Friday, May 25, 2007

LE ACCUSE A CONTRADA E D'ANTONE





1. L'ACCUSA



1.1. Le accuse del "pentito" Rosario Spatola



Rosario Spatola
, mafioso di origine trapanese, condannato in via definitiva dai giudici del capoluogo lilibeo a 8 anni di reclusione per traffico d'armi e di stupefacenti, comincia a collaborare con la giustizia nel 1989. Anni dopo, in seguito ad alcune violazioni del programma di protezione da lui perpetrate, verrà revocato nei suoi confronti lo speciale regime previsto per i collaboratori di giustizia. Il 6 dicembre 1999 Rosario Spatola verrà arrestato mentre sta per imbarcarsi da Messina su un traghetto per Villa San Giovanni.
Spatola fa le sue prime rivelazioni a Paolo Borsellino, che nel 1989 era procuratore della Repubblica di Marsala. Poi, improvvisamente, decide di tacere. E' lo stesso Spatola a spiegarne il motivo durante un'udienza del processo Contrada: "Nella prima metà di novembre del 1989 fui portato a Roma, negli uffici dell'Alto Commissariato Antimafia (diretto all'epoca dal giudice Domenico Sica, nda). Lì trovai De Luca (Antonio De Luca, stretto collaboratore di Bruno Contrada, già funzionario della Squadra Mobile di Palermo e capo della Criminalpol della Sicilia Orientale, all'epoca funzionario dell'Alto Commissariato Antimafia, nda), Canale (il maresciallo dei Carabinieri Carmelo Canale, collaboratore del giudice Borsellino, nda), Misiani (il giudice Francesco Misiani, nda) e Di Maggio (il giudice Francesco Di Maggio, nda). Volevano convincermi a parlare. Io tentennavo. Ad un tratto si aprì la porta e vidi il dottor D'Antone (Ignazio D'Antone, stretto collaboratore di Bruno Contrada, poi capo della Squadra Mobile di Palermo, capo della Criminalpol della Sicilia Occidentale e dirigente del SISDE, all'epoca funzionario dell'Alto Commissariato Antimafia, nda). Gettò un'occhiata intorno, salutò De Luca e se ne andò, richiudendo la porta. Sapevo che era come Contrada massone, come Contrada nelle mani di Cosa Nostra. E di Contrada era amico fraterno. Ebbi paura".
Nel 1992, dopo la strage di via D'Amelio, Spatola racconta ai magistrati della Procura di Palermo che nel 1981
Rosario Caro, "uomo d'onore" della sua famiglia e massone di trentatreesimo grado, gli avrebbe detto: "Se ti fermano a Palermo, chiedi di Contrada o di D'Antone".
Spatola riferisce ancora che, prima di allora, nel 1978, Stefano Barbera, un mafioso poi sparito con la "lupara bianca", gli avrebbe detto che "D'Antone era vicino a Cosa Nostra, uno che faceva favori". Cosa che Spatola sostiene essergli stata in seguito confermata dai fratelli Rosario e Federico Caro.



1.2. Volatili e bombe


a. Il "Corvo di Palermo"

