Tuesday, May 15, 2007

FRASI CELEBRI



1. GIACOMO RIINA
, zio del boss Totò Riina, in un'intervista a Cristiano Lovatelli Ravarino:

"La Mafia? Se esistesse - e di questo nulla sacciu ("so", nda) - se dànno miliardi e libertà ai pentiti invece di farci la spremuta... e mettono in galera il dottore Contrada che ci ha stracciato la minchia come nessun altro per trent’anni… ha di sicuro vinto! E, d’altronde, dottore… cori forti consuma la cattiva sorti (chi è coraggioso stanca la fortuna, nda).”

2. FRANCESCO COSSIGA, presidente emerito della Repubblica, in una lettera all'avvocato Giuseppe Lipera, nominato proprio difensore da Bruno Contrada il 17 dicembre 2007:

"Conservo il miglior ricordo di Contrada. Le sarò grato, avvocato, se vorrà far pervenire al dottore Contrada i miei immutati sentimenti di amicizia e solidarietà."


3. FILIPPO MANCUSO, deputato di Forza Italia ed ex-ministro di Grazia e Giustizia, nel corso della trasmissione televisiva Fenomeni, condotta su RAI 2 da Piero Chiambretti nel 1999:

"I pentiti non sono tutti stonati. Taluni sono stati veritieri, altri sono stati fonte di tormento per cittadini, in questo aiutati o dall'imperizia o dalla malafede di chi li indagava e talvolta di chi li ispirava."


4. BRUNO CONTRADA, da un'intervista a Gian Marco Chiocci pubblicata su Il Giornale del 27 febbraio 2006, all'indomani della sua seconda condanna in appello:

"Caro Gioacchino
(l'avvocato Sbacchi, nda), caro Piero (l'avvocato Milio, nda), a questo punto io non ho alcuna fiducia nell’ennesimo ricorso in Cassazione. Facciamolo, certo, ma vedrete che si ripeterà la storia dell’altra volta, quando ordinarono un nuovo processo nonostante l’assoluzione scontata chiesta dal procuratore generale. Ricordate? Centinaia di pagine di motivazioni ricopiando, pari pari, la sentenza di primo grado senza nemmeno una riga della difesa. Ecco perché non credo più in questa giustizia. A questo punto mi restano due sole cose da fare... Non avendo più nulla da perdere mi restano due opzioni: un colpo di rivoltella alla testa o la battaglia. Bene, deludo gli avvoltoi che mi vorrebbero al camposanto e inizio sin da ora a combattere, ma fuori dai tribunali! Voglio far conoscere a tutti questo processo kafkiano, indecente, assurdo, pazzesco, dove i pentiti che resuscitano i morti per accusarmi valgono più degli onesti vivi che li smentiscono. Non c’è difesa contro questa giustizia. E non parlo solo di me, un pensiero adesso va al caro Ignazio (D'Antone, suo ex-braccio destro, nda), condannato nello stesso modo: attraverso le bugie di criminali patentati. Povero Ignazio, un onest'uomo in cella, lo sapete, no?, non può nemmeno dormire sdraiato perché soffre di dolori pazzeschi alla schiena. Hanno condannato me per condannare lui, e viceversa.

Sbaglio, avvocati? Ditemi se sbaglio! Come ci si difende da processi così, da assassini che per convenienza si pentono, guadagnano la libertà e vengono pure stipendiati dallo Stato? Non ce n’è uno di questi signori che sia stato condannato per calunnia di fronte a menzogne riscontrate. Nemmeno quel Giuseppe Giuga di Catania che ha confessato d’aver accusato falsamente il sottoscritto perché così gli aveva suggerito un altro collaboratore di giustizia. Se i pentiti dicono minchiate, vengono smentiti dalle prove o sconfessati dai testi, passi. Se io non ricordo esattamente cosa ho fatto il pomeriggio di un giorno di marzo di vent’anni fa, finisco in croce. Tutti mi dicono la stessa cosa: è una vergogna. Voglio combattere senza star dietro a ciò che in queste ore mi sta arrivando all’orecchio. Veleni, insinuazioni, coincidenze.
Io so solo che mi hanno arrestato mentre stavo per prendere Provenzano, condannato mentre si riparla di istituzioni 'deviate' per l’agenda scomparsa di Borsellino, distrutto definitivamente perché sennò crollava la procura di Palermo che da un po’ di tempo ha trovato, nella Corte d’Appello, una sponda che le raddrizza i processi eccellenti. Non voglio fare come Andreotti o Mori, che dopo l’assoluzione hanno smesso di combattere i loro detrattori. Io adesso vado fino in fondo. Farò i nomi dei pupari, stanerò chi tira i fili perché è ora di interrompere le infinite repliche di questo inguardabile teatrino."


