertà che è stata, ed è, al contempo, il miglior fertilizzante per la gramigna della stessa mafia.
E pensare che, fino al XIV secolo, Palermo era una delle città più grandi ed importanti d'Europa, già sede della corte dell'imperatore Federico II di Svevia: se qualcuno, di bianco vestito, non avesse impedito, grazie a tre scomuniche e alla convocazione coatta dei suoi gendarmi francesi, il tentativo di Federico di unificare l'Italia sotto la Corona del Sacro Romano Impero, Palermo sarebbe potuta diventare anche la capitale di quel Regno d'Italia che lo stesso Imperatore aveva intenzione di fondare. E, probabilmente, gli Spagnoli non sarebbero mai arrivati col loro vaso di Pandora contenente l'embrione della mafia e il bubbone della Santa Inquisizione. E le cose, per Palermo, per la Sicilia, per Napoli e per tutto il Sud dell'Italia, sarebbero andate diversamente. Meglio, oserei pensare.
Invece Mafie ed Inquisizioni l'han fatta da padroni. Non solo. Ma si sono anche riprodotte e hanno assunto una valenza internazionale, se è vero, com'è vero, che l'ondata migratoria partita nel XIX secolo dall'Italia del Sud verso gli Stati Uniti ha portato con sè non soltanto onesti giovani alla ricerca di un lavoro e della possibilità di venir sfamati, ma anche onesti delinquenti che la possibilità di venir sfamati se la sono cercata in maniera più diretta e con un lavoro di tipo ben diverso. E così l'Italia, infettata dalla Spagna di estrazione medievale, ha finito con l'infettare il Nuovo Mondo: un'epidemia perniciosa, che ha determinato cambiamenti nel fenomeno mafioso e ha generato una rete internazionale di malaffare nella quale, più tardi, si sarebbero tuffati nuovi "geni del crimine" di origine orientale come la Yakuza giapponese, le Triadi cinesi, la mafia coreana e la mafia russa.
E, in questo quadro di "globalizzazione" della mafia, che viene a delinearsi in particolare dopo la Seconda Guerra Mondiale, è importante, anzitutto, evidenziare e distinguere l'evoluzione del fenomeno mafioso in Sicilia, appunto a partire dal secondo dopoguerra e da quello che, secondo alcuni, fu il patto scellerato col quale la mafia appoggiò lo sbarco degli Alleati in Sicilia in funzione antifascista. Gli Stati Uniti ne approfittarono, e, sottolinerei, giustamente, per rinviarci alcuni soggetti indesiderati di stampo mafioso che per troppo tempo avevano appestato il suolo e l'aria di New York o di Chicago. Valga su tutti l'esempio di Salvatore Lucania da Lercara Friddi, in provincia di Palermo, meglio conosciuto come Salvatore Charles "Lucky" Luciano o, più
semplicemente, Lucky Luciano. Divenuto un potente boss negli Stati Uniti, viene finalmente arrestato per omicidio, ma viene scarcerato dalle autorità statunitensi nel 1946 come ricompensa per aver preparato con i mafiosi siciliani lo sbarco alleato in Sicilia del 10 luglio 1943, operazione militare fondamentale della Seconda Guerra Mondiale. Lucky Luciano si stabilisce a Napoli e diventa il re indiscusso (e indisturbato) del traffico di stupefacenti, risultando l'elemento fondamentale per l'inizio della collaborazione fra mafia e camorra anche a livello internazionale, e contribuendo a modernizzare la stessa camorra. Morirà da uomo libero, per un attacco cardiaco che lo colpì mentre si trovava all'aeroporto di Capodichino, il 26 gennaio 1962.



2. LA MAFIA DEL SECONDO DOPOGUERRA


Anche grazie a questa estensione internazionale, la mafia siciliana del secondo dopoguerra vive, purtroppo, un periodo di grande sviluppo. Possiamo distinguere due fasi ben precise.


2.1. La mafia con le mani nel sacco... di Palermo


Già dai primi anni '50 la mafia comincia la sua trasformazione da rurale a urbana. La vecchia mafia che basava il suo potere essenzialmente sul controllo dell'acqua e dei pozzi per l'irrigazione dei terreni, dedicandosi più che altro a estorsioni, sequestri di persona e contrabbando di sigarette, sposta il suo centro d'interesse verso le speculazioni edilizie, parallelamente allo sviluppo urbanistico, ed esporta la sua azione cancerogena anche tra vie e piazze cittadine: da qui il tristemente famoso "sacco" di Palermo: dal 1959 al 1963
la Giunta Comunale democristiana, con in testa il sindaco Salvo Lima (figlio dell' "uomo d'onore" Vincenzo Lima e politicamente legato alla corrente di Amintore Fanfani, capeggiata in Sicilia da Giovanni Gioia) e l' assessore ai Lavori Pubblici Vito Ciancimino, concede 4205 licenze edilizie, di cui 3011 intestate a cinque muratori nullatenenti. In pochissimi anni (e con un'efficienza che raramente la Sicilia ha conosciuto) la Palermo liberty, gioiello e orgoglio dei tanti architetti e urbanisti italiani, inglesi e francesi che l'avevano adornata ad inizio secolo, viene massacrata e sepolta da una colata di cemento e di malaffare: la gioiosa luminosità di molte ville, espressione dell'art nouveau, viene spenta dalla tristezza infinita di anonimi e moderni palazzoni (ne omaggiamo ad memoriam una per ricordarle tristemente tutte: Villa Deliella, progettata da Ernesto Basile, che sorgeva al centro di un piccolo parco proprio dove ora si apre quel connubio tra Piazza Francesco Crispi e Piazza Mordini che i palermitani definiscono genericamente "Piazza Croci"). In cambio, la mafia garantisce un sostegno incondizionato alla Democrazia Cristiana e, complice anche la presa del partito sulle coscienze fin troppo religiose della Sicilia (la DC è da molti considerata 'u partitu 'ro Signuruzzu, ossia "il partito di Dio"), trasforma l'isola in un permanente serbatoio di voti per lo Scudo Crociato. Le banche, dal canto loro, sostengono gli imprenditori legati alla mafia: si crea in tal modo un circolo vizioso che soffoca lo sviluppo dell’intera Sicilia e ne distrugge materialmente le città. Nasce così la mafia degli appalti edilizi, ma anche la mafia del contrabbando di droga: è proprio in questo periodo che la mafia intuisce la possibilità di una "globalizzazione" e crea una rete internazionale nell'àmbito della quale l’eroina, proveniente dall’Asia centrale e dall’Estremo Oriente, viene raffinata in Sicilia e poi smerciata in Europa e negli Stati Uniti. E quella che gestisce appalti e droga è una mafia nuova: la mafia di Tano Badalamenti, Luciano Leggio (detto "Liggio"), Angelo La Barbera (capo della famiglia di Palermo Centro), il fratello Salvatore La Barbera (capo-mandamento delle famiglie di Borgo Vecchio, Porta Nuova e Palermo Centro), Tommaso Buscetta, Michele Greco (detto il "Papa"), il fratello Salvatore (detto il "Senatore"), il cugino Salvatore Greco (detto "Ciaschiteddu" ovvero "piccolo fiasco" o, secondo altri, "Cicchiteddu" ossia "uccellino"), l'altro cugino omonimo Salvatore Greco (detto l' "Ingegnere" o "Totò il lungo"), Cesare Manzella, Calcedonio Di Pisa (capo della famiglia della Noce), Michele Cavataio (capo della famiglia dell'Acquasanta), Giacomo Riina (zio di Totò), Filippo Rimi (cognato di Badalamenti), Antonino Matranga (capo della famiglia di Resuttana), Mariano Troia (capo della famiglia di San Lorenzo), Salvatore Manno (capo della famiglia di Boccadifalco), Rosario Riccobono (capo-mandamento di Partanna Mondello) e, in un momento immediatamente successivo, di Stefano Bontade, Giuseppe Albanese, Gerlando Alberti, Totò Inzerillo, Tommaso Spataro, Pietro Vernengo, Pietro Davì, Giuseppe Di Cristina, Antonino, Gaetano e Giuseppe Fidanzati e Giuseppe Calderone. Tutti questi eredi di Genco Russo e Calogero Vizzini, nonchè di Giuseppe Greco, detto "Piddu 'u tenenti" (Piddu il tenente, ovvero il fondatore della famiglia mafiosa dei Greco di Croceverde Giardini e di Ciaculli e padre di Michele "il Papa" e di Salvatore "il Senatore"), in gran parte palermitani o dell'hinterland occidentale del capoluogo, rinsaldano e approfondiscono i rapporti con la mafia siculo-americana: sono noti, in particolare, i rapporti tra Badalamenti e Francesco Paolo Coppola, alias il famigerato Frank Coppola, detto anche "Frank tre dita". Rimane "storico", inoltre, l'incontro del 12 ottobre 1957 all'Hotel delle Palme di Palermo fra i mafiosi statunitensi (tra gli altri, ci sono Lucky Luciano, Giuseppe Bonanno, noto anche come Joe Bananas, Francesco Garofalo, che negli Stati Uniti era conosciuto come Frank Carrol, Joseph Palermo della famiglia Lucchese, John Bonventre e Carmine Galante) e i loro "colleghi" siciliani (rappresentati dal vecchio Giuseppe Genco Russo, Gaspare Maggadino, Michele Greco, "Ciaschiteddu" Greco, Luciano Liggio, Salvatore e Angelo La Barbera e Gaetano Badalamenti), incontro che segue quello analogo tra siciliani e americani dell'anno precedente nella villa di Joseph Barbara ad Apalachin, vicino New York. L'ordine del giorno di questi incontri si concentra su due questioni: la prima è la riorganizzazione del traffico internazionale di droga che, dopo la chiusura della grande base caraibica di Cuba, dove era in corso la rivoluzione di Fidel Castro, è costretta a trovare nuove rotte rispetto alle quali la posizione geografica della Sicilia diventa centrale, anzi strategica; la seconda è la creazione di una struttura di vertice di Cosa Nostra (la futura "Commissione" o "Cupola") che, sul modello del "Sindacato del Crimine" americano (voluto e capeggiato da Lucky Luciano fino agli anni '40), permetta alle cosche siciliane di evitare la frammentazione. La "Cupola" nascerà effettivamente agli inizi del 1958: il suo primo "presidente" sarà Salvatore Greco "Ciaschiteddu": la sua struttura sarà rivelata, anni dopo, da Tommaso Buscetta al giudice Falcone. Buscetta darà anche una versione diversa sull'incontro palermitano, sostenendo che avvenne al ristorante "Spanò", che si affaccia sul mare, e non all' "Hotel delle Palme", dove invece è alloggiato Joe Bonanno che, come un gran signore d'altri tempi, riceve gente e tiene conversazione con numerose persone accorse ad omaggiarlo. "Hotel delle Palme" o ristorante "Spanò", il vertice è talmente sottovalutato dalle forze dell'ordine che la Polizia redige un rapporto sulla presenza e la partecipazione di Genco Russo scrivendo che è accompagnato da alcuni "sconosciuti" (Bruno Contrada all'epoca non era neppure entrato in Polizia; se lui, che negli anni successivi darà una caccia spietata ai mafiosi, e con successo, è stato in seguito arrestato per essere amico dei medesimi mafiosi che aveva perseguito tenacemente, cosa si sarebbe dovuto fare con i poliziotti e i magistrati che nel 1957 si lasciarono sfilare impunemente sotto il naso il gotha della mafia mondiale?). Essendo impossibile che la Questura di Palermo non fosse in condizione di individuare quegli "sconosciuti" prima della fine delle riunioni che si tenevano in uno dei saloni del centralissimo e lussuoso albergo palermitano, si deve concludere che questa spavalda manifestazione di sicumera e di tracotanza dell'organizzazione mafiosa fu la conseguenza dell'inefficienza degli organi della sicurezza pubblica, che i boss non ignoravano e sapevano valutare. Fu questa la situazione che Bruno Contrada si trovò di fronte all'inizio della sua esperienza di poliziotto a Palermo, una situazione che evidenzia molto bene la difficoltà estrema per un tutore dell'ordine di operare in una realtà putrescente di connivenze e coperture, con un'opinione pubblica ignorante ed inesistente, senza leggi adeguate e con pochissimi mezzi: eppure Contrada e i suoi uomini portarono una ventata di novità e di abnegazione, energie nuove con le quali costruirono una nuova Squadra Mobile, quella che negli annali della Polizia è rimasta come una leggenda per la sua efficienza e per gli eclatanti successi conseguiti. Non era facile. Sembrava, anzi, quasi impossibile per come la mafia era radicata nella società civile. I boss di quella generazione prediligevano, infatti, un modus operandi basato prevalentemente sull'inserimento più o meno sfacciato nel tessuto sociale (non era raro vederli frequentare importanti salotti palermitani o circoli esclusivi come il Circolo della Stampa) e su una strategia meno violenta, imperniata sul tentativo di avvicinamento e corruzione degli avversari (in primis magistrati e poliziotti) ancor prima che sulla decisione di sopprimerli.