Sotto questo nome, dai risvolti gotici e quasi preso in prestito da Edgar Allan Poe, si cela una delle più oscure ed ingarbugliate vicende che la martoriata città di Palermo abbia mai conosciuto dai tempi di Matteo Bonello e dei Beati Paoli.
Tutto ha inizio il 26 maggio 1989, quando la Squadra Mobile di Palermo arresta a San Nicola L'Arena (piccolo paese costiero tra Palermo e Trabia) il "pentito" Salvatore Contorno
e suo cugino Gaetano Grado. Salvatore Contorno, ovvero il figlio di Antonio, che era stato uno dei 114 mafiosi imputati al processo di Catanzaro del 1969 (di cui parliamo nel capitolo dedicato alla carriera di Bruno Contrada); il macellaio proprietario di una cella frigorifera in Corso dei Mille, a Palermo, divenuto nel 1975 picciotto della famiglia di Santa Maria del Gesù (anche se originario di Brancaccio) e in quanto tale uno dei dieci "soldati" che costituivano la guardia personale del capofamiglia Stefano Bontade; l'uomo soprannominato la "primula di Brancaccio" o anche "Coriolano della Floresta" per la sua abilità nel mimetizzarsi e nello sfuggire ai sicari della fazione vincente dei "corleonesi"; l'uomo le cui parole in palermitano arcaico, durante il primo maxiprocesso del 1986, avevano avuto bisogno della traduzione del professor Santi Correnti dell'Università di Catania. Morto Bontade nell'aprile del 1981, il 25 luglio successivo Contorno sfugge ad un attentato compiuto ai suoi danni dai due sicari più feroci dei "corleonesi", Pino Greco Scarpuzzedda e Giuseppe Lucchese: da quel momento, per stanarlo, i "corleonesi" iniziano un'opera di eliminazione sistematica dei parenti ed amici a lui più vicini. Contorno, allora, dapprima inizia a svolgere il ruolo di informatore per il vicequestore Ninni Cassarà della Squadra Mobile di Palermo col nome in codice di Fonte di Prima Luce, quindi fugge a Roma, dove viene arrestato il 23 marzo 1982: pare che stesse organizzando l'omicidio di Pippo Calò, a detta sua uno dei principali fautori della soppressione di Stefano Bontade. Coinvolto nella vicenda della "Pizza Connection", Contorno, mafioso "perdente", si accorge che la sua vita non è al sicuro neppure in carcere (viene a sapere che c'è una taglia di trecento milioni di lire per chi lo ucciderà in cella) e decide di pentirsi. Nel 1984 comincia a parlare con Giovanni Falcone e la sua testimonianza risulta determinante per il buon esito sia del processo newyorkese sulla "Pizza Connection" che nell'àmbito del primo maxiprocesso palermitano del 1986: proprio in quest'ultimo processo Contorno viene condannato a 6 anni ma rimane "a disposizione" della giustizia italiana. Suo cugino Gaetano Grado è anch'egli mafioso, pluripregiudicato, già condannato nell'àmbito del maxiprocesso del 1986 ma latitante: si tratta di un personaggio, comunque, di spessore diverso da quello di Contorno. I due vengono arrestati insieme a vari complici e in loro possesso vengono trovate armi e munizioni: alcune armi coinciderebbero con quelle usate in recenti omicidi di alcuni esponenti della fazione vincente dei "corleonesi".
Fin qui nulla di strano. Il punto è che Contorno non avrebbe dovuto trovarsi là. Tutti sapevano, infatti, che il "pentito" si trovava in una località segreta negli Stati Uniti, sotto la protezione delle autorità d'oltreoceano. E tutti, organi di stampa compresi, cominciano a chiedersi cosa ci facesse invece Contorno alle porte di Palermo, soprattutto in concomitanza di una serie di omicidi di mafiosi affiliati ai "corleonesi" nonchè di individui legati agli stessi Contorno e Grado da vincoli di parentela o di appartenenza alle stesse famiglie mafiose.
Contestualmente alla clamorosa operazione di polizia cominciano a circolare voci incontrollate e pervicaci sull'esistenza di varie lettere anonime che conterrebbero gravi e circostanziate accuse a carico di alcuni magistrati palermitani, in particolare il giudice istruttore Giovanni Falcone, il procuratore aggiunto della Repubblica Pietro Giammanco e il sostituto procuratore della Repubblica Giuseppe Ayala, particolarmente impegnati in inchieste giudiziarie sulla mafia. Queste lettere sarebbero state inviate ad alcuni organi istituzionali, ossia al Presidente della Repubblica, al Consiglio Superiore della Magistratura, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, all'Alto Commissario Antimafia, nonchè a diversi esponenti politici di primo piano. Le accuse più gravi, che coinvolgono anche il Capo della Polizia ed il vicequestore Gianni De Gennaro, all'epoca in servizio presso la Criminalpol Centrale, fanno riferimento in particolar modo alla "gestione" del "pentito" Totuccio Contorno, al suo rientro segreto in Italia e all' "attività" seguente da lui svolta in Sicilia. In pratica, come scrive Enrico Deaglio nel suo libro Raccolto rosso: la mafia, l'Italia e poi venne giù tutto, "l
e lettere accusavano Giovanni Falcone di aver favorito il ritorno sul terreno di battaglia del capo militare perdente e di aver fatto di Contorno un 'killer di Stato'."
Falcone, Giammanco, Ayala e De Gennaro respingono le accuse.