5. BRUNO CONTRADA, da un'intervista a Gian Marco Chiocci pubblicata su Il Giornale del 23 febbraio 2006:

"La DIA (Direzione Investigativa Antimafia, nda), che nasceva in quel tempo come corpo di polizia alle dipendenze delle procure antimafia, non gradiva il fatto che mi ero impegnato a creare una branca, nel SISDE, dedicata specificatamente a Cosa nostra. La DIA si è specializzata nella gestione di determinati pentiti. Prendiamo Giuseppe Marchese, arrestato nel 1982, a cui, dopo dieci anni di galera, con ergastoli definitivi, si prospetta di uscire purchè si dichiari disposto a collaborare con la giustizia. Lui accetta subito. E nel giro di un mese, dall'ottobre al novembre del 1992, cambia versione su un fatto confermato da altri pentiti come Brusca e Di Maggio. E cioè che non era vero che Riina scappò dal covo perché la cosca avversa l'aveva individuato, ma perché io avevo spifferato a Riina che la Polizia stava per fare una perquisizione che, s'è scoperto poi, non c'è mai stata. Ecco, il mio processo è costellato di pentiti così. C'è Mannoia, che tace per 5 anni e poi, improvvisamente, si ricorda di me. C'è Spatola, le cui dichiarazioni servono per arrestarmi, che poi ritratta e racconta di come gli investigatori facevano incontrare i pentiti per concordare le accuse. C'è Cangemi, che afferma che sono un accanito giocatore d'azzardo, quando cento testimoni lo smentiscono..."


6. BRUNO CONTRADA ai giudici della Corte d'Appello di Palermo, prima della seconda sentenza d'appello che, nel 2006, ha confermato la condanna in primo grado a 10 anni di carcere:

"Sono vecchio, malato, sfiancato da 14 anni di calvario. Non mi importa di morire a casa oppure in cella, chiedo solo a questo Stato di restituirmi l'onore."


7. VINCENZO PARISI, ex-Capo della Polizia, in udienza al processo Contrada, in qualità di testimone della difesa:

"Bruno Contrada è un investigatore straordinario. Il suo è un curriculum brillantissimo ed egli ha dimostrato una conoscenza straordinariamente approfondita del fenomeno mafioso, di cui è una memoria storica eccezionale, e per questo ha ricevuto 33 elogi dall'amministrazione e dalla magistratura... Bisogna far luce su eventuali interessi e su eventuali corvi che hanno ispirato ai “pentiti” le dichiarazioni contro Contrada. È quantomeno strano che soltanto dieci anni dopo vengano rivelati fatti di cui i “pentiti” sarebbero stati a conoscenza da tanto tempo, a meno che non li abbiano appresi dopo da chi ha voluto ispirarli. Perché i 'pentiti' parlano solo ora, e chi li manovra? Io vedo un pericolo per la democrazia..."


8. ADRIANA CONTRADA, moglie di Bruno Contrada, la sera del 13 giugno 1995, giorno del ricovero dell'ex-capo della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo all'Ospedale Civico di Palermo dopo il malore che lo aveva colpito in udienza la mattina:

"Caino, sia maledetto Caino... Caino è un collega di mio marito... È lui che ha voluto che Bruno finisse in galera... È qualcuno che ha capito che la Sicilia poteva essere usata come trampolino di lancio per fare carriera... Quando mio marito e Boris Giuliano lottavano veramente contro la mafia, c'è stato qualcuno che ha intuito che da qui, in Sicilia, poteva raccogliere gloria e potere... Bastava usare la Sicilia e l'antimafia come uno sgabello e salirci sopra... Ma non ha trovato il campo libero perché c'era Bruno Contrada che era più avanti nei ruoli... Doveva eliminarlo... Questo Caino era in grado di sfornare contro mio marito un “pentito” al giorno... e lo fa ancora..."