2.2. Il delitto Mattei



Il 27 ottobre del 1962, un Morane Saulnier 760 I-SNAP, l'aereo del presidente dell'ENI Enrico Mattei, decolla dall'aeroporto Fontanarossa di Catania per poi precipitare misteriosamente, alle 18,57, a
pochi chilometri dall'aeroporto milanese di Linate, in località Bascapè: con Mattei muoiono il pilota Irnerio Bertuzzi ed il giornalista e fotografo statunitense del Time William McHale. Sull'aereo avrebbe dovuto trovarsi anche Graziano Verzotto, all'epoca rappresentante dell'ENI in Sicilia e successivamente presidente dell'Ente Minerario Siciliano e senatore democristiano, nonchè ideatore del progetto del metanodotto tra Algeria e Sicilia, poi rilevato dall'ENI: Verzotto fu salvato dall'urgenza di partecipare ad un convegno della DC di Siracusa, convocato per preparare le imminenti elezioni amministrative. Lo stesso Verzotto, anni dopo, ha raccontato in un'intervista a Tony Zermo, pubblicata su "La Sicilia" del 10 febbraio 2003, che in predicato di salire sul Morane Saulnier ci sarebbero stati anche l'allora presidente della Regione Siciliana D'Angelo e il professor Falestrini, assistente di Mattei e l'ingegner Fornara, direttore dell'ENI: D'Angelo e Fornara furono trattenuti da un impegno, mentre Falestrini, dovendo trovarsi entro un certo orario alla Facoltà di Economia dell'università di Milano, preferì prendere un bimotore De Havilland, un altro aereo dell'ENI, partito da una pista militare di Gela prima che il Morane Saulnier decollasse da Fontanarossa, perchè, come racconta Verzotto nell'intervista, "sapeva che Mattei portava sempre ritardo". Le vittime della sciagura, dunque, potevano essere di più. La notizia della tragedia di Bascapè fa sùbito il giro del mondo. La magistratura, ed anche un'apposita Commissione Parlamentare d'inchiesta, parleranno inizialmente di errore del pilota. Anni dopo, il sostituto procuratore della Repubblica di Pavia, Vincenzo Calia, dopo le perizie del medico legale Carlo Torre, dell'ingegner Donato Firrao, del capitano dei Carabinieri Giovanni Delogu e dell'esperto della Marina Militare italiana Giovanni Brandimarte, accerterà che cento grammi di esplosivo Compound B erano stati sistemati dietro il cruscotto dell'aereo. La carica è stata innescata dal comando che abbassa il carrello e apre i portelloni di chiusura. Anni dopo, Tommaso Buscetta, nell'indicare come esecutori materiali della strage, cioè coloro che a Fontanarossa piazzarono l'esplosivo sul Morane Saulnier, gli uomini del boss di Riesi Giuseppe Di Cristina, rivelerà che la mafia americana aveva chiesto a Cosa Nostra di eliminare Enrico Mattei "nell'interesse sostanziale delle maggiori compagnie petrolifere americane": in altre parole, le famigerate "Sette Sorelle", alle quali non poteva non dar fastidio il ruolo via via sempre più importante che, nei piani di Mattei, l'Italia doveva assumere in campo petrolifero. In particolare, l'ENI di Mattei cerca di guadagnare mercato offrendo la metà degli introiti ai Paesi dove va ad estrarre il petrolio, mentre le "Sette Sorelle" erano solite concedere ai Paesi sede dei giacimenti molto meno. Viene seguita, comunque, anche una pista italiana, che inquadra Mattei nella multiforme veste di potente personaggio che influenza sia l'economia sia la politica italiana ed internazionale: Mattei fu un finanziatore della politica, nemico di determinati circoli economici e politici (anche dell'estrema destra, in quanto, durante la Resistenza, Mattei era stato il capo dei partigiani cattolici lombardi e, come racconta ancora Graziano Verzotto nella citata intervista a Tony Zermo, era stato anche membro del comando generale della Resistenza insieme a Sandro Pertini, Ferruccio Parri e Luigi Longo); ma, secondo molti, Enrico Mattei fu anche protagonista di un ruolo da "ministro degli Esteri occulto", grazie ai suoi rapporti con vari Paesi, soprattutto con Algeria ed Unione Sovietica. In particolare, in margine alla realizzazione del gasdotto siculo-algerino progettato da Graziano Verzotto, pare che vi fossero stati degli aiuti da parte dell'ENI agli indipendentisti algerini, insorti negli anni '50 contro la dominazione francese.
Dopo la tragica morte di Mattei, diventa presidente dell'ENI il direttore generale dello stesso ente, ossia quell'Eugenio Cefis che aveva affiancato Mattei nel progetto di ristrutturazione dell'AGIP e nella fondazione dello stesso Ente Nazionale Idrocarburi.


2.3. La prima guerra di mafia



A Palermo
scoppia, intanto, una prima guerra di mafia. Agli inizi del 1962, Cesare Manzella, i fratelli Angelo e Salvatore La Barbera e altri mafiosi (che agli occhi di tutti apparivano soltanto come "facoltosi proprietari terrieri, commercianti e costruttori edili") sono alle prese con una partita di droga che, arrivata in Sicilia, deve poi essere spedita negli Stati Uniti. Del ritiro della merce e della sua spedizione ai mafiosi americani è incaricato, su proposta dello stesso Manzella, Calcedonio Di Pisa, ritenuto uno dei mafiosi più abili nel campo del contrabbando e del traffico di stupefacenti. Ma, a conclusione dell'operazione, gli americani pagano ai siciliani una cifra minore rispetto a quella prevista, sostenendo di aver ricevuto una quantità di droga inferiore. È evidente che qualcuno ha fatto la "cresta" alla droga e ne ha trattenuto una parte per sè. Calcedonio Di Pisa, sospettato della frode, viene convocato innanzi ad un "tribunale mafioso", ma riesce a scagionarsi.

a. Gli omicidi di Calcedonio Di Pisa, Salvatore La Barbera e Cesare Manzella

I fratelli La Barbera, però, continuano a sospettare di lui e il 26 dicembre 1962 Calcedonio Di Pisa viene ucciso a Palermo, in piazza Principe di Camporeale: poco dopo la stessa sorte tocca anche agli uomini della squadra che con lui hanno ritirato la droga, solo due dei quali riescono miracolosamente a salvarsi. Questi fatti di sangue rappresentano la prova di un'insubordinazione contro il "tribunale mafioso" che aveva assolto Di Pisa. Il "tribunale" si riunisce di nuovo, su impulso soprattutto di Cesare Manzella, e decreta la morte di Salvatore La Barbera che, il 17 gennaio 1963, scompare in circostanze misteriose. Il 26 aprile 1963, in contrada Monachelli, una delle sue tante tenute che racchiude un vasto e ricco agrumeto alle porte di Cinisi, una Giulietta imbottita di tritolo fa saltare in aria Cesare Manzella e il suo fattore Filippo Vitale. Gli inquirenti (tra i quali la Squadra Mobile di Palermo, nella quale comincia a distinguersi per efficienza e preparazione proprio Bruno Contrada, all'epoca dirigente di sezione) sospettano sùbito che a volere la morte di Manzella sia stato proprio Angelo La Barbera, in quanto Manzella era stato uno dei promotori della riunione del "tribunale di mafia" che aveva condannato a morte Salvatore La Barbera, accusato di avere ingiustamente assassinato Calcedonio Di Pisa.

b. La strage di Ciaculli

Il 30 giugno 1963 un'altra Giulietta esplode vicino alla casa dei Greco, a Ciaculli, alla periferia di Palermo, uccidendo il maresciallo della Polizia Silvio Corrao e sette carabinieri accorsi per disinnescare la bomba dopo una telefonata anonima: è il funesto evento che passa alla triste storia di quegli anni come la strage di Ciaculli. In realtà, questa guerra di mafia si basa su un presupposto che, anni dopo, si scoprirà essere totalmente falso: a uccidere Calcedonio Di Pisa, infatti, non fu Salvatore La Barbera, ma Michele Cavataio, detto "il Cobra", abilissimo nell'ingannare tutti e nel compiere altri omicidi attribuendoli alla cosca dei La Barbera.

c. Il processo di Catanzaro

L'indignazione generale per la strage di Ciaculli, tuttavia, provoca finalmente un risveglio dello Stato, che istituisce la prima Commissione Parlamentare d'Inchiesta della storia repubblicana e, seguendo le orme della Polizia e dei Carabinieri di Palermo, già attivi sul campo, comincia ad esercitare la prima, vera, grande pressione sulla mafia dai tempi del prefetto Mori. Grazie alle inchieste condotte dall’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, guidato dal giudice Cesare Terranova, e dalla Procura della Repubblica di Palermo, diretta da Pietro Scaglione, "­le organizzazioni mafiose furono scardinate e disperse" (come si legge nella relazione conclusiva della Commissione Parlamentare Antimafia del 1976). Dopo i primi, clamorosi arresti (tra cui quello di Angelo La Barbera, arrestato a Milano il 24 maggio 1963), infatti, la Commissione di Cosa Nostra decide di autosciogliersi ed il suo capo, “Ciaschiteddu” Greco, fugge a Caracas, imitato da molti altri mafiosi che, per sfuggire all'arresto, decidono di riparare all'estero. La repressione statale causata dalla strage di Ciaculli infligge un duro colpo al traffico di eroina con gli Stati Uniti: il controllo del traffico rimane nelle mani dei pochi nomi grossi sfuggiti alle manette, ossia i Greco, Tommaso Buscetta, Pietro Davì e, naturalmente, Gaetano Badalamenti. L'intensa attività delle forze di polizia e della magistratura sfocia nel processo di Catanzaro, che porta alla sbarra anche i responsabili della strage di Ciaculli: il 22 dicembre 1968 la Corte d'Assise di Catanzaro condanna, fra gli altri, lo stesso “Ciaschiteddu” Greco e Tommaso Buscetta (ambedue latitanti e condannati rispettivamente a 4 e 14 anni di carcere) quindi Pietro Torretta e Angelo La Barbera, mentre Badalamenti, anch'egli latitante, viene incredibilmente assolto dall'accusa di associazione a delinquere.

d. La strage di viale Lazio

La mafia, intanto, risolve il nodo della "guerra" del 1962-'63: il 10 dicembre 1969, sei mafiosi, con a capo Bernardo Provenzano, entrano, travestiti da poliziotti, negli uffici dell'impresa edile "Moncada-Messina" in viale Lazio, 168, nel pieno centro di Palermo, e ammazzano Michele Cavataio, il vero assassino di Calcedonio Di Pisa, che sei anni prima aveva fatto ricadere la responsabilità della morte di Di Pisa sui fratelli La Barbera per prenderne il posto in Commissione. E' la famosa strage di viale Lazio, nella quale, insieme a Cavataio, muoiono altre quattro persone, tra cui il suo guardaspalle Francesco Tumminello, e sette innocenti astanti rimangono feriti: Cavataio e Tumminello sono le uniche vittime mafiose della strage, essendo le altre vittime soltanto operai edili rimasti coinvolti per un puro quanto tragico caso. Fra i morti figura anche uno degli assalitori, Calogero Bagarella, fratello di Leoluca Bagarella e cognato, quindi, di Totò Riina, colpito a morte dallo stesso Cavataio. Su questa strage indagherà in seguito anche Giovanni Falcone, cui il "pentito" Antonino Calderone racconterà che fu proprio Provenzano in persona a sparare a Cavataio: "Dove passa lui non cresce più l'erba" dice Calderone a Falcone, riferendosi a Provenzano e spiegando così il soprannome, a quest'ultimo affibbiato, di "Binnu 'u tratturi" (Binnu il trattore). Il 24 giugno 1997 una "cimice" messa dai Carabinieri del ROS (Raggruppamento Operativo Speciale) nell'automobile di Simone Castello, uno dei manager di Provenzano (che è ormai divenuto "il ragioniere" e il capo assoluto di Cosa Nostra) rivela agli investigatori il seguente colloquio tra Castello ed un misterioso interlocutore:

CASTELLO - "Il sacco di Palermo? Ma cosa c'è qua?"

L'ALTRO UOMO - "Ma io non lo vedo questo sacco."

CASTELLO - "C'è la montagna, questa strada è bella dritta..."

L'ALTRO UOMO - "Non è qua il sacco di Palermo?"

CASTELLO - "In viale Lazio. Dove fu ucciso Michele Cavataio. Grande persona, ma fu sfortunato. Si gettò per morto, ma poi gli finirono i colpi. Così Provenzano si salvò. Cavataio aveva mirato in faccia, ma fece cilecca."

Castello e il suo interlocutore continuano a parlare, citando i sicari di quel pomeriggio del 10 dicembre 1969: Damiano Caruso ed Emanuele D'Agostino. Damiano Caruso viene descritto da Leonardo Vitale, il primo "pentito" di mafia, nel 1973, come "uno da Villabate che aveva partecipato all'uccisione di Michele Cavataio in viale Lazio, si era montata la testa ed era stato fatto sparire": undici anni dopo, Tommaso Buscetta confermerà che Caruso, macellaio di Villabate appartenente alla famiglia di Riesi, comandata da Giuseppe Di Cristina, fu eliminato per volere dei corleonesi, che intendevano così colpire lo stesso Di Cristina. Emanuele D'Agostino, invece, della famiglia di Santa Maria di Gesù, verrà successivamente accusato, come vedremo fra poco, di far parte del commando che il 16 settembre 1970 sequestrò il giornalista Mauro De Mauro sotto la sua casa di viale delle Magnolie, a Palermo.

L'ALTRO UOMO - "Erano tutti vestiti da sbirri (...) Fecero pure minchiate. Quello che ha scombinato tutta la giocata fu il tuo paesano. Caruso non si dimostrò all'altezza. Il trucco del travestimento fu sprecato sùbito. Caruso cominciò a sparare all'impazzata, senza colpire nessuno. E Cavataio uccise uno dei killers, Calogero Bagarella.

Il "pentito" Gaetano Grado racconterà, invece, che fu Provenzano a sparare in maniera avventata, provocando così la reazione di Cavataio e Tumminello e consentendo loro di uccidere alcuni degli assalitori. L'intercettazione ambientale del ROS nell'auto di Simone Castello è finita agli atti del processo "Grande Oriente", che alla fine degli anni '90 porterà alla condanna di Castello a 10 anni di carcere, e agli atti del processo che si è aperto il 28 maggio 2007 per la strage di viale Lazio davanti alla III sezione della Corte d'Assise di Palermo, pubblico ministero il sostituto procuratore della Repubblica di Palermo Michele Prestipino.