b. Il fallito attentato dell'Addaura ai danni di Giovanni Falcone

Addaura, una piccola frazione balneare di Palermo, alle porte di Mondello. E' passato poco meno di un mese dal clamoroso arresto di Totuccio Contorno a San Nicola L'Arena. Le lettere del Corvo imperversano.
Il giudice Giovanni Falcone ha preso in locazione una villa per l'estate. Intorno alle ore 16 del 21 giugno 1989 gli agenti di scorta Gaetano Lo Re, Gaspare Di Maria, Angelo Lo Piccolo e Roberto Lindiri, durante un giro di ispezione che precede, come sempre, ogni uscita del giudice da casa, notano qualcosa di strano su uno degli scogli prospicienti alla villa. Si avvicinano e scoprono che si tratta di una borsa e di una muta da sub, completa di maschera e pinne. La stessa cosa viene notata da Livia Scolaro, un'impiegata dell'Ispettorato Regionale dei Vigili del Fuoco, e dalla sua amica Aurora Pagliano, una decoratrice, che casualmente stanno facendo il bagno nei pressi. Ben presto gli agenti si rendono conto che la borsa contiene una bomba. L'ordigno viene disinnescato in tempo dagli artificieri, tra i quali vi è il maresciallo Francesco Tumino: costui sosterrà in seguito che un suo superiore avrebbe ritardato il suo intervento. Il colonnello dei Carabinieri Mario Mori, ascoltato come teste al processo Contrada nell'udienza del 25 ottobre 1994, ricorderà in quella sede:

MORI - "Dalle nostre indagini non risulta che funzionari di Polizia siano mai stati coinvolti nel fallito attentato. Non risulta affatto che il dottor Ignazio D'Antone sottrasse parte della bomba, ossia del congegno che la componeva, dopo che la bomba era stata fatta brillare. Non so se il maresciallo Tumino, che aveva appunto fatto brillare la bomba, abbia mai parlato di sottrazioni di parte della bomba. So che è stato poi inquisito per false dichiarazioni al pubblico ministero e falso ideologico e ha patteggiato la pena."