9. ANTONIO DE LUCA, funzionario di Polizia per anni in servizio a Palermo alle dipendenze di Bruno Contrada, udienza del 28 ottobre 1994:

"Bruno Contrada, all'epoca capo di gabinetto dell'Alto Commissario Antimafia Emanuele De Francesco, fu informato dell'arresto di Gaetano Badalamenti in Spagna. Quell'operazione la condussi io e non ci furono interferenze di Contrada nè in questa nè in altre indagini."

"Falcone mi consegnò i mandati di cattura per i cugini Nino e Ignazio Salvo una domenica mattina a casa mia: c'erano anche Vincenzo Pajno, allora procuratore della Repubblica di Palermo, e i sostituti procuratori Geraci e Signorino. Pajno mi disse di non informare di nulla i miei vertici, ma io gli risposi che dovevo farlo e dovevo informare anche i Carabinieri e la Guardia di Finanza, che erano interessati ai Salvo. I miei "vertici" erano il questore, il capo della Squadra Mobile Ignazio D'Antone e l'Alto Commissario Antimafia Emanuele De Francesco insieme al suo capo di gabinetto Bruno Contrada. Io li informai lo stesso e l'indomani mattina, lunedì, i Salvo furono arrestati regolarmente."

De Luca parla anche di una lettera anonima che riguardava Contrada e pervenne nel settembre 1985 all'Alto Commissariato Antimafia diretto da Riccardo Boccia:

"Boccia mi chiese un parere e io gli dissi senza mezzi termini: 'sono baggianate'."

Questo per dire che, in un periodo in cui l'invio di lettere anonime per screditare questo o quel personaggio pubblico era diventato quasi un costume perverso, spesso senza fondamento, nessuno, fra le istituzioni, dava realmente peso agli ignoti scrittori e pseudo-delatori in quanto tali. Come del resto, senza alcuna prova a suffragio, è giusto che sia. Quando si tratta della reputazione, dell'onestà e della libertà di un individuo, non si può ridurre tutto al gossip...



10. BRUNO CONTRADA
, intervistato nel carcere di Santa Maria Capua Vetere da Gianluigi Nuzzi, inviato di Panorama:


Dopo i pentiti e i giudici di Palermo, ora l’accusano anche i parenti delle vittime di mafia. Tutti contro la sola ipotesi di grazia.

"Le dichiarazioni negative provengono da persone che non hanno alcuna conoscenza dei fatti che hanno portato alla mia vicenda giudiziaria, che ormai data a 16 anni fa. Parlo di Rita Borsellino, a maggior ragione della vedova del consigliere Antonino Caponnetto, che forse nemmeno sapeva chi era Contrada. Bisognerebbe che altri parlassero."

Cioè?

"Non capisco perché i Borsellino ce l’abbiano con me. Chiedano ai familiari di Rocco Chinnici, mio amico, e del collega Boris Giuliano, ucciso nel 1979 dalla mafia. Lui per me non era un amico, ma un fratello. Per 16 anni abbiamo lavorato giorno e notte insieme, gomito a gomito. Ed è proprio a Borsellino che presentai il mio rapporto indicando i nomi degli assassini. Forse questo i parenti di Borsellino non lo sanno. Paolo Borsellino lo lesse e lo fece proprio apprezzando tra l’altro il fatto che io non essendo più alla polizia giudiziaria non ero tenuto a redigerlo."

I familiari di Borsellino replicano sostenendo che con il giudice non eravate amici, né lei era un suo collaboratore.

"Non avevamo rapporti privati d’amicizia, ma ottimi rapporti professionali quando lui era giudice istruttore a Palermo e io capo della Criminalpol. Quando il 7 febbraio 1981 gli arriva sul tavolo il mio rapporto sull’omicidio Giuliano, dispone subito 15 o 20 mandati di cattura dei 35 mafiosi che io denunciavo nell’atto e che costituivano lo zoccolo duro dei corleonesi. Tra questi ben sei appartenenti alla famiglia Marchese, ovvero padre, zii e cugini di quel Giuseppe Marchese che poi fu uno dei primi pentiti ad accusarmi. Nel mandato di cattura sempre Borsellino indica come accusa anche le minacce di morte nei miei confronti."

Come al processo, anche oggi il suo caso divide. Tra i familiari, in diversi l’hanno difesa, come Michele Costa, figlio del procuratore della Repubblica ucciso a Palermo nel 1980.