e. Il triumvirato

Ma torniamo alla fine degli anni '60. Terminato il processo di Catanzaro, i tempi sono ormai maturi per la ricostituzione della Commissione. Nel giugno 1970 è Tommaso Buscetta (come racconterà quattordici anni dopo ai giudici), durante un incontro a Roma tra lui stesso (tornato in Italia nonostante la condanna a 14 anni di reclusione inflittagli dalla Corte di Assise di Catanzaro), Stefano Bontade, “Ciaschiteddu” Greco (frattanto assolto a Bari nel 1969, nell'appello del processo di Catanzaro) e Badalamenti, a suggerire agli altri di ricostituire la Cupola. Viene trovato un accordo anche circa l'ingresso in Commissione di Luciano Liggio, che, in sua assenza, verrà sostituito dal suo braccio destro Salvatore Riina: secondo il racconto di Buscetta, "capimmo di dover cooptare nella gerarchia di comando quei rozzi, arroganti, semianalfabeti corleonesi, che hanno il merito di sparare e ammazzare". La guida della nuova Cupola è affidata ad un triumvirato formato da Gaetano Badalamenti, Stefano Bontade e Luciano Liggio. Un sodalizio invero strano. Se Stefano Bontade (figlio di quel Paolino che, sin dall'immediato dopoguerra, ha intessuto rapporti politici ad altissimo livello) è un uomo che, per la sua raffinata "cultura della mediazione" tipica della mafia cittadina e per i suoi modi, è soprannominato il "principe di Villagrazia" (è, infatti, capomandamento di Villagrazia-Santa Maria di Gesù), se Liggio, benché figlio di poveri braccianti e inveterato assassino, coltivava l'immagine di intellettuale della mafia e amava farsi chiamare "professore", don Tano da Cinisi è, come lo definisce Buscetta, "un boss zotico come pochi": Badalamenti è costretto a subire l'ironia di Liggio "che" come ricorda ancora Buscetta "non rinunciava a sottolineare l'ignoranza di Gaetano Badalamenti rilevando con piacere maligno gli errori di grammatica e di sintassi". Disprezzato perché incolto e dai modi alquanto rozzi, odiato perché arricchitosi alle spalle di altri mafiosi (la qual cosa, come vedremo fra breve, gli si ritorcerà contro), Badalamenti è anche temuto e rispettato per il suo sistema di potere che va ben al di là di Cosa nostra e per le sue decisioni imprevedibili (come la decisione di ordinare a Salvatore Zara, camorrista affiliato a Cosa Nostra, di uccidere colui che, più di dieci anni prima, aveva osato schiaffeggiare a Napoli, all'ippodromo di Agnano, Lucky Luciano, espulso dagli Stati Uniti e residente a Napoli).
Negli anni '60, dunque, periodo di grandi fermenti e di grandi evoluzioni a livello internazionale, la mafia siciliana prima si spacca dall'interno, poi viene messa sotto tiro dallo Stato, poi si ricompatta e si prepara ad una nuova stagione di "successi". Un po' sulla falsariga di ciò che, sia pur con fasi meno definite e che rischiano di sovrapporsi a livello temporale, accade alla nostra martoriata Repubblica. Che, dapprima, rischia di spaccarsi dall'interno a sua volta con il primo, eclatante tentativo di colpo di Stato (il Piano Solo del generale De Lorenzo) e con la sinistra "strategia della tensione", ossia quella serie di attentati (tra i quali quello di piazza Fontana a Milano e di piazza della Loggia a Brescia) che doveva servire ad ingenerare nell'opinione pubblica la sensazione che il governo democratico non fosse capace di mantenere l'ordine pubblico e la conseguente convinzione della necessità di una svolta autoritaria; poi comincia ad essere messa sotto tiro dalla criminalità organizzata (mafia e terrorismo eversivo di estrema sinistra e di estrema destra); quindi si prepara ad una nuova stagione politica che, partita dal "centro-sinistra" voluto da Aldo Moro e Pietro Nenni, volgerà verso il tentativo di "compromesso storico" fra i democristiani di Moro e i comunisti di Enrico Berlinguer (compromesso poi naufragato nel sangue dello stesso Moro) e si assesterà, prima della tempesta di "Mani Pulite" e della cosiddetta "Seconda Repubblica", su un equilibrio determinato dall'ascesa dell'astro politico del socialista Bettino Craxi e dal susseguente passaggio alla formula del CAF (l'asse politico Craxi-Andreotti-Forlani) e del "pentapartito" (una maggioranza governativa fondata sull'alleanza fra democristiani, socialisti, repubblicani, socialdemocratici e liberali). C'è, dietro tutti questi rivolgimenti, un uomo per tutte le stagioni, inossidabile, sempre presente, capace di azioni determinate sia in politica interna sia sul piano internazionale tanto quanto rischia continuamente di essere chiamato in causa in alcuni dei misteri insoluti degli ultimi cinquant'anni: è Giulio Andreotti, l'ex-delfino di Alcide De Gasperi, il più longevo e titolato fra i nostri uomini politici.
E proprio poco prima della nascita della nuova "Cupola", si registra un evento, legato proprio al nome di Andreotti, che interviene a modificare gli equilibri politici siciliani ma con ripercussioni anche per le strategie politiche di Cosa Nostra. Nel 1968, infatti, sùbito dopo le elezioni politiche, l'ex-sindaco democristiano di Palermo Salvo Lima, fanfaniano di estrazione, aderisce alla neonata corrente di Giulio Andreotti (che, a livello nazionale, conta il 2% degli iscritti alla DC ma presto raggiungerà un "pesante" 10%) e ne diviene il capofila in Sicilia. Verrà presto seguito anche dai cugini Nino e Ignazio Salvo. Questi ultimi erano, originariamente, vicini alla corrente democristiana dorotea, vale a dire la più forte corrente democristiana degli anni '60: nata nel 1959 nel convento romano di Santa Dorotea su iniziativa di Mariano Rumor, Emilio Colombo, Aldo Moro e Paolo Emilio Taviani, che avevano deciso di staccarsi da Amintore Fanfani, la corrente dorotea aveva portato Moro alla segreteria del partito, determinando così la definitiva apertura al Partito Socialista e la nascita del primo governo di centrosinistra, varato nel 1963 e presieduto dallo stesso Moro. Alle soglie degli anni '70, Nino e Ignazio Salvo transitano anch'essi nelle fila della nuova corrente andreottiana. Nel 1976, anche Vito Ciancimino, l'altro responsabile politico del "sacco di Palermo" oltre Lima, si lega ad Andreotti: il legame viene sancito a Palazzo Chigi, in una riunione alla quale, oltre ad Andreotti, Lima e Ciancimino, partecipano Mario D'Acquisto e Giovanni Matta. Secondo la tesi sostenuta dall'accusa al processo di Palermo contro Andreotti, è in seguito a questo "patto di Palazzo Chigi" che Cianciamino viene finanziato dalla corrente andreottiana tramite Gaetano Caltagirone. Il "patto" Andreotti-Ciancimino, comunque, durerà fino al congresso regionale della DC siciliana, celebrato ad Agrigento nel 1983.


2.4. Il
golpe Borghese


Ma torniamo alle vicende di Cosa Nostra. In quel 1970, che si rivelerà uno degli anni più "misteriosi" della storia italiana, uno dei primi atti della nuova Commissione mafiosa incide profondamente sulla storia della Repubblica.
Sembra, infatti, che
“Ciaschiteddu” Greco abbia fatto parte del tentativo di colpo di stato del principe Junio Valerio Borghese. Questi, ex-comandante della X Mas durante la Repubblica Sociale Italiana (RSI), era stato reclutato dalla CIA (il servizio segreto statunitense) già prima della fine della Seconda Guerra Mondiale e quindi utilizzato, insieme ad altri ex-militanti della RSI e dell'OVRA (la polizia segreta fascista), per "operazioni coperte" quale, secondo alcuni, fu anche la strage di Portella della Ginestra, compiuta l'1 maggio 1947 da mafiosi e dagli uomini di Salvatore Giuliano ma con la collaborazione, sempre secondo alcuni, anche di fascisti più o meno noti, tra i quali ci sarebbe stato lo stesso Borghese. Dopo qualche anno passato in politica, Borghese fonda, nel 1968, il movimento neofascista denominato "Fronte Nazionale", in stretto collegamento con altri due movimenti neofascisti, ossia "Ordine Nuovo" (fondato nel 1956 da Pino Rauti) ed "Avanguardia Nazionale" (fondata nel 1960 da Stefano Delle Chiaie, transfuga proprio da "Ordine Nuovo"): il “Fronte Nazionale” era in realtà formato da una struttura pubblica e visibile (il cosiddetto "Gruppo A") e da reparti segreti armati (il cosiddetto "Gruppo B"). Assicuratosi il sostegno di alcuni finanziatori del Nord, Borghese puntò al Sud. In particolare attraverso "Avanguardia Nazionale" alimentò la rivolta di Reggio Calabria e diede vita ad una serie di attentati: "pentiti" della mafia siciliana e della 'ndrangheta calabrese hanno, in anni recenti, svelato retroscena relativi alla partecipazione, il 22 luglio 1970, al deragliamento della Freccia del Sud, che provocò 6 morti e 54 feriti. Era uno degli atti finali della "strategia della tensione" che, come abbiamo detto prima, doveva, nei piani dei suoi fautori, portare ad una svolta autoritaria. Svolta che poteva derivare soltanto da un colpo di mano. In caso di successo del golpe, Borghese aveva promesso l'amnistia per i membri della mafia in prigione, in particolare per Natale Rimi: in cambio, Cosa Nostra, secondo quanto rivelato da alcuni "pentiti", tra i quali Gaetano Grado, avrebbe dovuto appoggiare il golpe e, in particolare, avrebbe dovuto organizzare l'occupazione della sede RAI di Palermo, delle questure e delle prefetture siciliane. Dopo una riunione tenutasi nel 1970 a Milano, con la partecipazione anche di Gerlando Alberti e di Giuseppe Calderone, la Commissione decide che la mafia non prenderà parte al progetto del principe Borghese. Secondo quanto rivelato da Buscetta, Badalamenti avrebbe detto: "A noi i fascisti non ci hanno mai sopportato e noi andiamo a fare un golpe proprio per loro?". Gli "uomini d'onore" temevano, dunque, un nuovo prefetto Cesare Mori?
Il golpe, progettato per la notte tra il 7 e l'8 dicembre 1970 (nome in codice del piano insurrezionale "Tora Tora"), fallisce. Le forze erano già pronte e schierate: tra esse, un gruppo di uomini armati, al comando di Licio Gelli, con l'incarico di arrestare il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat; brigate al comando del colonnello Amos Spiazzi, uno dei capi del gruppo di estrema destra "Rosa dei Venti"; un nucleo guidato da Stefano Delle Chiaie; un centinaio di uomini armati concentrati nella palestra di via Eleniana, a Roma; e un gruppo al comando di Sandro Saccucci, già pronto ad arrestare gli uomini politici indicati nelle liste di proscrizione approvare da Borghese in persona. Ma, quando ormai la sede del Ministero degli Interni, al Viminale, era stata ormai violata e praticamente occupata, un misterioso contrordine, la cui provenienza lo stesso Borghese non rivelò mai, ingiunse al principe di fermare tutto e impose una coltre di silenzio sul tentato putsch: il governo, presieduto dal democristiano Emilio Colombo, rimane, infatti, all'oscuro di tutto. Soltanto il 17 marzo 1971 "Paese Sera" pubblicò la notizia che solo pochi mesi prima l'Italia era stata sull'orlo di un golpe. Il 19 marzo il principe Borghese viene raggiunto da un ordine di cattura con l'imputazione di cospirazione, ma è già fuggito in Spagna, dove morirà, a Cadice, nel 1974 (forse avvelenato, come sostennero i suoi fedelissimi). Il processo contro 78 imputati di cospirazione si concluderà con un nulla di fatto: nella sentenza di assoluzione, emessa il 27 novembre 1984, la Corte d'Assise d'Appello di Roma liquidò il tentato golpe come "un'isolata manifestazione eclatante, ostile, di per sè inidonea a realizzare l'evento previsto". In quel movimentato 1970, anno fatidico per l'approvazione di due leggi fondamentali come lo "Statuto dei lavoratori" e la Legge Baslini-Fortuna, che finalmente introduceva anche da noi il divorzio, l'Italia aveva sfiorato il colpo di Stato ma nessuno se n'era accorto. Sempre in quel movimentato 1970, intanto, sul fronte mafioso, “Ciaschiteddu” Greco torna in Venezuela e stipula una salda alleanza con la famiglia Gambino di New York e con le famiglie Caruana e Cuntrera di Siculiana, in provincia di Agrigento, per gestire e potenziare il traffico di droga.