Ma torniamo al pomeriggio di quel
21 giugno 1989. Nel momento in cui viene scoperta la bomba, Falcone si trova in casa in compagnia dei giudici svizzeri Carla Del Ponte e Claudio Lehmann, con i quali sta collaborando nelle indagini sul riciclaggio internazionale di denaro sporco della mafia.
L'atmosfera di tensione già creata dalle lettere del Corvo viene ulteriormente arroventata dal fallito attentato. Alcuni sostengono che si tratti di una manovra della mafia per scardinare il pool antimafia del Tribunale di Palermo attraverso l'eliminazione del suo uomo simbolo, Giovanni Falcone: in quel momento, tra l'altro, Falcone, per la sua determinazione e la sua competenza, è uno dei candidati alla poltrona di procuratore aggiunto della Repubblica di Palermo. Altri sostengono che la bomba era indirizzata non solo a Falcone ma anche agli stessi giudici Del Ponte e Lehmann, e richiamano come movente la volontà di neutralizzare l'imminente svolta nell'inchiesta sulla "Pizza Connection", in corso tra Italia, Svizzera e Stati Uniti, che potrebbe coinvolgere occulti gruppi politici e finanziari italiani e stranieri. Altri ipotizzano che i corleonesi abbiano voluto così reagire alla "gestione" di Totuccio Contorno e forse anche di Tommaso Buscetta, "usati" contro di loro dallo Stato nella maniera descritta dalle lettere del Corvo, almeno per quanto riguarda Contorno. Altri ancora, infine, cominciano ad insinuare che l'attentato sia stato addirittura simulato.
Nella vicenda viene coinvolto inopinatamente anche Bruno Contrada, all'epoca già alto dirigente del SISDE.
Il 23 luglio 1989, poco più di un mese dopo il fallito attentato, il settimanale L'Espresso, non nuovo ad inchieste giornalistiche di tipo giudiziario e a rivelazioni clamorose ancorchè non necessariamente azzeccate, pubblica un articolo di Sandro Acciari dal titolo "Il Corvo, la Talpa, il Falcone". Andiamo a leggere cosa scrive Acciari: "Da una parte c'è un collega invidioso che spedisce lettere anonime (le famose lettere del "Corvo di Palermo" che costituirono un attacco al giudice Falcone, nda); dall'altra chi informa Cosa Nostra sui movimenti del giudice Falcone per attentare alla sua vita. E' un funzionario di polizia che ha lavorato per anni a Palermo: il suo nome emerge dalla indagini sul riciclaggio del denaro sporco (
Contrada è stato accusato di aver aiutato l'imprenditore bresciano Oliviero Tognoli, che aiutava alcune cosche a riciclare il denaro sporco nell'àmbito della famosa "Pizza Connection" e che sparì improvvisamente da Palermo il 12 aprile 1984 perchè informato di un fermo che la Polizia aveva tentato di operare ai suoi danni nella sua villa di Concesio, vicino Brescia: ne riferiamo, confutando l'accusa di favoreggiamento rivolta a Contrada, nel capitolo dedicato al "Sorriso di Oliviero Tognoli", nda). Su quella bomba depositata il 21 giugno sugli scogli davanti alla villa affittata dal giudice Falcone, è rimasta la firma. I sospetti si accentrano su un funzionario di polizia che ha lavorato per molti anni a Palermo, il cui nome è emerso dalle indagini sul riciclaggio di danaro sporco proveniente dal traffico di droga. Data l'estrema delicatezza del caso, L'Espresso ha deciso di non farne il nome per non prestarsi involontariamente al gioco della mafia e non ostacolare un'inchiesta che potrebbe avere sviluppi determinanti. Per la prima volta, infatti, esiste forse la possibilità concreta di sciogliere un nodo essenziale del rapporto tra mafia ed istituzioni. La Talpa, appunto."
Acciari non fa il nome di Contrada. Per riservatezza, come sostiene lui, o perchè non ha alcun elemento in mano? Questo articolo, dopo quanto pubblicato da I Siciliani nel 1985, rappresenta comunque un nuovo episodio di quell'ondata di calunnie nei confronti di Bruno Contrada che non può non avere avuto un ruolo importante nel rendere "chiacchierato" il suo nome: e, si sa, in Italia, e vieppiù in Sicilia, stanti gli "insegnamenti" del buon Padre Pintacuda della Compagnia di Gesù, il sospetto diventa troppo spesso anticamera della verità. Non è escluso, in altre parole, che il nome di Contrada, già venuto fuori, sia pur a sproposito, come nome "equivoco", possa essere proprio per questo diventato meglio spendibile come identità della famosa Talpa che tutti hanno cercato in maniera indefessa per anni.