"Mi sostiene perché sa che l’unico rapporto giudiziario sull’omicidio del padre lo svolsi io per il procuratore capo di Catania. Anche sua madre, Rita Bartoli Costa, icona dell’antimafia in Sicilia, durante il dibattimento attraversò l’aula e venne a stringermi la mano senza guardare in faccia i pubblici ministeri."

Si è anche detto che non bisogna concedere la grazia a un condannato per mafia.

"C’è un principio che stabilisce che i cittadini sono tutti uguali di fronte allo Stato, non vedo perché non si possa concedere la grazia a chi è stato condannato per mafia. Io la accetterei, sempre se non fosse presentata dai miei parenti, perché avrebbe comunque un significato diverso dalla concessione di un beneficio. L’accetterei come esito di una valutazione di dovuto atto riparatorio a fronte di una grave ingiustizia subita. Io voglio una riparazione da parte dello Stato perché non ho commesso nemmeno gli estremi integranti la violazione del Codice della Strada."

Insomma, innocente su tutta la linea.

"Io non mi considero innocente perché lego sempre questa parola ai bambini o gli do un significato religioso. Io sono 'non colpevole' oppure estraneo ai fatti che mi sono addebitati. Innocente è mio nipote e omonimo Bruno Contrada. Ha 2 anni: dal nonno in eredità riceverà un cognome ripulito dalle accuse più assurde."

Eppure, un esercito di pentiti l’accusa di aver passato notizie essenziali ai mafiosi. Per anni. Li avvisava di blitz, perquisizioni e indagini, facendo sfuggire latitanti come Totò Riina.

"Le accuse dei pentiti sono come palle di neve. Nascono piccole e a valle diventano valanghe, intere montagne. Così un pentito tira l’altro per la cosiddetta convergenza del molteplice, dove la stessa balla se è detta da due pentiti diventa verità. Quando entri in questo meccanismo sei finito. Il primo ad accusarmi è Gaspare Mutolo. Apparteneva alla cosca Partanna Mondello di Rosario Riccobono, che ho perseguito più di ogni altro gruppo."

Tommaso Buscetta sosteneva che era lei a passare le soffiate al boss Riccobono…

"Fra tutti i mafiosi che io ho trattato questa è la cosca che ho combattuto con maggior tenacia. Ho considerato sempre i mafiosi degli avversari, non dei nemici. Ma con la cosca di Riccobono era diverso. Avevano ammazzato un mio giovane collega napoletano, ucciso come un cane durante un servizio antiestorsioni. Era guerra. Ho portato in Corte d’assise Riccobono e Gaspare Mutolo con indagini svolte personalmente. Per poi vederli assolti dall’accusa di associazione mafiosa il 23 aprile 1977 per decisione di un giudice che ritroverò poi a condannarmi sostenendo che ero amico di Riccobono. La verità è un’altra: Contrada era il nemico giurato di Riccobono. Mutolo mi odiava, convinto che avessi dato ordine ai miei uomini di sparargli a vista come poi in effetti, per motivi di servizio, accadde in ben tre occasioni. Odio, nient’altro, ha prodotto il caso Contrada, con gente che si è persino uccisa."

Cioè?

"Oltre me Mutolo ha accusato il pm Domenico Signorino, che condusse le indagini su di lui e che poi si è suicidato. Poi, proprio perché era necessaria la convergenza del molteplice, spunta Pino Marchese. Per capire chi è Marchese basti sapere che ha ammazzato un compagno di cella all’Ucciardone, a colpi di bistecchiera in testa. Marchese è quello che parla della mia presunta soffiata a Riina. Ma cambia versione: prima dice che Riina aveva lasciato il suo nascondiglio, la villa di Borgo Molara, perché temeva agguati nella guerra di mafia, poi cambia versione e dice che fui io ad avvisare."

Secondo lei perché cambia versione?

"C’era un suggeritore."

E chi era?

"Marchese era gestito dalla DIA."

È un’accusa grave, Contrada.

"La mia storia è tutta così. Prendete un altro pentito, Francesco Marino Mannoia. Nell’aprile del 1993 parte lo staff della DDA di Palermo, Gian Carlo Caselli e altri pm, alla volta di New York per interrogare Mannoia sull’omicidio di Salvo Lima. Gli chiedono se ha qualcosa da dire su 'Contrada, capo della polizia giudiziaria di Palermo'. Mannoia risponde che sa soltanto che Contrada era un funzionario di polizia e che non ha altro da aggiungere."