2.5. Il rapimento di Mauro De Mauro



Ma, già prima degli avvenimenti del dicembre 1970, in Sicilia era successo qualcosa di terribile, non si sa quanto riconducibile proprio a quegli eventi.
Palermo, sera del 16 settembre 1970: il cronista de "L'Ora" e corrispondente dall'isola de "Il Giorno" e della Reuters, Mauro De Mauro, 49 anni, originario di Foggia ma trasferitosi in Sicilia nel 1945, sta per rientrare nella sua casa di viale delle Magnolie, 58, quando la figlia Junia vede dal balcone tre persone salire sulla BMW color blu notte del padre e sente dire soltanto la parola "Amuninni" ("Andiamo"). La macchina riparte a gran velocità. Verrà ritrovata l'indomani sera un chilometro più avanti, in via Pietro D'Asaro, vuota e con un finestrino abbassato. Nulla, invece, si saprà mai più di Mauro De Mauro, ingoiato dalla "lupara bianca". Le indagini vengono condotte dal sostituto procuratore della Repubblica di Palermo Ugo Saito. Mauro De Mauro era un giornalista investigativo, forse il migliore: aveva esordito raccogliendo le memorie del siculo-americano Tony Mauriello; aveva raccontato la vita di Lucky Luciano, intervistandone la sorella, e di Frank Coppola; era stato lui a coniare l'espressione "mammasantissima" in riferimento ai boss mafiosi; aveva curato, insieme a Felice Chilanti, il colossale reportage uscito nell'aprile 1963 e intitolato "Rapporto sulla mafia", scrivendo che "il centro dove la mafia esercita le maggiori aliquote dei suoi molteplici interessi, e dove ha saputo trasformarsi in efficienti gruppi di potere politico ed economico che ne hanno fatto, per la prima volta in un secolo, uno 'stato nello Stato, è appunto Palermo"; aveva raccontato gli esiti di una complicata indagine sul narcotraffico tra l'Italia e gli Stati Uniti; nel 1969 si era occupato della strage di viale Lazio. De Mauro, inoltre, non era il primo cronista de "L'Ora" a venir preso di mira: il 5 maggio 1960, a Termini Imerese, era stato, infatti, ucciso Cosimo Cristina, giornalista, appunto, de "L’Ora" e fondatore di "Prospettive Siciliane".
Gli investigatori trovano nell'auto di De Mauro degli appunti riguardanti una speculazione edilizia, ma la decisione di farlo fuori potrebbe essere nata anche dal fatto che De Mauro stava navigando in acque ben più perigliose. Bruno Carbone, un collega di De Mauro, racconta che il 14 settembre, due giorni prima di sparire, De Mauro gli confida di essere alle prese con roba scottante: Carbone gli consiglia di parlarne con qualcuno, poichè, secondo quanto insegna la triste esperienza italiana (e siciliana in particolare), essere l'unico depositario di notizie pericolose equivale a firmare la propria condanna a morte. Carbone consiglia a De Mauro di rivolgersi al procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Scaglione: secondo il racconto dello stesso Carbone, De Mauro, il giorno seguente, ossia il 15 settembre, si sarebbe recato proprio da Pietro Scaglione. Il 16 settembre De Mauro scompare. Il 5 maggio dell'anno successivo Scaglione muore, assassinato dalla mafia insieme al suo autista Lo Russo. L'editore palermitano Fausto Flaccovio, il cronista dell'ANSA Lucio Galluzzo e un'amica di De Mauro riveleranno a loro volta che, poco prima di sparire, Mauro De Mauro aveva loro confidato di star indagando sugli ultimi due giorni di vita del presidente dell'Eni, Enrico Mattei, scomparso in un misterioso incidente aereo nel 1962. De Mauro aveva detto che si stava occupando "di un soggetto per un film di Francesco Rosi sul caso Mattei", e aveva aggiunto: "E' roba da far tremare l'Italia". De Mauro ne aveva accennato persino alla figlia Junia. Il film uscirà nel 1972. Gli investigatori scoprono che il cassetto della scrivania di De Mauro nella redazione de "L'Ora" risulta forzato: mancano nastri magnetici (tra cui uno con la registrazione dell'ultimo discorso tenuto da Enrico Mattei a Gagliano), due pagine dei block notes del giornalista sono state strappate e mancano anche altri fogli più recenti che riguardano incontri avuti per la preparazione della sceneggiatura del film "Il caso Mattei" di Francesco Rosi. Non si sa più nulla neppure di una misteriosa busta arancione, dentro la quale nessuno ha mai saputo cosa ci fosse. I tre investigatori che si occupano del caso, Boris Giuliano, all'epoca capo della Sezione Omicidi della Squadra Mobile di Palermo, l'allora capitano dei Carabinieri Giuseppe Russo, comandante del Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Palermo, e l'allora comandante della Legione Carabinieri della Sicilia, Carlo Alberto Dalla Chiesa, verranno tutti e tre uccisi dalla mafia tra il 1977 e il 1982, anche se, da quanto risulta, non per aver indagato sul rapimento di De Mauro. Ma è certamente una sinistra coincidenza. Le piste seguite erano due. Secondo i Carabinieri, De Mauro aveva scoperto un traffico internazionale di droga (il "pentito" Gaspare Mutolo accuserà, decenni dopo, Stefano Bontade di avere per questo ordinato la morte di De Mauro). La Polizia, in particolare il dirigente della Sezione Antimafia della Squadra Mobile di Palermo Bruno Contrada ed il dirigente della Sezione Omicidi Boris Giuliano, segue invece la pista relativa al caso Mattei: nel 1998, il SISDE consegnerà al PM Calia (il magistrato che aveva condotto l'inchiesta sulla morte di Enrico Mattei) un inquietante appunto del 1979, dove si legge testualmente che "il vicequestore Boris Giuliano, capo della Squadra Mobile di Palermo, ucciso dalla mafia nel 1979, si occupava, ormai quasi a titolo personale, della scomparsa del noto giornalista Mauro De Mauro, eliminato, si afferma, per aver trovato il bandolo della matassa sull'incidente aereo che costò la vita ad Enrico Mattei". Ma, nel corso del tempo, salterà fuori una terza pista, quella che porta al fallito golpe ordito dal principe Borghese, di cui abbiamo parlato poc'anzi: gli inquirenti hanno ritenuto probabile che De Mauro fosse venuto a sapere di questo tentativo eversivo "in fieri" e dei contatti fra Borghese e Cosa Nostra, ma a collegare il nome del giornalista a quello del principe sarebbe anche il passato dello stesso De Mauro da militante repubblichino e ufficiale della X Mas (di cui Borghese, come abbiamo detto, era il comandante). Già nel settembre 1969 un altro cronista de "Il Giorno", Camillo Arcuri, aveva saputo da una sua fonte confidenziale (che lui stesso rivelerà, anni dopo, essere Francesco Cattani, all'epoca presidente della Commissione Parlamentare Antimafia) di una riunione segreta in Liguria in cui Borghese aveva incontrato degli economisti genovesi per preparare un colpo di Stato militare. Arcuri aveva indagato e aveva scritto un articolo che non ricevette mai l'autorizzazione per la pubblicazione: fu Arcuri, al contrario, a ricevere delle esortazioni al silenzio, cosicchè il contenuto di quell'articolo si è potuto conoscere soltanto trent'anni dopo. De Mauro, invece, fu messo a tacere per sempre. Dopo il suo rapimento, si diffonde la notizia che sia in preparazione un rapporto di denuncia che chiarirà ogni cosa: il questore di Palermo, Ferdinando Li Donni, annuncia che gli inquirenti sono sul punto di arrivare a quello che lui stesso definisce Mister X, pur non chiarendo quale ruolo abbia svolto o possa svolgere questo ignoto personaggio nella vicenda. Finchè dal SID (il servizio segreto) non arriva l'ordine di rallentare le indagini: in una riunione a Palermo, a Villa Boscogrande, con i vertici di Polizia e Carabinieri, è lo stesso direttore del SID, il generale Vito Miceli, ad impartire la direttiva. Siamo a meno di un mese dalla data fissata per il golpe Borghese. Il generale Miceli verrà, in seguito, ritenuto coinvolto nel golpe e sarà arrestato nel 1974.
L'unico nome sul quale gli inquirenti avevano puntato nelle prime settimane successive alla sparizione di De Mauro è quello del cavaliere Antonino Buttafuoco, noto commercialista palermitano. Elda De Mauro, moglie del giornalista, racconta agli investigatori di tre strane telefonate di Buttafuoco e di un altrettanto strano incontro con lui. Durante quell'incontro, Buttafuoco, recatosi in casa di De Mauro nei primissimi giorni del sequestro, aveva chiesto ai familiari se De Mauro stesse per caso lavorando su "certe carte" e se si trattasse, in particolare, di "carte sull'ENI": stando al racconto dei familiari del giornalista scomparso, Buttafuoco, alla fine della sua visita, avrebbe addirittura lasciato intendere alla famiglia De Mauro che la vicenda poteva risolversi positivamente. La prima telefonata del cavaliere, invece, era arrivata a Elda De Mauro poche ore dopo il rapimento del marito, in un momento in cui ancora la notizia non era stata ancora diffusa. Pochi giorni dopo, quando agli inquirenti era stata recapitata una bobina con la registrazione di una voce alterata che informava che De Mauro era vivo, e la bobina era stata fatta ascoltare alla famiglia del giornalista, il cavalier Buttafuoco aveva fatto una seconda telefonata alla signora Elda per informarsi se la bobina era stata recapitata: ma nessuno, al di là della famiglia De Mauro e degli inquirenti, avrebbe dovuto essere a conoscenza dell'esistenza di quella bobina. La terza telefonata è un colloquio tra Buttafuoco e
l'avvocato Vito Guarrasi, che si trova a Parigi: ancora nell'intervista a Tony Zermo, pubblicata su "La Sicilia" del 10 febbraio 2003, di cui abbiamo parlato poc'anzi a proposito del caso Mattei, l'ex-senatore democristiano Graziano Verzotto (nella foto) racconta: "C'è una registrazione telefonica. Guarrasi, da Parigi, parla al telefono con il vecchio commercialista Nino Buttafuoco e gli dice di parlare di meno, di stare più cauto". Vito Guarrasi, ovvero un ambiguo personaggio che è entrato in molte oscure vicende economiche e politiche della Sicilia come il caso dell'Italkali; l'uomo che, in qualità di responsabile del piano di sviluppo industriale della Regione Siciliana, aveva voluto, insieme al presidente dell'ENI Eugenio Cefis, lo stabilimento petrolchimico di Gela; colui che, infine, a quanto si dice, svolse a suo tempo un ruolo mai chiarito addirittura nell'armistizio di Cassibile del 1943. Un uomo che ebbe, dunque, a che fare con Enrico Mattei. E come nel caso De Mauro possa entrarci anche il nome di Graziano Verzotto è presto spiegato. De Mauro, pochi giorni prima della sua scomparsa, si recò da Verzotto. All'epoca del delitto Mattei, come abbiamo visto, Verzotto era rappresentante dell'ENI in Sicilia, nonchè ideatore del progetto del metanodotto tra Algeria e Sicilia, poi rilevato dall'ENI, e successivamente sarebbe divenuto presidente dell'Ente Minerario Siciliano e segretario regionale della DC. De Mauro, nella sua indagine sulle ultime ore di Mattei in Sicilia prima del decollo del Morane Saulnier, chiede lumi a Verzotto su quel tragico 27 ottobre 1962, giorno della sciagura di Bascapè. "Gli feci la cronistoria della giornata" - racconta Verzotto nella citata intervista a Tony Zermo - "e gli suggerii di andare dall'avvocato Guarrasi, che però non lo volle ricevere".
Il colloquio fra De Mauro e Verzotto verrà a conoscenza degli investigatori soltanto in un secondo momento. In quel rovente autunno del 1970, intanto, la Polizia arresta Buttafuoco. I giornali fanno un gran rumore intorno alla notizia. L'editore palermitano ed ex-direttore del "Giornale di Sicilia" Roberto Ciuni riferisce al PM Saito che, un mese dopo la scomparsa di De Mauro, aveva contattato Buttafuoco per una consulenza fiscale e quest'ultimo gli aveva detto di aver incontrato De Mauro poco prima di quel maledetto 16 settembre e di avergli dato informazioni sugli uffici tributari di Palermo. E' questo il momento in cui il questore Li Donni tira fuori, al di là del cavalier Buttafuoco, l'ombra di Mister X. Secondo alcuni, sulla base della registrazione della sopracitata telefonata tra Parigi e Palermo, potrebbe trattarsi addirittura dell'avvocato Vito Guarrasi. Chi era (o avrebbe potuto essere) Mister X per il questore Li Donni non lo sapremo mai. Perchè il momento in cui il questore fa questa rivelazione criptata è anche il momento in cui arriva la direttiva del SID di cui abbiamo parlato prima. In conseguenza del rallentamento delle indagini, da leggere probabilmente nell'ottica dell'imminenza del golpe Borghese, il cavalier Buttafuoco viene scarcerato (verrà prosciolto definitivamente nel 1983). Tullio De Mauro, fratello del giornalista scomparso e futuro ministro della Pubblica Istruzione nel governo Amato, racconterà che Boris Giuliano gli avrebbe detto, dopo la riunione di Villa Boscogrande: "Mi sento come un vigile urbano che deve dirigere il traffico di un aeroporto con la paletta". Di Mister X nessuno sentirà più parlare, di chiunque si potesse trattare. Anni dopo, alcuni pentiti (Tommaso Buscetta, Antonino Calderone e Francesco Di Carlo) racconteranno che Mauro De Mauro fu rapito da Bernardo Provenzano (come sostenuto, in particolare, da Di Carlo), e da Stefano Giaconia ed Emanuele D'Agostino, questi ultimi due della famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù. Con quest'ultimo è stato appurato che De Mauro aveva parlato, pochi giorni prima di sparire, delle sue inchieste giornalistiche: sarebbe stata proprio la presenza di D'Agostino, quella sera, in viale delle Magnolie, ad indurre De Mauro ad andare con i tre misteriosi uomini che lo aspettavano sotto casa senza opporre resistenza, come racconta sua figlia Junia. Sempre secondo i pentiti, De Mauro sarebbe stato prima interrogato e poi strangolato da Provenzano, Giaconia, D'Agostino e da Mimmo Teresi, anch'egli della famiglia di Santa Maria di Gesù: l'ordine sarebbe partito dal triumvirato Bontade-Badalamenti-Riina, dopo un incontro a Roma con il principe Borghese e due alti ufficiali del SID, il servizio segreto militare di allora. Il corpo del giornalista non è stato mai trovato: sono state avanzate diverse ipotesi, tra le quali quella che vorrebbe che il cadavere sia stato seppellitto da qualche parte tra la foce del fiume Oreto e la borgata di Villagrazia, o ai di Monte Grifone. Successivamente, il sostituto procuratore della Repubblica di Palermo Giusto Sciacchitano propone l'archiviazione del caso, ma, l'8 aprile 1991, il giudice istruttore Giacomo Conte chiede alla Procura un supplemento d'indagine, ritenendo che vi siano "elementi di prova che portano a Giuseppe Di Cristina e Giuseppe Calderone quali autori del sequestro De Mauro, nell'ipotesi che il sequestro sia stato fatto per bloccare l'inchiesta del giornalista sulla fine di Mattei". Al momento in cui scriviamo, il caso non è ancora chiuso. Nel 2006, infatti, è iniziato un nuovo processo, nel quale il giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di Palermo Umberto De Giglio ha rinviato a giudizio per omicidio come unico imputato Totò Riina, il solo sopravvissuto fra i presunti mandanti: gli altri due membri , oltre Riina, del triumvirato che all'epoca reggeva Cosa Nostra, infatti, sono morti (Bontade nella guerra di mafia dei primi anni '80 e Badalamenti in carcere negli Stati Uniti) e così anche Mimmo Teresi, Stefano Giaconia ed Emanuele D'Agostino, assassinati tutti e tre (come Bontade) nella guerra di mafia degli anni '80. Il processo è iniziato davanti alla Corte d'Assise di Palermo il 4 aprile 2006. E la presenza di Provenzano fra gli esecutori non è ancora certa: nel febbraio 2007 la Procura di Palermo ha aperto un'inchiesta sullo stesso Provenzano, stralciando la sua posizione dal procedimento principale contro Riina. Il sostituto procuratore della Repubblica di Palermo Antonino Ingroia ha, tra gli altri, interrogato recentemente anche Roberto Ciuni. Al momento in cui scriviamo, l'inchiesta su Provenzano è ancora in corso.


2.6. Il delitto Scaglione e il "Rapporto dei 114"



E' in questo periodo, dunque, ossia agli inizi degli anni '70, che si consuma la tragica svolta nel modo di agire di Cosa Nostra verso gli uomini delle istituzioni e della società civile. "La mafia non colpisce gli uomini dello Stato", si era detto fino allora, sulla scorta di dichiarazioni degli stessi "uomini d'onore" alla sbarra in qualche processo, ma anche secondo quella diffusa vox populi che non sarà mai una prova incontrovertibile di nulla ma certo dava il polso di una determinata atmosfera. Questa atmosfera, cambiata improvvisamente già con l'omicidio di Mauro De Mauro, viene ulteriormente ad offuscarsi il 5 maggio 1971: il procuratore della Repubblica di Palermo, Pietro Scaglione, 65 anni (da poco nominato procuratore generale di Lecce e in procinto di trasferirsi), ed il suo autista, Antonino Lo Russo, vengono uccisi da un commando formato da tre killers. Sul cielo di via dei Cipressi, il luogo dell'agguato, vicino al cimitero dei Cappuccini, dove il giudice Scaglione si recava a pregare sulla tomba della moglie, si addensano, terribili, le nubi di una nuova strategia mafiosa, che alza il tiro verso gli uomini delle istituzioni fino a quel momento mai presi di mira. Nella sua lunga carriera di giudice e di pubblico ministero, Pietro Scaglione aveva istruito il processo per l’assassinio del sindacalista Salvatore Carnevale (avvenuto nel 1955) e aveva indagato su molti misteri siciliani, dal banditismo fino (come abbiamo visto) alla strage di Ciaculli e alla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro. Quello di Scaglione è il primo omicidio "eccellente" a Palermo. Non sarà l'ultimo, purtroppo. Anche la morte del suo autista Lo Russo è, tristemente, soltanto la prima di una lunga serie di autisti, agenti, uomini di scorta che cadranno al fianco dei loro "protetti". Anche in questo caso, come per la strage di Ciaculli, l'emozione è forte e la reazione dello Stato determinata, come dimostra una serie di rapporti congiunti dei Carabinieri e della Squadra Mobile di Palermo (nell'àmbito della quale Bruno Contrada dirige la Sezione Investigativa). Proprio Contrada, insieme a Boris Giuliano, capo della Sezione Omicidi della Squadra Mobile, e al capitano Giuseppe Russo, capo del Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Palermo, è tra i principali ispiratori del cosiddetto "Rapporto dei 114". Si tratta di una serie di rapporti di polizia giudiziaria redatti tra il giugno e il dicembre del 1971, nei quali vengono denunciati per gli omicidi Scaglione e Lo Russo sia Francesco Albanese che altre 65 persone, e per associazione a delinquere e traffico di stupefacenti Badalamenti e altre 113 persone, ossia i mafiosi più rappresentativi dell'epoca: apre la lista Giuseppe Albanese, poi seguono Gerlando Alberti, Giuseppe Bono, Stefano Bontade, Giovan Battista Brusca, Tommaso Buscetta, Giuseppe Calderone, Francesco Paolo Coppola detto Frank, Gerolamo D'Anna, Pietro Davì, Giuseppe Di Cristina, Antonino, Gaetano e Giuseppe Fidanzati, Salvatore Greco "Ciaschiteddu", Michele Greco "il Papa", Salvatore Greco "il Senatore", Salvatore Greco "l'Ingegnere" ovvero "Totò il lungo", Luciano Liggio, Rosario Mancino, Giuseppe Mangiapane, Gioacchino Pennino, Natale Rimi, Salvatore Riina, Antonino Salomone, Giuseppe e Tommaso Spataro, Pietro Vernengo e tanti altri. Il processo, celebratosi a Palermo, conferma l'impianto accusatorio formulato nel rinvio a giudizio nei confronti degli imputati, ancorchè questi, dai 114 del rapporto di denuncia di Polizia e Carabinieri, fossero scesi a 75, e individua i collegamenti internazionali tra mafia siciliana, mafia americana e gruppi operanti in Francia e Canada per il traffico di droga. Badalamenti è condannato a 6 anni e 8 mesi di reclusione. Il soggiorno di noti mafiosi a Milano e la riunione ivi svoltasi nel 1970 richiamano l'attenzione della Commissione Parlamentare Antimafia, che sin dal 1972 menziona questi fatti in due relazioni a firma del presidente Francesco Cattanei, la prima, e del suo successore Luigi Carraro, la seconda, concentrando la propria attenzione sul ruolo di punta di Badalamenti. Alla relazione Carraro aggiunge un particolare di non poco conto la relazione di minoranza firmata da deputati e senatori del Partito Comunista Italiano e della Sinistra Indipendente, a cominciare da Pio La Torre: "il commercialista palermitano Pino Mandalari (candidato del MSI alle elezioni politiche del 1972) ospita nel suo studio le società finanziarie di alcuni tra i più noti gangsters, tra cui Salvatore Riina, braccio destro di Liggio, e il Badalamenti di Cinisi, nonché quelle di Coppola. Tali società, intestate a dei prestanome, si occupano delle attività più varie, dall'acquisto dei terreni ed immobili come beni di rifugio, alla speculazione edilizia, alla sofisticazione dei vini". Pino Mandalari, che più tardi verrà indicato esplicitamente come il "commercialista di Totò Riina", verrà arrestato nel dicembre 1995.