Sarà proprio L'Espresso, come vedremo nel già citato capitolo dedicato alla vicenda Tognoli, a calunniare ulteriormente Bruno Contrada (stavolta con la firma di Roberto Chiodi), e ancora in quel 1989 che, a questo punto, assume un ruolo chiave nel complicato intreccio che porta alla caduta dell'ex-capo della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo.
La migliore descrizione dell'atteggiamento di parte della stampa in quel periodo così convulso la dànno gli avvocati Milio e Sbacchi nell'atto di impugnazione in appello della sentenza di condanna di primo grado ai danni di Bruno Contrada: "Gli avvenimenti del 1989" - scrivono gli avvocati - "costituiscono argomento e motivo di infuocate polemiche e diatribe di cui tutti gli organi di informazione fanno cassa di risonanza, proponendo e talvolta imponendo spiegazioni e soluzioni influenzate da fuorvianti interessi di parte. In una ridda di accuse, difese, critiche, esaltazioni, supposizioni, calunnie, offese, dichiarazioni, interviste, smentite, falsità, illazioni, vengono investite e coinvolte tutte le strutture istituzionalmente preposte a contrastare il fenomeno mafioso: l'apparato giudiziario ed investigativo, la Commissione Parlamentare Antimafia, l'Alto Commissario Antimafia, il Consiglio Superiore della Magistratura, i Servizi di Sicurezza. E' sufficiente dare una scorsa alla stampa dalla fine di maggio ad agosto del 1989 per rendersi conto delle lacerazioni prodotte nel tessuto connettivo del fronte antimafia. Commentatori ed editorialisti imbevuti di faziosità politica, sprovveduti inviati speciali di settimanali e quotidiani, cronisti locali alla ricerca spasmodica della notizia sensazionale, ispiratori di perfide calunnie mossi da invidie e rancori personali, personaggi pervasi da sfrenato protagonismo, uomini delle Istituzioni carenti del più elementare senso dello Stato, sembra facciano a gara per rendere ancor più confusa, torbida e avvelenata una situazione già di per sè oltremodo difficile e grave per la complessità ed incommensurabile forza oggettiva del fronte mafioso. Si gettano in pasto ad un'opinione pubblica sempre più perplessa, disorientata, demoralizzata ed intimorita, notizie vere, verosimili ed inverosimili su attività ed implicazioni nelle vicende palermitane di imprecisati 'centri occulti del potere', di servizi segreti deviati, di logge segrete o coperte dalle varie massonerie, tra cui spezzoni residui o risorti della P2, di clan criminali mafiosi, di terroristi neri, di imprecisati gruppi politico-economici corrotti e corruttori, di trafficanti di droga e riciclatori di danaro e di tutte le altre possibili ed immaginabili componenti deteriori e deleterie esistenti nel contesto sociale, politico e culturale del nostro Paese, facendo intravedere anche foschi e tardivi collegamenti di esse con strutture e uomini dello Stato, deputati anche alla lotta contro la mafia. La corretta informazione è sovrastata o sommersa dalla disinformazione costituita da notizie o travisate o tendenziose o confuse o false. Anche uomini investiti di cariche e responsabilità pubbliche con deplorevole leggerezza formulano ipotesi accusatorie senza alcun costrutto o fondamento, e lasciano intravedere coinvolgimenti assurdi e fantasiosi. Valga per tutte il richiamo alle dichiarazioni rese dal sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, nell'articolo "L'ombra nella Città dei Servizi Segreti", pubblicato su L'Ora del 14 luglio 1989, o a quelle del magistrato Vito D'Ambrosio, componente del CSM, che, in un'intervista a Epoca, non esita ad affermare che l'attentato a Falcone è opera o della mafia o dei servizi segreti. Queste ed altre simili affermazioni od illazioni sono riprese, elaborate, diffuse a macchia d'olio da altri organi d'informazione che sembra gareggino più che a dar notizie a far notizia...
In questo contesto di informazione e disinformazione rientrano gli articoli de
L'Espresso del 23 luglio e del 13 agosto 1989 (ovvero i già citati articoli di Sandro Acciari e Roberto Chiodi che sono entrati a far parte del voluminoso fascicolo del processo Contrada, nda)."