Poco dopo Mannoia venne interrogato anche sulle stragi.

"Sì, da Giovanni Tinebra e i suoi pm che raggiungono gli Usa per sentire l’oracolo di Delfi. Poi gli chiedono di Contrada ma Mannoia dice che non gli risulta che avessi rapporti con loro. Bisogna aspettare il gennaio 1994 quando, poco prima del decreto di rinvio a giudizio, Mannoia decide di confermare le accuse degli altri pentiti, in concomitanza con il pagamento dello stipendio. Ma se si è pentito nel 1988, come mai mi accusa solo nel 1994? E quando gli vengono rivolte domande specifiche sul mio conto, perché tace? Come poteva dimenticarsi che il capo della polizia giudiziaria, non proprio l’ultimo poliziotto di Palermo, è colluso con Cosa nostra? Sa come spiegò la cosa in aula? 'Non parlai a Caselli perché ero stanco e li mandai a fare in c…'. Questi sono i pentiti. Spesso portatori di menzogne. Spesso manovrati."

Lei accusa la DIA perché furono proprio gli uomini di Gianni De Gennaro a raccogliere le prove contro di lei?

"No, dico solo che la DIA era agli inizi della sua formazione andando a sovrapporsi con il SISDE dove lavoravo."

Perché?

"La DIA nacque proprio nel momento in cui il SISDE, tramite il sottoscritto, stava attivando un processo di riconversione delle funzioni, all’epoca quasi esclusive, di antiterrorismo politico in funzioni di anticriminalità organizzata. Su sollecitazione del governo si avviò un programma di riconversione parziale. Io, essendo l’unico alto in grado con esperienza di lotta alla mafia, dovevo costituire dei nuclei anticrimine nei centri SISDE del Sud Italia: Palermo, Catania, Bari, Napoli, Reggio Calabria. Avevo costituito anche un gruppo di lavoro per la cattura di Bernardo Provenzano… Insomma, questa riorganizzazione andava a coincidere con la nascita della Dia che aveva proprio le stesse funzioni specifiche."

Quindi ci fu uno scontro tra lei e De Gennaro, come vogliono i suoi difensori?

"Non ci fu alcuna questione personale. Con lui ebbi pochissimi rapporti di lavoro quando ero a Palermo e lui a Roma, entrambi a capo delle rispettive squadre mobili. Ma non è stata una lotta di persone quanto di organismi. Con De Gennaro io non ho mai avuto nulla da ridire, né lui ha mai detto niente contro di me."

Erano comunque modi diversi di indagare. Quando lei svolgeva inchieste, non c’erano i collaboratori di giustizia e venivano effettuate pochissime intercettazioni…

"Per fare antimafia bisognava avere i confidenti. I pentiti dicono che mi incontravo nei ristoranti con i mafiosi, quando invece vedevo le mie fonti nei posti più impensabili come al cimitero di Ficarazzi tra Villabate e Bagheria, dove per paura nemmeno le coppiette andavano ad appartarsi. Ma ho sempre applicato un principio non seguito da colleghi di valore anche caduti come Nini Russo: non si potevano stabilire rapporti con i capi dei mandamenti. I rischi di finire ammazzato o strumentalizzato erano troppo alti. Così avevo confidenti border line, come il cognato di Mutolo, che pur non appartenente alla cosca conosceva i retroscena. Infatti fu lui ad avvisarmi che i due avevano deciso di ammazzarmi."

Però i collaboratori di giustizia sono stati fondamentali nella lotta alla mafia.

"Infatti non è un problema di pentiti, ma di chi ne ha manovrati in qualche occasione. E poi, per dirla tutta, le prime dichiarazioni di un pentito di mafia le ho raccolte proprio io nel lontano 1973. Erano quelle di Leonardo Vitale, che venne poi ucciso nel 1984."