2.7. I sequestri Cassina e Corleo.
La fine di Badalamenti.


Nel frattempo, Totò Riina eredita il comando prima esercitato da Luciano Liggio e comincia ad agire per minare progressivamente il potere e il prestigio di Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti. Approfittando di un periodo di carcerazione di questi ultimi, nonchè di Liggio, Riina, nel 1972, organizza il rapimento di Luciano Cassina (il figlio del conte Arturo, che è ritenuto vicino a Bontade ed è colui che detiene da anni il monopolio dell'appalto per la manutenzione stradale, l'illuminazione pubblica e la manutenzione della rete fognaria a Palermo) senza informarne preventivamente né Bontade né Badalamenti. I due, appresa la notizia, protestano in maniera veemente, ma Luciano Liggio li mette a tacere dicendo che oramai è del tutto inutile discutere dal momento che il riscatto è stato pagato (riscosso da un prete, padre Agostino Coppola, mafioso della famiglia di Partinico) e l'ostaggio liberato. L'obiettivo principale di Riina non è solo incassare i soldi del riscatto, ma soprattutto inficiare il prestigio sia di Badalamenti che di Bontade, mostrando loro che si può colpire un loro "protetto" in qualunque momento. Nel luglio del 1975, poco dopo l'omicidio dell'agente della Squadra Mobile di Palermo Gaetano Cappiello (avvenuto il 2 luglio e che provocò una furibonda reazione di Bruno Contrada, allora capo della Mobile: ne parleremo in un capitolo successivo), si verifica l'episodio forse più devastante per il prestigio di Bontade e Badalamenti, ossia il sequestro di Luigi Corleo, suocero dell'esattore Nino Salvo (quest'ultimo affiliato, come il cugino Ignazio Salvo, alla cosca di Salemi ed entrambi particolarmente vicini agli stessi Badalamenti e Bontade). Il sequestro Corleo, a parte l'enormità del riscatto, 20 miliardi dell'epoca, è un colpo durissimo sia per Bontade sia per Badalamenti. Nè l'uno né l'altro riusciranno a scoprire gli autori del rapimento, nè saranno in grado di fare nulla di significativo per la liberazione dell'ostaggio e, dopo che questi verrà ucciso, neppure per la restituzione del corpo. Frattanto, il triumvirato a capo della Cupola si scioglie e il comando torna ancora nelle mani del solo Badalamenti. La prima decisione è quella di porre il veto ai sequestri di persona in Sicilia "e ciò" - spiegherà Buscetta - "non per motivi umanitari ma per un mero calcolo di convenienza. I sequestri, infatti, creano un sentimento generale di ostilità da parte della popolazione nei confronti dei sequestratori e ciò è controproducente se avviene in zone, come la Sicilia, dove la mafia è tradizionalmente insediata". Anche il catanese Giuseppe Calderone si oppone ai sequestri di persona per motivi opportunistici dal momento che, proteggendo i noti costruttori catanesi Costanzo, "egli" - spiegherà ancora Buscetta - "non sarebbe stato in grado di difenderli adeguatamente da un sequestro non avendo a sua disposizione un numero adeguato di soldati". Il ritorno del bastone del comando nelle mani del solo Badalamenti e questa linea, tutto sommato, più "moderata" assunta dalla Commissione, non impediscono a Riina di ordinare motu proprio, ancora senza informare Bontade e Badalamenti, l'assassinio, il 20 agosto 1977, del tenente colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo. Dell'agguato rimane vittima anche l'insegnante Filippo Costa, colpevole solo di trovarsi in quel momento a passeggio con il tenente colonnello Russo.
Dopo una serie molto lunga di colpi per indebolire il prestigio di Badalamenti, Riina riesce finalmente ad ottenere che quest'ultimo sia espulso da Cosa Nostra, o, come si dice in gergo mafioso, posato. Rimane un mistero quale sia stato il gravissimo sgarro di cui don Tano dovette macchiarsi per subire, addirittura da capo della mafia, un'onta simile, così come è un mistero il fatto che Riina non abbia approfittato di questa situazione per uccidere Badalamenti. Forse perchè questi era compare di Liggio, che gli aveva tenuto a battesimo un figlio e che potè dunque intercedere per salvargli la vita; forse per non ledere interessi economici di mafiosi di peso anche internazionale, con i quali Badalamenti, ancorchè posato, continuava a gestire traffici di droga; forse perchè l'uccisione di Badalamenti avrebbe fatto reagire ben più decisamente e pesantemente Stefano Bontade, che era ancora molto potente, avendo a disposizione uomini fidati e un sistema di relazioni politiche ancora molto forte. Resta da vedere quando esattamente Badalamenti sia stato posato, avendo questa circostanza una diretta relazione con l'assassinio di Peppino Impastato. Leggiamo quanto ha detto Giovanni Falcone a Marcelle Padovani nel famoso libro-intervista "Cose di Cosa Nostra": "Gaetano Badalamenti, resosi conto di quanto si sta tramando contro di lui, decide di eliminare un certo numero di persone, in particolare Francesco Madonia della famiglia di Vallelunga, in provincia di Caltanissetta (e capomandamento di Resuttana-San Lorenzo, a Palermo, nda), con cui Liggio appare legato a doppio filo. Nel gennaio 1978 Salvatore Greco detto «Cicchiteddu» (uccellino), giunto dal Venezuela dove risiede, ma che ha conservato tutta la sua influenza su Cosa Nostra, incontra in una riunione a Catania Gaetano Badalamenti. Questi, accompagnato da Santo Inzerillo, suo amico fedele, solleva il problema dell'eliminazione di Francesco Madonia, aggiungendo che Giuseppe Di Cristina, capo della famiglia di Riesi, è disposto ad occuparsene. Ma «Cicchiteddu» consiglia di soprassedere, di rimandare ogni decisione a data successiva e invita anzi Di Cristina a lasciare la carica di capo famiglia e di «andare a riposare in Venezuela» con lui. Ripartito per Caracas, vi muore prematuramente, per cause naturali, il 7 marzo 1978. Il 16 marzo Francesco Madonia viene ucciso, secondo le dichiarazioni di Antonino Calderone, da Giuseppe Di Cristina e Salvatore Pillera (inviato di rinforzo dal catanese Giuseppe Calderone). Il 30 aprile 1978 è il turno però di Giuseppe Di Cristina, assassinato nonostante un suo tentativo di mettersi in contatto coi Carabinieri. Il 30 settembre 1978 viene ucciso Giuseppe Calderone e, fatto più importante, Gaetano Badalamenti viene «posato» dalla sua famiglia".
La scansione temporale fatta da Falcone è di estremo interesse perché ci dice come Riina abbia abilmente stretto il cerchio attorno a Badalamenti e a Bontade per poi dividerli, evitando che Bontate potesse giungere in soccorso di Badalamenti. Prima viene ucciso Di Cristina, poi viene ucciso Calderone, il cui omicidio viene commissionato da Nitto Santapaola, che conferma, in tal modo, di essere passato dalla parte dei corleonesi (ed è un nuovo punto a favore di Riina): Riina elimina, così, due tra i più potenti amici di Bontade e di Badalamenti poi, alla fine, posa Badalamenti con un argomento così forte da paralizzare la reazione di Bontade. Dal racconto di Falcone sembra che questo argomento possa essere proprio l'accusa di aver fatto uccidere Francesco Madonia, accusa che Riina avrebbe fatto esplicitamente in Commissione a Badalamenti il 10 aprile. Badalamenti viene, così, espulso dalla Commissione.
Intanto, Badalamenti, in piena crisi, fa uccidere Peppino Impastato, figlio di un appartenente alla sua cosca e autore, dall'emittente privata locale Radio Aut, di trasmissioni radiofoniche nelle quali lancia precise accuse allo stesso don Tano. E' il 9 maggio 1978, per tragica coincidenza lo stesso giorno in cui a Roma, in via Caetani, viene ritrovato, dentro una Renault 4, il cadavere del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, rapito il 16 marzo precedente dalle Brigate Rosse. Tra l'ottobre e il dicembre successivo, ma secondo alcuni già il 30 settembre, Badalamenti, già fuori dalla Commissione, viene posato anche dalla sua "famiglia". Deve lasciare la Sicilia in fretta e furia. Ulteriore aiuto, invero insperato, era comunque giunto a Riina dalla morte di "Ciaschiteddu" in Venezuela.
Gaetano Badalamenti verrà arrestato a Madrid il 9 aprile 1984: estradato negli Stati Uniti, rimarrà come un'ombra le cui dichiarazioni potrebbero influire in qualunque momento sulle vicende della mafia ma anche dei processi celebrati a Palermo contro i mafiosi e i loro presunti fiancheggiatori. Estradato negli Stati Uniti in quanto coinvolto nella famosa "Pizza Connection" (un anello del narcotraffico del valore di quasi due miliardi di dollari, che utilizzava pizzerie italiane negli Stati Uniti come punti di spaccio tra il 1975 e il 1984), viene processato e, nel 1987, condannato a 45 anni di carcere. Morirà nel centro medico federale di Devens, ad Ayer, nel Massachusetts, il 29 aprile 2004.


2.8. Michele Sindona



Per quanto riguarda la storia di questo particolare ad ambivalente personaggio, rimandiamo al capitolo relativo, appunto, al "caso Sindona". Qui basterà ricordare che il nome del banchiere di Patti, legato per vari motivi a Licio Gelli e alla Loggia P2 e al banchiere Roberto Calvi (se ne parlerà nel capitolo sopracitato), si ricollega alla mafia per una serie di vicende che vanno dalla sua ascesa nel mondo finanziario internazionale grazie agli appoggi di potenti boss italo-americani fino al suo falso sequestro avvenuto nell'estate del 1979.