c. Il Corvo in gabbia?

Ma torniamo al Corvo.
In seguito al fallito attentato dell'Addaura, le indiscrezioni su
l contenuto delle lettere anonime si moltiplicano in maniera esponenziale. Non si riesce a capire che tipo di manovra le missive possano nascondere. Crescono le illazioni riguardo agli autori: molti cominciano a dichiararsi certi che le lettere provengano da ambienti e persone bene informati, e da lì a far risalire il mittente al Palazzo di Giustizia di Palermo il passo è brevissimo. I sospetti si addensano in particolare in capo al sostituto procuratore della Repubblica Alberto Di Pisa, da anni impegnato in delicate inchieste sulla mafia in collaborazione con lo stesso Falcone. Pare che i servizi segreti, su iniziativa dello stesso Alto Commissario Antimafia Domenico Sica, siano riusciti a rilevare le impronte digitali di Di Pisa su una delle lettere. Ricorda ancora Enrico Deaglio nel già citato libro Raccolto rosso: la mafia, l'Italia e poi venne giù tutto: "L'allora Alto Commissario Antimafia Domenico Sica trovò la maniera di incontrarsi con Di Pisa e di offrirgli un bitter Campari, in modo che le sue impronte rimanessero sul bicchiere. Impronte che, esaminate dai servizi segreti, furono dichiarate identiche a quelle trovate sulle lettere anonime."
Di Pisa respinge con sdegno l'accusa ma, davanti al CSM, che lo convoca d'urgenza per un'audizione, dichiara di condividere le denunce formulate nelle lettere del Corvo per ciò che concerne la presunta "gestione" spregiudicata ed illegale del "pentito" Contorno, rientrato in Sicilia dagli Stati Uniti con il consenso di alcuni organi di polizia e forse con l'avallo dello stesso Falcone. Il giudice Di Pisa viene comunque travolto dall'orda di sospetti che si abbatte su di lui: le inchieste che sta conducendo gli vengono sottratte, quindi viene sospeso dal servizio e gli viene tolto anche lo stipendio. Scrive Salvatore Parlagreco nel suo libro Il mistero del Corvo - Il caso Di Pisa: "Di Pisa non è solo l' 'anonimista', ma qualcosa di più: il braccio operativo della sofisticata strategia mafiosa che mira ad eliminare i magistrati più impegnati. Le indagini dell'Autorità Giudiziaria non sono ancora partite che Alberto Di Pisa viene privato delle sue inchieste, sottoposto a procedimento disciplinare e a un 'processo pubblico' sulle colonne dei giornali italiani. Il verdetto di condanna è senza appello. Sorprendentemente gli indizi che lo accusano cadono uno dopo l'altro, ma Alberto Di Pisa resta il Corvo di Palermo. È proprio lui il colpevole? E che fine hanno fatto le accuse del Corvo? E le inchieste giudiziarie affidate ad Alberto Di Pisa? Più che la storia di un intrigo, il mistero del Corvo è una allucinante sciarada ideata dal demonio."
Passeranno anni prima che si riesca ad appurare che il giudice Alberto Di Pisa non c'entra niente con le lettere del Corvo. Di Pisa verrà riabilitato e proseguirà la sua carriera in magistratura. Il 23 maggio 1992, essendo lui il magistrato di turno, sarà il primo ad accorrere sulla funesta scena della strage di Capaci.
Di Totuccio Contorno, invece, si sono perse le tracce. Il 9 maggio 1993 Panorama pubblica una notizia secondo la quale Contorno deve al Fisco la somma di 149 milioni di lire. La società esattoriale Montepaschi Serit di Palermo ha trovato il recapito del "pentito": via Cassia, 1856, Roma. Gli esattori si sono ivi recati due volte, il 21 giugno ed il 20 luglio 1992, ma non hanno trovato nessuno. Totuccio Contorno risulta emigrato da Palermo nella data (secondo alcuni, tra cui Enrico Deaglio nel libro sopracitato, fantasiosa) dell'8 luglio 1998. In seguito, il 2 dicembre 2004, i Carabinieri del Nucleo Operativo della Compagnia Roma Trionfale arrestano Contorno con l'accusa di tentata estorsione.



d. Il processo sul fallito attentato dell'Addaura


Tornando alla bomba piazzata davanti alla villa di Falcone nel 1989, l'ordigno fortunatamente non esplose materialmente ma alcune sue schegge cominciarono a fluttuare impazzite davanti agli esterrefatti occhi dell'opinione pubblica.
Nel settembre del 2000, al processo di Caltanissetta sul fallito attentato dell'Addaura, il pubblico ministero Luca Tescaroli ribadisce
, in requisitoria, la sua tesi sul coinvolgimento di Contrada. E lo fa nonostante tra il 1992 e il 1993, dopo approfondite indagini, ben tre pubblici ministeri, i sostituti procuratori della Repubblica di Caltanissetta Carmelo Petralia, Ilda Boccassini e Fausto Cardella, non riscontrando alcun elemento a carico di Contrada, abbiano chiesto l'archiviazione al GIP.
Tescaroli pensa che Contrada possa aver recitato un ruolo nella vicenda proprio in conseguenza del suo presunto
rapporto con Oliviero Tognoli, sul conto del quale indagava pure Falcone. Ma Tognoli, nel 1989, dichiara che le informazioni sulle sue vicende giudiziarie (informazioni che lo avevano indotto alla fuga) erano provenute non da Contrada ma da un funzionario della Questura che era stato suo compagno di scuola, ossia Cosimo Di Paola (che, più che dargli notizie specifiche, lo esortò a non frequentare più certi ambienti) e che, la mattina del 12 aprile 1984, era stato suo fratello, Mauro Tognoli, a telefonargli per comunicargli la visita della Polizia alla villa di Concesio. Il 30 maggio 2000, quattro mesi prima della sopracitata requisitoria al processo di Caltanissetta, lo stesso Tescaroli aveva interrogato Lehmann, il quale aveva confermato per la terza volta che Tognoli aveva indicato come suoi "informatori" Di Paola e il fratello Mauro, e non certo Bruno Contrada. Anche il generale dei Carabinieri Mario Mori, già comandante del ROS, aveva confermato ai sostituti procuratori della Repubblica di Palermo Guido Lo Forte e Antonio Ingroia che Falcone non aveva mai sospettato di Contrada: per questo Mori era stato anche indagato per falsa testimonianza, ma la sua posizione era stata ben presto archiviata.
Cade in questa maniera ogni presunto legame tra Contrada e il fallito attentato dell'Addaura. Non solo sul piano "logico", ma anche per via
della richiesta di archiviazione sul punto avanzata al GIP, tra il 1992 e il 1993, dai tre pubblici ministeri, Carmelo Petralia, Ilda Boccassini e Fausto Cardella, che non hanno trovato nessun elemento a carico di Contrada.