Ci permettiamo di aggiungere un piccolo commento.
Il film dedicato al primo, storico e spesso misconosciuto "pentito" della storia della mafia siciliana, uno strano personaggio al limite del mistico di cui parliamo in altra parte del libro, parla di un poliziotto che fu il primo destinatario delle sue dichiarazioni. Quel poliziotto era appunto Bruno Contrada: e va da sè che, se Vitale o chi per lui avesse avuto notizia o anche un semplice sentore di una contiguità di Contrada con le cosche, non avrebbe certo chiesto esplicitamente di parlare con lui. Invece lo fece. Ma il sopracitato film non identifica quel poliziotto, non dice nè fa capire in alcun modo che si trattava di Bruno Contrada. Un altro film, invece, ossia Giovanni Falcone di Giuseppe Ferrara, basandosi soltanto sull'atto di accusa a Contrada e ancor prima di avere un sia pur blando e inconsistente conforto da una qualsivoglia sentenza passata in giudicato, aveva inserito, e in pessima luce, il nome dello stesso Contrada. Soltanto la querela dell'ex-capo della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo aveva impedito che il nome fosse citato e aveva fatto sì che quel personaggio fosse definito semplicemente "il dottore": ma la scelta dell'attore e il trucco di scena non lasciavano dubbi su chi fosse quel "dottore". Anche il conclamato sceneggiato televisivo Il Capo dei Capi, sulla vita e la "carriera" di Totò Riina, "evento televisivo" del quale (al di là dell'indubbia bravura degli attori e della valenza artistica in sè) non si sarebbe certo sentita la mancanza, visto che ogni passaggio televisivo si tramuta, purtroppo, di per sè (anche se le intenzioni degli autori non erano certamente queste) in una fatale "celebrazione" del protagonista presso un pubblico televisivo imbelle e abituato ad "Amici", "Grandi Fratelli" e piattezze del genere, anche quello sceneggiato, si diceva, parla di Bruno Contrada. Ma non nel senso di riferire le operazioni che quest'ultimo compì con successo contro la mafia (urge ricordare ancora una volta che Contrada è il poliziotto che detiene il primato circa il numero di mafiosi arrestati), bensì ancora una volta in senso dispregiativo e denigratorio.
"C'è una sentenza definitiva di condanna", obietteranno gli autori. Certo, anche se c'è sempre la possibilità dell'errore giudiziario, obiettiamo umilmente noi. Ma il fatto che rimane davanti agli occhi di tutti è che, quando c'è da parlare di Contrada in senso positivo, non lo si fa, non esitando, al contrario, neppure un istante quando si tratta di mettere alla gogna l'uomo che che ha ricevuto 65 riconoscimenti (tra cui 1 attestato di merito speciale), 14 encomi (tra cui uno della DEA, l'agenzia antidroga statunitense), 7 elogi della magistratura e 50 riconoscimenti da parte del SISDE, l'uomo che fu il primo a segnalare Stefano Bontade come mafioso, che arrestò Gaspare Mutolo, che inchiodò gli assassini di Boris Giuliano, che intuì per primo l'ascesa dei "corleonesi", che fu ad un passo dalla cattura di Bernardo Provenzano prima di essere arrestato a sua volta, che per primo comprese la matrice mafiosa dietro l'omicidio del presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella quando tutti pensavano ad un delitto di stampo terroristico.
Altro che par condicio...


11. CALOGERO BUSCEMI, sottufficiale di Polizia in servizio alla Squadra Mobile di Palermo dal 1962 al 1965, alla Criminalpol palermitana dal 1965 al 1967, quindi a Nuoro dal 1967 al 1968, ancora alla Squadra Mobile di Palermo nel 1968 e dal 1969 in servizio permanente ancora alla Criminalpol di Palermo, dichiara nell'udienza del 20 gennaio 1995:

CALOGERO BUSCEMI - "Se qualcuno avesse parlato male del dottore Contrada, avrei chiesto il trasferimento."


12. FRANCESCO SIRLEO, dirigente superiore della Polizia di Stato e funzionario del SISDE, dichiara nell'udienza del 27 gennaio 1995:

"
Mai avuto sospetti su Bruno Contrada. Anzi, lui era animato da sacro furore contro la mafia e anche in genere, e ha sempre dimostrato un entusiasmo notevole."



SALVO GIORGIO

1 comment:

Anonymous said...

A bold lie...Contrada was not, even
remotely involved, in the heroin
laboratory seizures. It was DEA-Rome with its informants and intell
from DEA-Marseille re: Bosquet.
"The award from DEA was a paper
certificate which was also given to
members, at all levels, of the police, finanza, carabineri and even firemen and vigili urbani.
Correct the Contrada story.