2.9. L'ascesa dei "corleonesi": gli omicidi "eccellenti" e la guerra di mafia dei primi anni '80


Verso la fine del 1978, il posto del
posato Badalamenti al vertice della Cupola viene preso da Michele Greco "il Papa". Con Badalamenti fuori gioco e mentre Bontade perde progressivamente potere, i Greco si spostano progressivamente nell'orbita dei corleonesi. Così aveva fatto da tempo anche il boss di Porta Nuova Pippo Calò (come rivelato, già nel 1973, da Leonardo Vitale, il primo "pentito" storico di Cosa Nostra, poi creduto pazzo): Calò è il famigerato "cassiere" della mafia (così soprannominato per il suo ruolo nelle vicende finanziarie della mafia, particolarmente nel campo del riciclaggio di denaro sporco), ma soprattutto, visto il suo trasferimento a Roma a partire dall'inizio degli anni '70 sotto il falso nome di Mario Agliolaro, è il tramite di Cosa Nostra con la Banda della Magliana, con gruppi eversivi di stampo neofascista e con una parte deviata delle istituzioni. Non a caso, come vedremo, giocherà un ruolo chiave nell'attentato terroristico al rapido 904 Napoli-Milano del 1984 e, nel 1997, già condannato a due ergastoli nel primo maxiprocesso alle cosche del 1986, verrà implicato, insieme al capo della loggia massonica "P2" Licio Gelli, nell'omicidio del "banchiere di Dio" Roberto Calvi (assassinato a Londra nel 1982). In realtà, il potere dei "corleonesi" di Riina, coadiuvato da potenti luogotenenti del calibro di Leoluca Bagarella e Bernardo Brusca, è ormai consolidato. Su tutti, o meglio dietro tutti quanti, la figura di quello che soltanto in seguito apparirà come il vero "capo dei capi", superiore allo stesso Riina: Bernardo Provenzano, detto Binnu 'u tratturi, ossia "Binno il trattore", per il suo tristemente noto cursus honorum di "picciotto d'onore". I corleonesi "emergenti" scatenano la più sanguinosa guerra che la storia della mafia ricordi. Una guerra che il giudice Falcone spiega così a Marcelle Padovani nel già ricordato libro "Cose di Cosa Nostra": "L'origine di tale guerra risale agli inizi degli anni '70, quando alcune famiglie realizzano vere e proprie fortune grazie al traffico di stupefacenti. Gaetano Badalamenti, all'epoca uno dei pochi boss in libertà, getta le basi del commercio con gli Stati Uniti, in particolare con Detroit, dove ha la sua testa di ponte. Salvatore Riina, il "corleonese", se ne accorge nel corso di una conversazione con Domenico Coppola, residente negli Stati Uniti, da lui convocato appositamente in Sicilia. Ecco gettati i presupposti per lo scatenamento della guerra di mafia". Buscetta sottolinea a sua volta la disparità delle condizioni economiche tra Badalamenti, Liggio e Riina: "Badalamenti" dice "li ha mantenuti per anni, perché i corleonesi erano dei pezzenti morti di fame. Se ne prese cura, gli trovava le case per dormire durante le loro latitanze, il sostegno economico. Riina e Liggio avevano molti obblighi nei suoi confronti". Antonino Calderone ha raccontato del risentimento di Luciano Liggio, condiviso dagli altri corleonesi, nei confronti di Badalamenti: "L'accusa rivolta a Badalamenti era di essersi arricchito con la droga nel momento in cui molte famiglie si trovavano in serie difficoltà finanziarie e molti uomini d'onore erano quasi alla fame". Tra l'altro, sempre secondo Calderone, Badalamenti avrebbe iniziato da solo il commercio di stupefacenti "all'insaputa degli altri capimafia, che versavano in gravi difficoltà economiche". Le disparità di condizioni economiche esistenti all'interno di Cosa Nostra spiegano dunque in buona parte le origini della guerra di mafia.
Una guerra che fa morti (fra i più noti Stefano Bontade, ucciso il 23 aprile 1981 da Pino Greco "Scarpuzzedda" e da Giuseppe Lucchese, quindi Totò Inzerillo, ucciso l'11 maggio 1981, Nino Badalamenti, fratello di Tano e suo successore alla guida della cosca di Cinisi, ucciso il 19 agosto 1981, Leonardo Caruana, capofamiglia di Siculiana e vecchio alleato di "Ciaschiteddu" Greco, ucciso il 2 settembre 1981, il "traditore" Pietro Marchese, ucciso in carcere il 25 febbraio 1982, Rosario Riccobono, strangolato il 30 novembre 1982, ed infine Gerlando Alberti, prima arrestato il 26 agosto 1980 e poi, uscito di prigione, ucciso a Porto Empedocle il 28 agosto 1985: le cosche palermitane perdenti riescono a reagire uccidendo Michele Graviano il 7 gennaio 1982) e prigionieri (Badalamenti, come abbiamo visto, verrà arrestato ed imprigionato negli Stati Uniti e non vedrà più la luce del giorno fuori dal carcere fino alla morte; Michele Greco "il Papa", nonostante un'iniziale alleanza con Riina, sarà fra i condannati eccellenti del primo maxiprocesso alle cosche, celebrato, come vedremo fra breve, nel 1986; Antonino Salomone, capofamiglia di San Giuseppe Jato, si consegna alla polizia e il suo posto viene preso da Bernardo Brusca). Ma questa guerra ingenera anche un fenomeno nuovo, non nella sua natura bensì nelle modalità di esplicazione: quello dei pentiti. Il 24 ottobre 1983 il vecchio boss Tommaso Buscetta viene arrestato a San Paolo, in Brasile, dove era fuggito nel gennaio 1981, e, sùbito dopo essere stato estradato in Italia, il 16 luglio 1984 decide di aprire (anche se non totalmente) lo scrigno della sua conoscenza dei fatti di Cosa Nostra e si affida ai giudici palermitani, seguito ben presto da un personaggio più anonimo e controverso, Salvatore Contorno. In particolare, quest'ultimo era sopravvissuto al presunto eccidio che si svolse alla Favarella nel 1981: sùbito dopo la morte di Stefano Bontade, infatti, Michele Greco, in qualità di capo della Cupola, aveva assunto il controllo indiretto della cosca di Bontade e aveva convocato undici membri di quella "famiglia" nella sua tenuta della Favarella. Di quegli undici mafiosi non se ne sentì più parlare: ma Contorno, sospettando qualcosa, non aveva aderito all'invito del "Papa" e aveva salvato la pelle. Dopo essere scampato ad un agguato tesogli da un gruppo di fuoco comandato dal nipote del "Papa", ossia Pino Greco detto "Scarpuzzedda" (uno dei più spietati torturatori e killers dei corleonesi vincenti, membro della famigerata "squadra della morte" insieme a Mario Prestifilippo, Filippo Marchese, Vincenzo Puccio, Giambattista Pullarà, Giuseppe Lucchese, Giuseppe Giacomo Gambino e Nino Madonia, e accusato di essere stato l'esecutore materiale degli omicidi del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e del giudice Rocco Chinnici, nonchè di Stefano Bontade, Rosario Riccobono, Salvatore Inzerillo e dello stesso Filippo Marchese), Contorno comincia ad inviare lettere anonime alla Polizia, finchè, il 24 marzo 1983, viene arrestato. L'anno successivo si "pente" e comincia a collaborare con gli inquirenti: le rivelazioni di Contorno suffragheranno l'instancabile opera investigativa del vicecapo della Squadra Mobile di Palermo, Ninni Cassarà. Quest'ultimo (con il consiglio e la collaborazione di Bruno Contrada, allora capo di gabinetto dell'Alto Commissariato Antimafia, come hanno testimoniato decine di colleghi dello stesso Cassarà: non è assolutamente vero che Cassarà "diffidasse" di Contrada...) firmerà, nel 1984, il "rapporto dei 162", conosciuto anche come "rapporto Michele Greco + 161", praticamente la base investigativa del maxiprocesso. Questo rapporto contribuirà a decretare la sua condanna a morte da parte di Cosa Nostra: il 6 agosto 1985 Cassarà, insieme all'agente Roberto Antiochia, viene ucciso davanti alla sua casa di Palermo. I corleonesi vincenti, infatti, da tempo ormai avevano cominciato ad imporre la loro strategia, più feroce e sanguinaria di quella passata, anche nei confronti degli uomini delle istituzioni. "Noi non possiamo fare la guerra allo Stato" aveva detto Gaetano Badalamenti. Riina la pensa diversamente. Sotto i colpi dei tristemente famosi fucili a mitraglietta kalashnikov (e non soltanto) cadono, infatti, oltre ai boss perdenti, anche uomini dello Stato, giornalisti, commercianti ed imprenditori, noti o meno noti non importa, avendo avuto tutti in comune l'intento di opporsi alla criminalità organizzata con coraggio e tenacia. Qualcuno, in sede processuale, ha rimproverato a Bruno Contrada di non essere in questa lista e, dal fatto che fosse rimasto vivo, ha postulato il suo tradimento e il suo avvicinamento a Cosa Nostra... Non c'è bisogno di alcun commento. Rendiamo omaggio, invece, ai caduti nella lotta alla mafia, ricordandoli tutti in un funesto florilegio, in ordine cronologico di sacrificio:
  1. ANGELO SORINO, maresciallo della Polizia, per anni in servizio al Commissariato "Libertà" di Palermo, viene ucciso nel 1976. Era già andato in pensione, ma continuava a "tenere gli occhi aperti" e a collaborare con i colleghi ancora in servizio. In tasca, dopo essere stato ucciso, gli venne trovato un biglietto con vari nomi di mafiosi appartenenti alla famiglia di San Lorenzo.
  2. GIUSEPPE RUSSO, tenente colonnello e comandante del Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Palermo, ucciso nei pressi del bosco della Ficuzza il 20 agosto 1977 insieme all'insegnante FILIPPO COSTA. Il commando dei killers è formato dallo stesso Totò Riina, da Leoluca Bagarella, da Pino Greco "Scarpuzzedda" e da Giovanni Brusca. Il mandante viene inizialmente individuato in Rosario Cascio, mentre, come esecutori, tre contadini innocenti, Rosario Mulè, Salvatore Bonello e Casimiro Russo, vengono condannati in due all'ergastolo e uno a 20 anni con sentenza definitiva. Verranno assolti nel 1997;
  3. PEPPINO IMPASTATO, attivista politico di Democrazia Proletaria, figlio di un piccolo mafioso della cosca di Gaetano Badalamenti, ucciso a Cinisi il 9 maggio 1978 per ordine dello stesso Badalamenti, infastidito dalle accuse che Impastato gli rivolgeva pubblicamente dall'emittente privata locale Radio Aut;
  4. FILADELFIO APARO, vice-brigadiere della Squadra Mobile di Palermo, ucciso a Palermo l'11 gennaio 1979;
  5. MARIO FRANCESE, giornalista del "Giornale di Sicilia", ucciso a Palermo il 26 gennaio 1979. Fu il primo a scrivere che "un contadino di Corleone di nome Salvatore Riina era diventato il capo della nuova mafia";
  6. MICHELE REINA, segretario provinciale della Democrazia Cristiana, ucciso a Palermo, in viale delle Alpi, il 9 marzo 1979;
  7. GIORGIO BORIS GIULIANO, capo della Squadra Mobile di Palermo, ucciso a Palermo, dentro il bar "Lux" di via Francesco Paolo Di Blasi, il 21 luglio 1979. Il commando è formato da Leoluca Bagarella e Giacomo Bentivegna. Giuliano viene "punito" per aver alzato il tiro contro Cosa Nostra. Aveva, infatti, da poco scoperto a Palermo due covi mafiosi (purtroppo vuoti), dove più volte si erano nascosti latitanti appartenenti alla mafia corleonese (tra cui lo stesso Leoluca Bagarella) e dove furono rinvenute armi e denaro: il covo di corso dei Mille, scoperto nell'aprile 1979, facente capo alla famiglia Marchese e celato dietro la tranquilla apparenza di una bottega dove si rifacevano le tappezzerie per le auto, e il covo di via Pecori Giraldi, scoperto il 7 luglio successivo. Stava indagando sulla rapina all'agenzia della Cassa di Risparmio di via Mariano Stabile, a Palermo, avvenuta il 7 aprile 1979, in cui restò ucciso il metronotte Sgroi. Quindi, nel giugno 1979, grazie alla collaborazione con gli investigatori americani, aveva trovato sul nastro portabagagli dell'aeroporto di Punta Raisi due valigie con dentro cinquecentomila dollari, provenienti dal traffico di stupefacenti tra la Sicilia e gli Stati Uniti, mentre all'aeroporto "Kennedy" di New York i colleghi americani avevano sequestrato eroina proveniente da Palermo per un valore di dieci miliardi di lire. L'8 luglio, poi, aveva arrestato Nino Marchese, nipote del boss di corso dei Mille Filippo Marchese. Quello che molti, troppi, omettono, nei libri scritti su Giuliano e nelle commemorazioni ufficiali per la sua morte, è ricordare che, nelle sue brillanti indagini da capo della Squadra Mobile, egli fu sempre coadiuvato e assistito dal suo "fratello gemello" Bruno Contrada, capo della Criminalpol della Sicilia Occidentale. Sarà proprio Contrada (cui, frattanto, per la sua grande esperienza ed il suo enorme carisma, i vertici della Polizia decidono di affidare la direzione "ad interim" della Mobile, prostrata dalla morte di Giuliano) a stilare il rapporto del 7 febbraio 1981, con il quale denuncia la famiglia Marchese, Bagarella e Bentivegna per l'omicidio di Giuliano. Il rapporto verrà avallato dal giudice istruttore Paolo Borsellino e, sulla base di esso, si aprirà un processo che si concluderà con la condanna all'ergastolo di Bagarella come esecutore materiale dell'omicidio di Boris Giuliano;
  8. CESARE TERRANOVA, ex-deputato come indipendente di sinistra, ex-membro della Commissione Parlamentare Antimafia, giudice istruttore e prossimo a candidarsi a consigliere istruttore della Corte d'Appello di Palermo, ed il suo autista LENIN MANCUSO, maresciallo della Polizia di Stato, uccisi a Palermo, in via Edmondo De Amicis, il 25 settembre 1979. Per questo duplice delitto sono stati condannati all'ergastolo in via definitiva Salvatore Riina, Nenè Geraci, Michele Greco e Francesco Madonia;
  9. PIERSANTI MATTARELLA, esponente della Democrazia Cristiana e presidente della Regione Siciliana, assassinato a bordo della sua Fiat 132, sotto gli occhi della moglie Irma, nel vialetto d'ingresso della sua casa di via Libertà, a Palermo, il 6 gennaio 1980;
  10. EMANUELE BASILE, capitano della Compagnia dei Carabinieri di Monreale, ucciso a Monreale il 3 maggio 1980;
  11. GAETANO COSTA, procuratore capo della Repubblica di Palermo, ucciso a Palermo, in via Cavour, Gaetano Costa, il 6 agosto 1980. Aveva appena firmato 60 ordini di cattura contro altrettanti mafiosi (in prevalenza affiliati alla cosca di Totò Inzerillo, capomandamento dell'Uditore), nonostante l'opposizione ed il tentennamento di alcuni suoi sostituti;
  12. VITO JEVOLELLA, maresciallo dei Carabinieri, ucciso a Palermo il 10 ottobre 1981;
  13. SEBASTIANO BOSIO, medico e docente universitario, ucciso a Palermo il 6 novembre 1981. Aveva curato il "pentito" Totuccio Contorno, ferito;