Diversi sono, invece, i motivi del presunto coinvolgimento di Ignazio D'Antone.



1.3. Le accuse di Laura Iacovoni Cassarà



Laura Iacovoni Cassarà
, vedova del vicecapo della Squadra Mobile di Palermo Ninni Cassarà, ucciso dalla mafia il 5 agosto 1985 insieme all'agente di Polizia Roberto Antiochia, e in seguito assessore comunale di Palermo in una delle Giunte presiedute da Leoluca Orlando, ha raccontato ai giudici di Palermo la sua versione sugli ultimi mesi di lavoro e di vita del marito. "Mio marito non si fidava di Contrada e dell'allora capo della Squadra Mobile Ignazio D'Antone perchè era un uomo di Contrada." - ha detto la Iacovoni in un'udienza del processo Contrada - "Ninni aspettò anche che D'Antone andasse in ferie per fare una certa operazione". La vedova aggiunge: "Durante il processo di Caltanissetta per la strage di via Pipitone Federico (la strage in cui il 29 luglio 1983 perse la vita il consigliere istruttore del Tribunale di Palermo Rocco Chinnici, due agenti e il portiere del condominio dove Chinnici abitava, nda) Ninni disse che il giudice Chinnici stava per fare arrestare Nino e Ignazio Salvo. D'Antone e altri lo smentirono, ma Paolo Borsellino e un capitano dei Carabinieri confermarono le parole di mio marito".


1.4. Le accuse del vicequestore aggiunto Margherita Pluchino



Margherita Pluchino
, vicequestore aggiunto in servizio presso la Questura di Palermo nei primi anni '80 e collaboratrice di Ninni Cassarà, dichiara in udienza al processo Contrada: "Ninni non si fidava di Contrada. E nemmeno di Ignazio D'Antone. Quando Contrada gli chiedeva notizie su inchieste di mafia e latitanti, Ninni gliene passava meno di quanto ne sapesse".



1.5. Il
blitz all'Hotel Costa Verde del 1985


Nel 1985 alla Squadra Mobile di Palermo era giunta notizia che all'hotel "Costa Verde" di Cefalù ci sarebbe stato un ricevimento di nozze di un boss e che a questo ricevimento avrebbero partecipato diversi mafiosi latitanti. La notizia insospettì tutti, dato che tra i proprietari di quell'albergo figurava, in maniera più o meno palese, anche Giuseppe Farinella, boss di San Mauro Castelverde, un paese vicino Cefalù.
Il giorno del ricevimento la Squadra Mobile circonda l'albergo. Le donne dei mafiosi presenti al matrimonio, secondo una triste prassi nota non solo a Palermo ma anche in altre terre schiave di mafie e omertà di vario genere come Napoli, si schierano all'ingresso per non fare entrare i poliziotti. Segue una lunga trattativa, alla fine della quale lo stesso capo della Squadra Mobile, Ignazio D'Antone, entra insieme ad alcuni agenti per effettuare un controllo al fine di identificare i presenti. L'operazione si conclude con un nulla di fatto.
Per quest'episodio D'Antone viene indagato dalla Procura di Termini Imerese con l'ipotesi di reato di favoreggiamento. Il fascicolo passerà presto nelle mani della Procura di Palermo, che ipotizzerà, invece, il reato di concorso esterno in associazione mafiosa.



1.6. Quel battesimo
del 1984 alla Chiesa della Magione di Palermo


La notte della vigilia di Natale del 1984 l'antica e splendida Chiesa dei Cavalieri Teutonici di Palermo, più conosciuta come Magione, è teatro del battesimo di uuno dei nipoti del boss Pietro Vernengo. Alla Squadra Mobile di Palermo era arrivata la notizia della presenza di numerosi latitanti, ma l'operazione non scattò. La signora Saveria Antiochia, madre di Roberto Antiochia, il poliziotto ucciso il 5 agosto 1985 insieme a Ninni Cassarà, racconta alla Commissione Parlamentare Antimafia che il figlio volle ugualmente recarsi alla Magione per controllare la situazione e vi trovò il capo della Squadra Mobile, Ignazio D'Antone, suo diretto superiore, che gli disse di andare via. Mentre andava via, Antiochia annotò i numeri di targa delle auto posteggiate fuori dalla Chiesa e fece rapporto.



1.7. Le accuse del "pentito" Salvatore Cancemi



Salvatore Cancemi
, mafioso della famiglia palermitana di Porta Nuova e uno degli autori della strage di Capaci, racconta la seguente storia: "Nei primi mesi del 1980" - sostiene - "mentre ero in macchina con Giuseppe Zaccheroni, un 'soldato' della famiglia di Porta Nuova, in corso Vittorio Emanuele, a Palermo, incrociammo una macchina di sbirri. Io non li conoscevo. Ma Zaccheroni mi indicò quello accanto all'autista, mi disse che era D'Antone, uno della stessa cordata di Contrada. Mi disse che Cosa Nostra lo aveva nelle mani, non so se tramite Contrada o direttamente".
Cancemi ha sostenuto, inoltre, che di D'Antone gli aveva parlato anche Giovanni Lipari, sottocapo del mandamento di Porta Nuova.





2. LA DIFESA



2.1. La deposizione di Tonino De Luca


Spatola decise di tacere perchè aveva chiesto soldi per comprare cocaina in cambio della collaborazione e questi soldi non gli vennero dati. A sostegno della sua deposizione De Luca cita il maresciallo Enrico Ciavattini, che lavorava con lui presso l'Alto Commissariato Antimafia. Ma Ciavattini lo smentisce e la Procura di Palermo incrimina De Luca per falsa testimonianza.
Lasciamo il resoconto di tutto ciò alle parole di Tonino De Luca, chiamato a testimoniare al processo Contrada il 28 ottobre 1994:

DE LUCA - "Mentre parlavo con Spatola presso l'Alto Commissariato Antimafia a Roma, alla presenza di Ciavattini, non successe mai che, affacciandosi D'Antone nel mio ufficio, Spatola si zittisse e decidesse di non collaborare più. D'Antone potè affacciarsi spesso nel mio ufficio, ma Spatola non si fermò mai e non smise mai di parlare dopo aver visto D'Antone. Le cose, invece, andarono nella seguente maniera. Un giorno Ciavattini mi riferì delle crisi di astinenza da cocaina di cui Spatola era vittima: Spatola chiedeva a noi di procurargli della cocaina! Io, allora, andai dall'Alto Commissario Antimafia Domenico Sica e gli dissi testualmente 'Spatola non ci serve più'. La collaborazione con Spatola, dunque, la interruppi io, non Spatola."


2.2.

Bruno Contrada, Tonino De Luca e Ignazio D'Antone hanno formato un affiatatissimo trio di investigatori che più volte hanno collaborato insieme e si sono distinti per i risultati raggiunti nella lotta contro la mafia. Sono in molti a descriverli, insieme a Boris Giuliano, come gli investigatori in assoluto più preparati ed impegnati della Questura di Palermo. Lo stesso "pentito" Gaspare Mutolo ha raccontato che "nel 1975 la mafia temeva principalmente tre funzionari di polizia: Bruno Contrada, Tonino De Luca e Boris Giuliano".



SALVO GIORGIO

1 comment:

Anonymous said...

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