  14. NICOLO' PIOMBINO, carabiniere in pensione, ucciso a Palermo il 26 gennaio 1982;
  15. PIO LA TORRE, segretario regionale del Partito Comunista, e il suo autista, ROSARIO DI SALVO, uccisi a Palermo il 30 aprile 1982. Oltre alla sua pervicace attività in seno alla Commissione Antimafia, La Torre paga il suo impegno nel propugnare e condurre in porto quella che sarebbe diventata la Legge Rognoni-La Torre (dal suo nome e da quello dell'allora ministro degli Interni, il democristiano Virginio Rognoni). Bisogna ricordare che un aiuto fondamentale nel suo disegno di indagini patrimoniali sulla mafia La Torre lo ricevette proprio da Bruno Contrada, all'epoca capo della Criminalpol della Sicilia Occidentale e in procinto di passare al SISDE: Contrada, con la collaborazione della Guardia di Finanza, preparò più di 1500 schede patrimoniali relative a singoli mafiosi e alle attività finanziarie di Cosa Nostra: la cosa è stata confermata, tra gli altri, anche dal generale della Guardia di Finanza Michele Mola, all'epoca in servizio a Palermo col grado di colonnello, che, nell'udienza del 14 febbraio 1995, dichiara: "Pervennero alla Guardia di Finanza schede su mafiosi elaborate dalla Polizia. Quando, poi, Contrada passò all'Alto Commissariato per la lotta alla mafia, abbiamo svolto insieme controlli fiscali presso banche, soprattutto nella zona di Agrigento, su precisi input dello stesso Contrada". E aggiunge: "Bruno Contrada non ha mai sviato indagini nè dato adito a sospetti". Intenso, dunque, è stato il lavoro svolto da Contrada anche sul fronte delle indagini patrimoniali nei confronti dei mafiosi. Forse, anche in questa occasione qualcuno vorrà rimproverare a Bruno Contrada di essere rimasto vivo, mentre Pio La Torre è caduto sotto i proiettili dei kalashnikov...
  16. PAOLO GIACCONE, medico legale, ucciso a Palermo l'11 agosto 1982;
  17. CARLO ALBERTO DALLA CHIESA, generale dei Carabinieri e prefetto di Palermo, ucciso insieme alla moglie EMANUELA SETTI CARRARO e all'agente della Polizia di Stato DOMENICO RUSSO in via Isidoro Carini, a Palermo, il 3 settembre 1982. A sparare al prefetto sarebbe stato Pino Greco "Scarpuzzedda";
  18. CALOGERO ZUCCHETTO, agente della Sezione Investigativa della Squadra Mobile di Palermo, ucciso a Palermo, in via Notarbartolo, il 14 novembre 1982;
  19. GIAN GIACOMO CIACCIO MONTALTO, sostituto procuratore della Repubblica di Trapani, ucciso a Trapani il 24 gennaio 1983;
  20. BARBARA RIZZO ASTA, vittima innocente, insieme ai suoi due figli, GIUSEPPE ASTA e SALVATORE ASTA, del fallito attentato al sostituto procuratore della Repubblica di Trapani, Carlo Palermo, avvenuto sulla strada tra Pzzolungo e Trapani il 2 aprile 1983;
  21. MARIO D'ALEO, capitano dei Carabinieri e successore del capitano Emanuele Basile alla guida della Compagnia di Monreale, ucciso, insieme all'appuntato GIUSEPPE BOMMARITO e al carabiniere PIETRO MORICI, a Palermo il 13 giugno 1983;
  22. ROCCO CHINNICI, consigliere istruttore della Corte d'Appello di Palermo, ucciso, insieme a STEFANO LI SACCHI, portiere dello stabile dove Chinnici abitava, e agli agenti della Polizia di Stato SALVATORE BARTOLOTTA e MARIO TRAPASSI, a Palermo, in via Pipitone Federico, il 29 luglio 1983. Pochi giorni prima della strage, il funzionario della Squadra Mobile di Palermo Tonino De Luca aveva ricevuto dal libanese Bou Chebel Ghassan un'informazione su un attentato con un'autobomba che Cosa Nostra stava preparando e aveva pensato che l'obiettivo potesse essere Emanuele De Francesco, prefetto di Palermo e Alto Commissario per la lotta alla mafia. Pochi giorni dopo la strage, De Luca fa arrestare Ghassan, nonostante il parere contrario del dirigente della Sezione Investigativa, Ninni Cassarà, che voleva limitarsi a tenere d'occhio il libanese per seguirne gli spostamenti e vedere se, tramite lui, si poteva arrivare a scoprire tutta la rete dei suoi loschi rapporti. Una volta arrestato, Ghassan avanzerà l'ipotesi di un coinvolgimento dei servizi segreti deviati. Nel primo maxiprocesso alle cosche, sarà Michele Greco ad essere accusato e condannato per essere il mandante di questa strage, mentre uno degli organizzatori materiali verrà indicato in Pino Greco "Scarpuzzedda" ;
  23. GIUSEPPE FAVA, giornalista de "Il Giornale del Sud" e de "I Siciliani", ucciso a Catania il 5 gennaio 1984;
  24. GIOVAN BATTISTA ALTOBELLI, ANNAMARIA BRANDI, ANGELA CALVANESE, SUSANNA CAVALLI, LUCIA CERRATO, ANNA DE SIMONE, GIOVANNI DE SIMONE, NICOLA DE SIMONE, PIERFRANCESCO LEONI, LUISELLA MATARAZZO, CARMINE MOCCIA, VALERIA MORATELLO, MARIA LUIGIA MORINI, FEDERICA TAGLIALATELA e ABRAMO VASTARELLA, morti il 23 dicembre 1984 a causa di una bomba esplosa sul rapido 904 Napoli-Milano, che provocò, inoltre, il ferimento di altre 250 persone e la morte, qualche anno più tardi, di GIOACCHINO TAGLIALATELA. E' quasi certo che l'attentato fu organizzato, secondo una logica che l'Italia già conosceva tristemente, con l'intento di deviare l'attenzione dello Stato e dell'opinione pubblica dalle recenti dichiarazioni dei "pentiti" Tommaso Buscetta e Totuccio Contorno;
  25. ROBERTO PARISI, presidente dell'ICEM, società che ha in appalto la gestione dell'illuminazione pubblica a Palermo, e presidente della Palermo Calcio, ucciso, insieme al suo autista GIUSEPPE MANGANO, a Palermo il 23 febbraio 1985. Il 7 luglio 1999 il collaboratore di giustizia Emanuele De Filippo, reo confesso di nove omicidi, tra i quali proprio quello di Parisi e di Mangano, verrà condannato dal Tribunale di Palermo a 15 anni di reclusione;
  26. POIERO PATTI, industriale, ucciso a Palermo il 28 febbraio 1985. Nell'agguato rimane ferita la figlia di nove anni;
  27. GIUSEPPE MONTANA, dirigente della Sezione Catturandi della Squadra Mobile di Palermo, ucciso a Porticello, vicino Palermo, il 28 luglio 1985;
  28. ANTONINO "NINNI" CASSARA', vicecapo della Squadra Mobile di Palermo, ucciso, insieme all'agente della Polizia di Stato ROBERTO ANTIOCHIA, a Palermo, il 5 agosto 1985. La sua condanna a morte, molto probabilmente, viene decretata dal fatto che aveva firmato il "rapporto dei 162" (base del primo maxiprocesso alla mafia che si aprirà il 10 febbraio 1986 nell'aula-bunker del carcere dell'Ucciardone a Palermo, con 474 imputati alla sbarra), ma anche in seguito alla morte di Salvatore Marino, un giovane calciatore arrestato in quanto sospettato di aver partecipato all'omicidio Montana e morto sotto le percosse alla Questura di Palermo il 2 agosto precedente;
  29. GIUSEPPE INSALACO, ex-sindaco democristiano di Palermo, ucciso a Palermo il 12 gennaio 1988. Avversario politico di Lima e Ciancimino, nei suoi pochi mesi di permanenza a Palazzo delle Aquile (sede del Sindaco di Palermo) aveva apertamente denunciato i condizionamenti esercitati da vari comitati d'affari sul Comune;
  30. NATALE MONDO, agente della Polizia di Stato, ucciso a Palermo il 14 gennaio 1988. Mondo era sopravvissuto all’agguato in cui avevano perso la vita Cassarà e Antiochia;
  31. DONATO BOSCIA, imprenditore, ucciso il 9 marzo 1988;
  32. ALBERTO GIACOMELLI, giudice in pensione, ucciso a Trapani il 14 settembre 1988;
  33. ANTONINO SAETTA, presidente della I sezione della Corte d'Appello di Palermo, ucciso, insieme al figlio STEFANO SAETTA, il 25 settembre 1988, mentre viaggiava a bordo della sua Lancia Prisma sulla strada statale 640 Agrigento-Caltanissetta. La data coincide, in maniera involontaria ma certo sinistra, con quella del duplice omicidio del giudice Cesare Terranova e del suo autista Lenin Mancuso: anche in quel caso un 25 settembre (del 1979), anche in quel caso due morti. Il giudice Saetta aveva rovesciato in appello la sentenza che in primo grado aveva assolto Giuseppe Madonia, Giuseppe Puccio e Armando Bonanno per l'omicidio del capitano dei Carabinieri Emanuele Basile; aveva condannato in appello Michele Greco per l'attentato a Rocco Chinnici; si apprestava, infine, a presiedere l'appello del primo maxiprocesso. La sua morte rappresenta il primo caso in cui la mafia uccida un magistrato giudicante. Responsabili del delitto sono stati ritenuti Totò Riina, Francesco Madonia e Pietro Ribisi;
  34. MAURO ROSTAGNO, fondatore, nel 1981, vicino a Trapani, della comunità “Saman”, con Francesco Cardella (la comunità nasce come Centro di Meditazione di Osho e successivamente diventa centro di recupero dei tossicodipendenti) e giornalista per l'emittente televisiva locale RTC (attraverso la quale denuncia con forza le collusioni tra mafia e politica locale) viene ucciso, nelle campagne di Lenzi, un borgo vicino Trapani, il 26 settembre 1988. Il delitto è tuttora impunito. La notte in cui uccisero Mauro Rostagno ci fu un guasto improvviso nella cabina dell'ENEL, come raccontà un tecnico che l'indomani fu trascinato nei campi per un interrogatorio sotto il sole cocente. Disse che "era successo qualcosa di strano", che l'energia elettrica "non era più arrivata ai fili". Il tecnico era un signore sui cinquant'anni e dai modi garbati, ben vestito, molto ossequioso. Si chiamava Vincenzo Mastrantonio. Dopo otto mesi, il suo cadavere fu ritrovato a qualche chilometro da Lenzi. Gli avevano sparato. Dopo otto anni si scoprì che quell'impiegato dell'ENEL così gentile era l'autista più fidato di Vincenzo Virga, il boss miliardario con la pensione INPS;
  35. LUIGI RANIERI, imprenditore, ucciso nel dicembre 1988;
  36. GIOVANNI BONSIGNORE, funzionario della Regione Siciliana, ucciso a Palermo il 9 maggio 1989;
  37. ANTONINO AGOSTINO, agente della Polizia di Stato, ucciso, insieme alla moglie IDA CASTELLUCCI , a Palermo il 5 agosto 1989;
  38. ROSARIO LIVATINO, 38 anni, giudice a latere di sezione del Tribunale di Agrigento e giudice della speciale Sezione Misure di Prevenzione presso il medesimo Tribunale, ucciso sul viadotto Gasena, lungo la strada statale 640 Agrigento-Caltanissetta, all'altezza di Canicattì, in provincia di Agrigento, il 21 settembre 1990. La strada è la stessa in cui, due anni prima, erano stati uccisi il giudice Antonino Saetta e il figlio Stefano. Come sostituto procuratore della Repubblica di Agrigento, si era occupato, fino al 20 agosto 1989, delle più delicate indagini antimafia, di criminalità comune ma anche, nel 1985, di quella che, in seguito, negli anni '90, sarebbe stata conosciuta come la "Tangentopoli siciliana". Fu proprio Rosario Livatino, assieme ad altri colleghi, ad interrogare per primo, nell'àmbito di quest'ultima indagine, un ministro dello Stato. Mentre scriviamo, è ancora in corso una causa di beatificazione per Rosario Livatino, che lo stesso pontefice Giovanni Paolo II definì "martire della giustizia e, indirettamente, della fede";
  39. ANTONIO SCOPELLITI, sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione, ucciso a Reggio Calabria il 9 agosto 1991. Stava preparando la richiesta di rigetto dei ricorsi in Cassazione di pericolosi esponenti mafiosi;
  40. LIBERO GRASSI, imprenditore, ucciso a Palermo il 29 agosto 1991;
  41. PAOLO ARENA, segretario della Democrazia Cristiana di Misterbianco, in provincia di Catania, ucciso il 27 settembre 1991;
  42. GIULIANO GUAZZELLI, maresciallo dei Carabinieri di Agrigento, ucciso ad Agrigento il 14 aprile 1992;
  43. PAOLO BORSELLINO, imprenditore, ucciso a Lucca Sicula, in provincia di Agrigento, il 21 aprile 1992;
  44. GIOVANNI FALCONE, magistrato, direttore degli Affari Penali presso il Ministero di Grazia e Giustizia, ucciso, insieme alla moglie FRANCESCA MORVILLO, magistrato, e agli agenti della Polizia di Stato VITO SCHIFANI, ROCCO DI CILLO e ANTONIO MONTINARO, nell'autostrada tra Palermo e l'aeroporto di Punta Raisi, all'altezza dello svincolo per Capaci, il 23 maggio 1992;
  45. PAOLO BORSELLINO, procuratore aggiunto della Repubblica di Palermo, ucciso, insieme agli agenti della Polizia di Stato EMANUELA LOI (prima donna della Polizia di Stato caduta in servizio), WALTER EDDIE CUSINA, CLAUDIO TRAINA, VINCENZO LI MULI e AGOSTINO CATALANO, in via Mariano D'Amelio, a Palermo, il 19 luglio 1992;
  46. GIOVANNI LIZZIO, ispettore della Squadra Mobile di Catania, ucciso a Catania il 27 luglio 1992;
  47. PAOLO FICALORA, proprietario di un villaggio turistico, ucciso a Castellammare del Golfo, in provincia di Trapani, il 28 settembre 1992;
  48. GAETANO GIORDANO, commerciante di Gela, in provincia di Caltanissetta, ucciso a Gela il 10 dicembre 1992;
  49. GIUSEPPE BORSELLINO, imprenditore, padre del Paolo ucciso a Lucca Sicula, in provincia di Agrigento, il 21 aprile precedente, ucciso a sua volta, sempre a Lucca Sicula, il 17 dicembre 1992;
  50. BEPPE ALFANO, giornalista de "La Sicilia", corrispondente da Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, ucciso a Barcellona Pozzo di Gotto l'8 gennaio 1993;
  51. CATERINA NENCIONI, una bambina di 5o giorni, la sorellina NADIA NENCIONI, di 9 anni, il padre FABRIZIO NENCIONI, la madre ANGELA FIUME, custode dell'Accademia dei Georgofili, e DARIO CAPOLICCHIO, cinque persoe assolutamente estranee ad ogni vicenda mafiosa, giudiziaria o penale, uccise da un'autobomba che, in via dei Georgofili a Firenze, provoca il crollo della storica Torre del Pulci, sede dell'Accademia dei Georgofili, a pochi metri dalla Galleria degli Uffizi, il 1993;
  52. PADRE GIUSEPPE PUGLISI, parroco del quartiere di Brancaccio, a Palermo, ucciso proprio a Brancaccio nel giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno, il 15 settembre 1993. Mandanti dell'omicidio sono stati riconosciuti i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, boss del quartiere;
  53. GIUSEPPE MONTALTO, agente di custodia del Carcere palermitano dell’Ucciardone, ucciso a Trapani il 23 dicembre 1995;
  54. DOMENICO GERACI, sindacalista dell'UIL ed ex-consigliere provinciale, viene ucciso l'8 ottobre 1998 a Caccamo, in provincia di Palermo. Aveva denunciato gli interessi della mafia e, durante una manifestazione del luglio precedente, aveva fatto il nome del capomafia latitante Nino Giuffrè. Sarebbe stato candidato a sindaco per l'Ulivo nelle successive elezioni comunali.

Mi sia consentito di aggiungere a questo triste elenco, nel pieno rispetto di tutte le vittime sopracitate, anche Bruno Contrada, ex-capo della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo, ex- capo di gabinetto dell'Alto Commissariato Antimafia di Palermo ed ex-numero tre del SISDE. Il suo corpo non è stato crivellato di proiettili o dilaniato da una bomba, come nel caso delle vittime di mafia sopraelencate: la sua anima e il suo spirito di coraggioso servitore dello Stato sì.

I corleonesi avevano, frattanto, provveduto anche a "sfoltire" i loro ranghi dai rami secchi. Dopo avergli ordinato di uccidere Filippo Marchese tra la fine del 1982 e l'inizio del 1983, infatti, ben presto Totò Riina aveva cominciato a temere un'incontrollata ascesa di uno dei suoi più feroci sgherri, il già citato Pino Greco "Scarpuzzedda", e così, nel 1985, ordina il massacro di Piazza Scaffa, a Palermo, nel territorio della famiglia di Ciaculli: proprio la famiglia di cui fa parte, anzi è ormai quasi ai vertici, proprio Pino Greco, che non viene informato del progetto. Questo è per lui un segnale infausto, che simboleggia la sua perdita di potere sul territorio di sua giurisdizione e, di conseguenza, la sua caduta in disgrazia agli occhi del capo supremo: poco tempo dopo, infatti, Pino Greco (alla presenza di Agostino Marino Mannoia, fratello del futuro "pentito" Francesco e ucciso a sua volta nel 1989) viene ucciso in casa sua, una villa tra Misilmeri e Bagheria, dai suoi "colleghi" Vincenzo Puccio (poi catturato l'anno successivo e ucciso nel 1989 in carcere a colpi di bistecchiera) e Giuseppe Lucchese (poi arrestato nel 1990 e condannato all'ergastolo). Il cadavere di Pino Greco non fu mai trovato: probabilmente fu sciolto nell'acido o dato in pasto ai porci, due metodi che, comunemente, lui stesso e Filippo Marchese usavano per far sparire i cadaveri degli "interrogati" dalla "stanza della morte" in Corso dei Mille, a Palermo. Nel 1987 viene ucciso Mario Prestifilippo, altro membro della "squadra della morte" e altro appartenente alla famiglia di Ciaculli. Intorno al 1987, dunque, il potere di Riina sembra definitivamente consolidato, nonostante l'arresto di Bernardo Brusca, capofamiglia di San Giuseppe Jato, avvenuto nel novembre 1985, lo abbia privato di una pedina fondamentale. Ma il 15 gennaio 1993 il "pentito" Balduccio Di Maggio consente ai Carabinieri del capitano "Ultimo" di arrestare il capo della Cupola a Palermo, a poca distanza dall'abitazione dove questi risiedeva. Dopo l'arresto di Riina, i suoi luogotenenti organizzano tre attentati: uno, fortunatamente fallito, nel quale una bomba in via Ruggero Fauro, a Roma, avrebbe dovuto uccidere il giornalista Maurizio Costanzo, reo di aver bruciato in TV un lenzuolo con la scritta "mafia"; gli altri, quelli di via dei Georgofili, a Firenze, e di via Palestro, a Milano, purtroppo andati a segno, li abbiamo già ricordati prima. E' la dimostrazione che la "nuova mafia", già a partire dalle stragi Falcone e Borsellino, indulge ormai verso metodi terroristici, non preoccupandosi più di evitare di colpire anche persone innocenti. In realtà, già prima delle bombe del 1992-'93, come abbiamo visto, i corleonesi si erano votati a strategie terroristiche, collaborando all'attentato del 23 dicembre 1984 sul rapido 904 Napoli-Milano: per quella strage, il 25 febbraio 1989, la Corte d'Assise di Firenze, presieduta dal giudice Armando Sechi, aveva condannato, tra gli altri, anche il boss Pippo Calò. La mafia, dunque, volgeva ormai verso il terrorismo. Un modus operandi che era stato estraneo ai vecchi boss, fior di delinquenti anch'essi, ovviamente, ma che si erano sempre fermati davanti a metodi forieri di potenziali stragi di massa.




3. IL PRIMO MAXIPROCESSO A COSA NOSTRA (1986-1992)



3.1. La gestazione


Facciamo un passo indietro. La nuova mafia gestita direttamente dai "corleonesi" risulta, dunque, ancora più pericolosa e letale della precedente: sarà per questo motivo che Bruno Contrada, passato nel 1982 nei ranghi del SISDE (il Servizio Segreto Civile), farà di tutto per orientare l'attività precipua di questo ente in funzione squisitamente antimafiosa, gestendo e portando a termine importanti operazioni contro le cosche vincenti e fornendo continua collaborazione e sostegno alle forze di Polizia Giudiziaria impegnate in prima linea contro Cosa Nostra. La nuova mafia doveva essere combattuta con l'impiego di nuovi mezzi e il sostegno di nuove leggi.
Dopo la morte del generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, prefetto di Palermo, ucciso il 3 settembre 1982 in via Isidoro Carini, a Palermo, lo Stato decide di affidare al nuovo Prefetto di Palermo, il direttore del SISDE Emanuele De Francesco, anche l'incarico di Alto Commissario per la lotta alla mafia, con poteri più vasti che includono compiti di coordinamento delle nove prefetture della Regione Siciliana e possibilità di collaborazione diretta con la polizia giudiziaria nell'azione di repressione della mafia. De Francesco chiede ed ottiene immediatamente la collaborazione di Bruno Contrada, già passato dalla Polizia di Stato al SISDE, come abbiamo visto, e memoria storica dell'antimafia palermitana, e lo nomina capo di gabinetto dell'Alto Commissariato Antimafia. Più o meno contestualmente, cominciano ad emergere le figure di due giovani giudici che faranno parlare ben presto di sè: Giovanni Falcone, rientrato a Palermo dopo dodici anni da sostituto procuratore a Trapani ed entrato nell'Ufficio Istruzione del Tribunale palermitano (diretto da Rocco Chinnici) sùbito dopo l'assassinio del giudice Terranova (25 settembre 1979), e Paolo Borsellino, che, dopo essere stato pretore a Mazara del Vallo e a Monreale, già dal luglio 1975 fa parte del medesimo Ufficio Istruzione palermitano.
Nel 1980, dopo il primo successo riportato da Borsellino, in stretta collaborazione col capitano dei Carabinieri Emanuele Basile, e l'arresto di sei latitanti mafiosi, Basile viene ucciso a Monreale. Il consigliere istruttore Chinnici cerca di riorganizzare e connettere i diversi filoni di indagine che l'Ufficio Istruzione si trova ad affrontare e si fa così fautore della nascita di un primo pool antimafia, del quale, inizialmente, fanno parte i giudici Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giovanni Barrile. Ben presto si aggiungono i giudici Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello. Il primo processo istruito dal pool è quello
a carico di Rosario Spatola e altri 119 imputati, avente ad oggetto i reati di associazione a delinquere, traffico di stupefacenti, ricettazione ed altri illeciti penali, con collegamenti con altre pericolose associazioni mafiose nazionali ed internazionali. Dopo la morte di Chinnici, nel 1983, il pool antimafia passa sotto la direzione del nuovo consigliere istruttore, Antonino Caponnetto. Grazie anche al "Rapporto dei 162" firmato dal vicecapo della Squadra Mobile di Palermo Ninni Cassarà e alle dichiarazioni dei due mafiosi pentiti Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno, il pool di Caponnetto istruisce il processo contro Giovanni Abbate più altri 706 imputati, passato alla storia col nome di "maxiprocesso": alla sbarra boss di spicco come Michele Greco e Pippo Calò, mentre Riina e Provenzano continuano a rimanere latitanti. Durante l'istruttoria, un alto ufficiale dei Carabinieri rivela a Caponnetto di aver intercettato una cartolina in partenza dal carcere palermitano dell'Ucciardone, dalla quale si evinceva che la mafia stava preparando un attentato per uccidere prima Paolo Borsellino e poi Giovanni Falcone. Caponnetto ordina che Falcone e Borsellino si trasferiscano, insieme alle loro famiglie, all'Asinara, inizialmente senza informare i due giudici istruttori delle minacce a loro carico. E' proprio all'Asinara che Falcone e Borsellino completano la sentenza-ordinanza di oltre ottomila pagine con cui rinviano a giudizio gli imputati. Il processo viene celebrato in un'aula-bunker appositamente costruita al carcere dell'Ucciardone di Palermo (un'aula che, per via del suo colore e della sua forma, molti giornalisti soprannomineranno "l'astronave verde") e ha inizio il 10 febbraio 1986. Pubblici ministeri sono i sostituti procuratori della Repubblica di Palermo Giuseppe Ayala e Domenico Signorino. La Corte d'Assise è presieduta dal giudice Alfonso Giordano, giudice a latere è Pietro Grasso, l'ex-sostituto procuratore della Repubblica di Palermo che nel 1980 si era occupato delle indagini sul delitto Mattarella e che sarebbe divenuto prima procuratore capo della Repubblica di Palermo, prendendo il posto di Gian Carlo Caselli nel 1999, e poi procuratore nazionale antimafia, succedendo a Pier Luigi Vigna nel 2005. Il 17 febbraio 1987 il Parlamento approva la Legge Mancino-Violante per precludere la possibile scarcerazione ai boss imputati. Il primo grado si conclude il 16 dicembre 1987 con condanne a 19 ergastoli, complessivi 2665 anni di carcere, undici miliardi e mezzo di lire di multe e 114 assoluzioni.
Secondo l'atto di accusa formulato nel 1993 dalla Procura di Palermo nei confronti di Giulio Andreotti, Cosa Nostra, ritenendo che lo stesso Andreotti non si fosse impegnato a sufficienza per evitare il varo di questa legge, avrebbe determinato, in occasione delle elezioni politiche del 16 giugno 1987 (dunque in pieno svolgimento del primo grado del maxiprocesso), uno spostamento dei consensi elettorali in Sicilia a favore del PSI: la difesa del senatore Andreotti dimostrerà, invece, che nelle elezioni politiche del 1987 la DC non ebbe danni in Sicilia, anzi passò dal 37,9% del 1983 al 38,8% del 1987 per arrivare in seguito al 41% nel 1992, mentre il PSI salì effettivamente, ma di poco, passando dal 13,3% del 1983 al 14,9% del 1987, per scendere poi nuovamente e attestarsi al 14% nel 1992.
Il 1992, come vedremo fra breve, è l'anno in cui, il 30 gennaio, la sezione penale della Corte di Cassazione, presieduta da Arnaldo Valente, confermerà le condanne in primo grado del maxiprocesso.


3.2. L'appello


L'appello comincia in un clima turbolento.
Il governo Andreotti, su inziativa dello stesso presidente del Consiglio e del ministro di Grazia e Giustizia, il socialista Giuliano Vassalli, emana un decreto-legge (il DL 370 del 13 novembre 1989, poi convertito con modifiche nella Legge 410 del 1989) col quale prolunga i termini di custodia cautelare per quella determinata fase processuale, impedendo la scarcerazione, nel corso del giudizio d'appello, di numerosi imputati del maxiprocesso.


3.3. La Cassazione


La I sezione penale della Corte di Cassazione, presieduta da Corrado Carnevale, sostenendo che ogni singolo indizio non era di per sè sufficiente a provare le accuse, comincia a smontare il maxiprocesso. Su alcune decisioni di Carnevale, come la scarcerazione di 40 boss, lo stesso presidente del Consiglio Giulio Andreotti dichiara di voler intervenire per "correggere un'offesa al popolo italiano" e, di concerto con il ministro di Grazia e Giustizia, il socialista Claudio Martelli, vara un decreto-legge (il DL 60 dell'1 marzo 1991) che determina il ritorno in carcere di boss scarcerati per decorrenza dei termini di custodia cautelare in forza proprio di una discussa decisione della I sezione senale della Corte di Cassazione presieduta da Carnevale. Pochi mesi dopo, il governo Andreotti propugna una modifica dell'art. 275, comma 3, del codice di procedura penale con un altro decreto-legge (il DL 203 del 9 settembre 1991, convertito con modifiche nella Legge 356 dell'8 novembre 1991), ripristinando la custodia cautelare in carcere per tutti quegli imputati (tra i quali molti componenti della "Cupola") che avevano goduto fino a quel momento degli arresti domiciliari. Nel giugno 1991 Carnevale assegna la trattazione del processo in Cassazione ad un collegio, ma nell'ottobre dello stesso anno Brancaccio designa come presidente di quel collegio Arnaldo Valente.
Il 30 gennaio 1992 la sezione penale della Corte di Cassazione, presieduta da Arnaldo Valente, conferma le condanne in primo grado del maxiprocesso. Cosa Nostra ordina l'eliminazione di Salvo Lima, colpevole di non essere riuscito ad ottenere che la Cassazione annullasse quelle condanne: il 12 marzo di quello stesso anno, il "padre" del "sacco di Palermo" cade in un agguato a Mondello. Nell'estate del 1992, dopo le stragi di Capaci e di via D'Amelio, Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella progettano un attentato (mai realizzato) contro lo stesso Andreotti. Il 17 settembre 1992 viene ucciso a Santa Flavia Ignazio Salvo. Per quest’omicidio, cinque anni dopo, il 14 aprile 1997, Leoluca Bagarella e Giovanni Scaduto verranno condannati definitivamente in appello.


3.4. Il processo Carnevale


Nel 1993 la Procura di Palermo, guidata da Gian Carlo Caselli, contestualmente all'atto di accusa contro Giulio Andreotti, mette sotto inchiesta, con l’ipotesi di reato di abuso d’ufficio aggravato, anche il giudice Corrado Carnevale (da molti ormai soprannominato “il giudice ammazzasentenze”) ed altri tre magistrati della I sezione penale della Corte di Cassazione, Paolo Dell’Anno, Aldo Grassi e Stanislao Sibilia.

In un primo momento, l'inchiesta si chiude nel 1995 con un’archiviazione, in quanto l’accusa ritiene di non avere elementi per il processo. Nel febbraio del 1997 la Procura di Palermo chiede l’archiviazione anche per Dell’Anno, Grassi e Sibilia.
L’indagine viene riaperta pochi mesi dopo, sulla scorta delle dichiarazioni rilasciate da nuovi pentiti alle Procure di Roma e Firenze. Il 14 luglio del 1997 la Procura di Palermo, con una memoria di 600 pagine, chiede il rinvio a giudizio del giudice Carnevale per concorso esterno in associazione mafiosa. L'1 ottobre 1997 Carnevale viene citato come testimone ed imputato di reato connesso al processo contro Andreotti, dove esordisce con la famosa battuta "Sono un impumone", spiegando di avere coniato un neologismo che significa "imputato-testimone". Poi si avvale della facoltà di non rispondere. Il 7 aprile 1998 il gip Bruno Fasciana dispone il rinvio a giudizio del magistrato. Il dibattimento si apre il 22 giugno seguente davanti ai giudici della VI sezione penale del Tribunale di Palermo presieduta da Giuseppe Rizzo. L’accusa, sostenuta dai PM Roberto Scarpinato e Gaetano Paci, sostiene che Carnevale costituiva per i boss un "sicuro punto di riferimento". Il ruolo del magistrato viene ricostruito con le dichiarazioni di 39 pentiti, le testimonianze di giudici dello stesso collegio e intercettazioni telefoniche e ambientali. L'accusa chie 8 anni di carcere. Il 9 giugno 2000 Carnevale viene assolto.
In appello, il sostituto procuratore generale presso la Corte d'Appello di Palermo Leonardo Agueci conferma la richiesta di 8 anni di carcere, già avanzata per Carnevale dai PM in primo grado. Il 29 giugno 2001 la sezione promiscua della Corte d’Appello presieduta da Vincenzo Oliveri condanna Corrado Carnevale a 6 anni di carcere.
Il 30 ottobre 2002 la Corte di Cassazione annulla la sentenza di condanna di secondo grado senza disporre un giudizio di rinvio. Già durante il processo di Palermo a carico di Andreotti, gli avvocati difensori di Andreotti avevano rintracciato numerose sentenze della I sezione penale della Corte di Cassazione, presieduta da Carnevale, che smentiscono i collaboratori che parlano di processi aggiustati su interessamento dello stesso Carnevale. Quest'ultimo, oltretutto, aveva già chiarito che non decise sul maxiprocesso perché aveva già chiesto il trasferimento alla Corte d'Appello di Roma.

(continua)

SALVO GIORGIO

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